La città di Dio

Indice

Errori sull'atto e sull'essenza trinitaria di Dio

22 - Contro i manichei bene e male nel creato

Questa dunque è la ragione, cioè la bontà di Dio nel creare cose buone.

Ma certi eretici non han saputo scorgere questa ragione tanto giusta e conveniente che, attentamente considerata e religiosamente meditata, pone fine a tutte le discussioni di coloro che indagano sull'origine del mondo.

Dicono che innumerevoli cose, come il fuoco, il freddo, una belva e altre simili affliggono, in quanto la contrariano, la bisognosa e fragile natura mortale del nostro essere fisico, proveniente da una giusta condanna.

Non riflettono che queste cose hanno l'essere nel proprio rango e natura e sono disposte secondo un ordine ammirevole, che concorrono con le proprie parti convenienti al tutto come in uno stato comunitario e che comportano un vantaggio anche per noi se le usiamo convenientemente e consapevolmente.

Anche i veleni, che secondo la parte non conveniente sono dannosi, se usati convenientemente, divengono medicine efficaci.

Al contrario anche le cose piacevoli, come il cibo, la bevanda e la luce, con l'uso smodato e inopportuno si rendono nocive.

E per questo la divina provvidenza ci ammonisce a non deprezzare stoltamente le cose ma a ricercarne attentamente l'utilità e, dove la nostra intelligenza o meglio la sua debolezza non arrivano, credere a una utilità nascosta.

Si avevano delle utilità che molto difficilmente siamo riusciti a scoprire.

Infatti anche l'ignoranza dell'utilità di una cosa è o un esercizio d'umiltà o repressione dell'orgoglio.

L'essere comunque non è in senso assoluto un male e questo concetto è soltanto di privazione del bene.

Dalle cose della terra a quelle del cielo, dalle visibili a quelle invisibili ci sono beni più o meno perfetti ed ineguali affinché tutti ci siano.

Dio è un ideatore così grande nelle cose grandi da non essere meno grande nelle piccole.

E le cose piccole non si devono misurare dalla loro grandezza che non esiste, ma dalla sapienza dell'ideatore.

È come se nella figura del corpo umano venga tagliato un sopracciglio.

Non si toglie pressoché nulla al fisico, ma molto alla bellezza, perché essa non risulta dalla grandezza ma dalla proporzionata misura delle parti.

Non c'è molto da meravigliarsi quindi se coloro, i quali ritengono che qualche essere è cattivo perché ha avuto origine e diffusione da un suo principio contrario, non vogliono accettare questa ragione della creazione delle cose, che cioè un Dio buono ha creato cose buone.

Credono appunto che egli è stato piuttosto indotto alla creazione del mondo dalla suprema necessità di respingere il male che gli si ribellava, che per respingerlo e superarlo ha commischiato ad esso la propria natura buona e che può appena con grande fatica liberarla e purificarla, perché indegnamente macchiata e crudelmente imprigionata e assoggettata.

E non tutta la libererà ma quella parte di lui che non potrà essere purificata dalla contaminazione diverrà carcere e catene del nemico vinto e rinchiuso.

I manichei non avrebbero detto queste scemenze o meglio pazzie, se avessero ritenuto la natura di Dio, com'è veramente, immune dal divenire e dalla corruzione.

E per questo nulla le può nuocere.

Avrebbero anche ammesso con la sana dottrina cristiana che l'anima, la quale poté mutarsi in peggio per sua volontà e corrompersi per il peccato ed essere così privata della luce della verità non diveniente, non è parte di Dio o della sua natura che è Dio stesso, ma che è stata da lui creata in un grado molto inferiore di perfezione nei confronti del Creatore.

23.1 - Errore di Origene sulla creazione …

Ma c'è molto più da meravigliarsi che errano in proposito anche alcuni i quali ammettono con noi che uno solo è il principio di tutte le cose e che ogni natura, la quale non ha l'essere identico a quello di Dio, può esistere soltanto da lui.

Non hanno voluto ammettere tuttavia mediante l'unica buona teoria questa unica buona ragione della creazione del mondo, che cioè Dio buono ha creato buone le cose, che esse sono a lui inferiori perché non sono ciò che egli è, buone tuttavia perché le può creare soltanto Dio.

Affermano inoltre che le anime, considerate non come parte di Dio ma create da Dio, hanno peccato allontanandosi da Dio e che secondo la differenza dei peccati con differenti cadute dal cielo alla terra hanno meritato come prigione i differenti corpi.

Aggiungono che in tal modo è stato prodotto il mondo e che la ragione della creazione del mondo non fu di produrre il bene, ma di reprimere il male.

Di questa teoria è responsabile Origene.

Formulò ed espose questa tesi nei libri che chiama περί Άρχών, cioè Dei princìpi.

E in proposito mi meraviglio, più di quanto mi sia possibile esprimerlo, che un individuo tanto colto ed esercitato nei libri della sacra Scrittura non abbia riflettuto a due cose.

Prima di tutto la tesi è contraria al testo della Scrittura che è di tanta autorità.

Esso infatti ha chiosato tutte le opere di Dio con la frase: E Dio vide che era un bene ( Gen 1,10.12.18.21.25 ) e soggiungendo al completamento di esse: E Dio vide tutte te cose che aveva fatte ed erano buone assai. ( Gen 1,31 )

Ha voluto così far intendere che l'unica ragione di creare il mondo fu che cose buone fossero create da Dio buono.

E se nel mondo non si fosse peccato, esso sarebbe ornato e pieno esclusivamente di esseri buoni e dal fatto che si è peccato, non per questo tutto il creato è invaso dal peccato.

Intanto fra gli esseri celesti un numero di gran lunga superiore di buoni conserva il fine del proprio essere; inoltre la volontà cattiva per il fatto che non ha voluto conservare il fine del proprio essere non sfugge le leggi di Dio giusto che dispone al fine tutte le cose.

Infatti come una pittura è bella anche col colore oscuro, se ben disposto nelle parti, così l'universo, se si potesse cogliere in una intuizione, è bello anche con i peccatori, sebbene in sé considerati la loro bruttura li deturpa.

23.2 - … e sulla caduta e pena

In secondo luogo Origene e coloro che sostengono questa tesi avrebbero dovuto fare questa considerazione.

Se la loro teoria fosse vera, il mondo sarebbe stato creato perché le anime, secondo la gravità dei peccati, avessero come prigioni, in cui essere rinchiuse per pena, i corpi, quelle che hanno meno peccato i più alti e leggeri e quelle che hanno peccato di più i più bassi e pesanti.

Ma allora i demoni, di cui nessun essere è peggiore, anziché gli uomini anche onesti, avrebbero dovuto avere corpi terreni che sono i più bassi e pesanti fra tutti.

Al contrario perché intendessimo che la dignità spirituale non va pesata con le qualità fisiche, il demonio, più cattivo, ha avuto un corpo etereo, l'uomo invece, cattivo nello stato attuale ma di una cattiveria più moderata e trattabile, ed anche prima del peccato, ha avuto un corpo terrestre. ( Gen 2,7 )

Ed è il più banale non senso il dire che Dio ideatore non ha provveduto il sole, uno solo in un solo mondo, per la sovrana bellezza ed anche per la conservazione delle cose materiali, ma che si è verificato così perché una sola anima ha peccato in una certa maniera che doveva essere chiusa dentro il corpo del sole.

Pertanto se fosse capitato che non una, ma due, anzi dieci e cento avessero peccato nell'identica maniera e misura, questo mondo, a sentir loro, avrebbe cento soli.

E perché ciò non si avverasse, non fu ottenuto dalla mirabile provvidenza di chi compiva l'opera al fine della conservazione e della bellezza dei corpi, ma è avvenuto a causa di una caduta tanto importante di una sola anima peccatrice che quindi da sola ha meritato un corpo così nobile.

Ma si deve impedire debitamente la caduta della gente che sostiene questa teoria così lontana dalla verità e non quella delle anime, di cui non sanno quel che dicono.

Quando dunque si ricercano in ciascuna creatura le tre ragioni, che ho ricordato dianzi, e cioè chi l'ha creata, per mezzo di che cosa l'ha creata, perché l'ha creata, si deve rispondere: "Dio, per mezzo del Verbo, perché è buona".

Ma se con queste parole in un sublime mistero ci viene suggerita la Trinità stessa cioè il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo o al contrario c'è qualche difficoltà che proibisce tale interpretazione di quel passo della Scrittura, è un problema che richiede un lungo discorso.

E non ci si deve stimolare a trattare tutto in un solo volume.

24 - La Trinità e la città di Dio

Crediamo, accettiamo e fedelmente insegniamo che il Padre ha generato il Verbo, cioè la Sapienza per mezzo della quale sono state create tutte le cose, Figlio unigenito, uno da uno, eterno da eterno, sommamente buono da egualmente buono e che lo Spirito Santo è insieme lo Spirito del Padre e del Figlio, anche egli consustanziale e coeterno ad entrambi.

Ed insieme è Trinità per la distinzione delle Persone e un solo Dio per la inseparabile divinità, come un solo onnipotente per la inseparabile onnipotenza.

Tuttavia, quando si chiede delle singole Persone, si deve rispondere che ciascuna è Dio ed è onnipotente; quando invece si chiede di tutte insieme, si deve rispondere che non sono tre dèi o tre onnipotenti, ma un solo Dio onnipotente perché intima è nei tre l'inseparabile unità.

In questi termini la Trinità si è voluta far conoscere.

Non oso poi buttar là un'opinione azzardosa sulla domanda se lo Spirito Santo si possa considerare la bontà del Padre buono e del Figlio buono, poiché è comune a entrambi.

Oserei piuttosto considerarlo la santità d'entrambi, non come loro qualità ma ipostasi in sé e terza Persona nella Trinità.

M'induce a questa teoria puramente opinabile la considerazione che essendo il Padre spirito e il Figlio spirito, il Padre santo e il Figlio santo, egli viene per proprietà chiamato Spirito Santo, in quanto santità ipostatica e consustanziale di entrambi.

Ma se la bontà di Dio non è altro che la sua santità, è competenza della ragione, e non azzardo della presunzione, che dalle opere di Dio, sempre nel rispetto del mistero, da cui è stimolata la nostra riflessione, si giunga alla conoscenza della Trinità nei tre motivi: chi ha prodotto ogni creatura, per mezzo di chi l'ha prodotta, per quale ragione l'ha prodotta.

Infatti in chi ha detto che fosse prodotta è significato il Padre del Verbo; l'essere che con la sua parola è stato creato, indubbiamente è stato creato per mezzo del Verbo; infine con l'espressione: Dio vide che era un bene si indica abbastanza chiaramente che Dio ha creato ciò che è stato creato, non per necessità o per la soddisfazione di un suo bisogno, ma per bontà, e cioè perché è un bene.

E si dice dopo che è stata creata per indicare che la cosa creata corrisponde alla bontà per cui è stata creata.

E se è esatta l'interpretazione dello Spirito Santo come bontà, ci viene fatta conoscere tutta la Trinità nelle sue opere.

Da qui si hanno l'origine, la ragione ideale e il fine ultimo della città santa esistente in alto nei santi angeli.

Infatti se si chiede da chi ha l'esistenza, si risponde che Dio l'ha fondata; se da che cosa è sapiente, si risponde che è illuminata da Dio; se da che cosa è felice, si risponde che gode Dio.

È ordinata nel suo essere, è illuminata per la contemplazione, è resa felice nell'unione; esiste, intuisce, ama; dura nell'eternità di Dio, splende nella verità di Dio, gode nella bontà di Dio.

25 - La Trinità e le parti della filosofia

Per quanto è dato di rilevare, i filosofi hanno ritenuto che l'insegnamento della sapienza fosse diviso in tre parti, anzi riuscirono ad accorgersi che si divide in tre parti, perché non stabilirono loro che così fosse ma piuttosto scoprirono che è così.

Una parte si chiama fisica, l'altra logica, la terza etica.

I corrispondenti termini latini sono ormai usati negli scritti di molti; si ha così la filosofia naturale, razionale e morale.

Ne abbiamo parlato in breve anche nell'ottavo libro.

Non ne consegue che con questa tripartizione i filosofi abbiano avuto un concetto della Trinità divina.

Si dice comunque che Platone per primo abbia trovato e legittimato questa distinzione perché ritenne che soltanto Dio è autore di tutti gli esseri, datore dell'intelligenza e animatore dell'amore con cui si vive nell'onestà e nella felicità.

E sebbene i vari filosofi sostengano opinioni diverse sulla natura, sulla teoria della conoscenza della verità e sulla finalità del bene, alla quale dobbiamo ricondurre ogni nostra azione, comunque tutta la loro indagine verte su questi tre grandi e generali problemi.

Quindi sebbene in ciascuna di esse si abbia una notevole divergenza di opinioni secondo le varie scuole, non si mette in discussione che esiste un principio causale della natura, un costitutivo della scienza, la norma del vivere.

Egualmente tre doti sono rilevate nell'esperto di tecnica per compiere un'opera: la dote naturale, l'istruzione, l'uso pratico.

La dote naturale si valuta dall'attitudine, l'istruzione dalla scienza, l'uso pratico dal godimento.

Non ignoro che a rigore il godimento è di chi gode e l'uso di chi usa e si ha questa differenza, che il godere si dice di un oggetto il quale diletta di per sé senza esser posto in relazione ad altro, mentre l'usare si dice di un oggetto che si cerca come mezzo.

E per questo si deve usare e non godere delle cose temporali per godere delle eterne, non come fanno i pervertiti che vogliono godere del denaro e usare Dio, perché non valutano il denaro in relazione a Dio, ma adorano Dio per il denaro.

Comunque, secondo un linguaggio introdotto dalla consuetudine, usiamo i godimenti e godiamo gli utili.

D'altra parte ormai il termine fructus è passato a significare i prodotti della campagna, dei quali noi tutti usiamo per il benessere temporale.

In questo senso parlerei di uso pratico nelle tre doti da considerarsi nell'uomo, che sono la dote naturale, l'istruzione e l'uso pratico.

Da questi significati i filosofi, come ho detto, hanno derivato una triplice disciplina per conseguire la felicità, e cioè la naturale per la dote, la razionale per l'istruzione, la morale per la prassi.

Se dunque la nostra natura venisse all'esistenza da noi, noi avremmo generato anche la nostra sapienza e non ci preoccuperemmo di conseguirla con l'istruzione, cioè apprendendo da altri.

Anche il nostro amore, se provenisse da noi e fosse riferito a noi, basterebbe per la felicità e non avrebbe bisogno di un altro bene di cui godere.

Al contrario, poiché la nostra dote naturale per esistere ha come autore Dio, indubbiamente per avere la sapienza della verità dobbiamo averlo come maestro e per esser felici lo dobbiamo avere come datore della interiore capacità di amare.

26 - La Trinità e le tre dimensioni dell'essere

Noi ravvisiamo in noi l'immagine di Dio, cioè della somma Trinità.

Certamente non è eguale, anzi assai differente e non coeterna e, per dir tutto in breve, non della medesima esseità di cui è Dio.

Tuttavia è tale che nessuna delle cose da lui create gli è più vicina nell'essere ed è ancora da perfezionarsi in un rinnovamento continuo perché gli sia sempre più vicina nella somiglianza.

Noi esistiamo infatti, abbiamo coscienza di esistere e amiamo il nostro esistere e l'averne coscienza.

E per quanto riguarda queste tre dimensioni che ho detto, non ci rende incerti l'aspetto illusorio di una copia del vero.

Non ce le rappresentiamo infatti col senso corporeo allo stesso modo degli oggetti esterni, come percepiamo i colori con la vista, i suoni con l'udito, gli odori con l'olfatto, i sapori col gusto, i corpi duri e morbidi col tatto o come riproduciamo in una rappresentazione o conserviamo nella memoria le immagini molto simili e non più corporee di questi sensibili o come siamo stimolati mediante tali immagini all'appetizione dei sensibili stessi.

Ed è assolutamente certo al di là dell'illusoria apparenza delle immaginazioni e delle immagini, che io esisto e che ne ho coscienza e amore.

In relazione a questi tre oggetti non si ha il timore dell'obiezione degli accademici: "E se t'inganni?".

"Se m'inganno, esisto".

Chi non esiste, non si può neanche ingannare e per questo esisto se m'inganno.

E poiché esisto se m'inganno, non posso ingannarmi d'esistere, se è certo che esisto perché m'inganno.

Poiché dunque, se m'ingannassi, esisterei, anche se m'ingannassi, senza dubbio non m'inganno nel fatto che ho coscienza di esistere.

Ne consegue che anche del fatto che ho coscienza di aver coscienza non m'inganno.

Come ho coscienza di esistere, così ho coscienza anche di aver coscienza.

E quando faccio oggetto di amore queste due cose, aggiungo un terzo aspetto di inestimabile valore alle cose di cui ho coscienza.

Non posso ingannarmi di amare, poiché non m'inganno sulle cose che amo ed anche se esse ingannano, è vero che amo cose che ingannano.

Infatti non v'è motivo d'essere giustamente biasimato e giustamente trattenuto dall'amore delle cose false, se è falso che le amo.

Al contrario, se quei due oggetti sono veri e certi, non si può dubitare che anche l'amore verso di loro, nell'atto che sono amati, è vero e certo.

E come non si vuole non esistere, così non si vuole non esser felici.

E non si può esser felici se non si esiste.

27.1 - Universale desiderio dell'esistenza

Inoltre per un naturale impulso l'esistere è talmente amabile che non per altro motivo anche gli infelici non vogliono morire e, pur riconoscendosi infelici, preferiscono che scompaia la loro infelicità e non essi dall'esistenza.

Vi sono alcuni che non solo si credono molto infelici, e lo sono difatti, e sono giudicati infelici, in quanto insipienti, non solo dai sapienti ma, in quanto miserabili costretti a mendicare anche da quelli che si illudono di esser sapienti.

Poniamo che a costoro fosse concessa l'immortalità con la quale la loro infelicità non verrebbe mai a cessare.

Considerando che se non volessero rimanere per sempre nella medesima infelicità, cesserebbero di esistere e non esisterebbero mai più ma finirebbero del tutto, esulterebbero certamente di gioia e sceglierebbero di esistere per sempre in quella condizione, anziché non esistere affatto.

Ne fa fede il loro sentimento conosciuto da tutti.

Temono di morire, preferiscono vivere in quello stato miserevole anziché porvi un termine con la morte, appunto perché è abbastanza evidente quanto la natura rifugga dal non esistere.

E perciò sapendo che devono morire, desiderano a titolo di grande favore che sia loro accordata la grazia di vivere in quella infelicità un po' più a lungo e di morire più tardi.

Dimostrano dunque palesemente che riceverebbero con molta gratitudine sia pure quell'immortalità che non comporti la fine della mendicità.

Ma tutti gli animali anche irragionevoli, ai quali non è consentito di fare simili riflessioni, dagli enormi coccodrilli ai minuti vermicelli, indicano, con tutti i movimenti di cui sono capaci, che vogliono vivere e che per questo rifuggono dalla morte.

Ed anche gli alberi e tutte le piante, che non hanno senso per evitare con un movimento palese la propria fine, per mandare in alto al sicuro la gemma apicale, fissano in profondità nella terra le radici con cui nutrirsi e conservare così nel loro limite il proprio esistere.

Infine i corpi stessi, che non solo non hanno la sensazione ma neanche per lo meno la vita seminale, tuttavia salgono verso l'alto o discendono verso il basso o si tengono sospesi nel mezzo per conservare il proprio essere in quello spazio in cui secondo natura è loro possibile.

27.2 - Gli esseri e il conoscere

Inoltre fino a qual punto è oggetto di amore il conoscere e fino a qual punto rifugga dall'illudersi la natura umana si può derivare anche dal fatto che si preferisce soffrire nella sanità mentale che gioire nella pazzia.

Questa energia tanto meravigliosa non esiste nei viventi mortali, escluso l'uomo, sebbene alcuni di loro abbiano il senso visivo molto più acuto dell'uomo nel percepire la luce sensibile.

Ma non possono raggiungere la luce intelligibile, con cui la nostra intelligenza viene in determinata misura illuminata per giudicare obiettivamente di tutti i sensibili.

E possiamo giudicarli nei limiti della nostra capacità ad afferrare quella luce.

Tuttavia esiste anche negli animali irragionevoli una parvenza di scienza che comunque scienza non è in senso assoluto.

Le altre cose del mondo fisico sono chiamate sensibili non nel senso che sentono ma che sono sentite.

Nelle piante ha parvenza di sensazione il fatto che si nutrono e riproducono.

Tuttavia esse e tutte le cose fisiche hanno nella natura cause non apparenti ma fanno apparire alla percezione dei sensi le proprie qualità, da cui risulta bella la struttura del mondo visibile.

Sembra quasi che, essendo incapaci di conoscere, vogliano farsi conoscere.

Questi oggetti si percepiscono col senso ma in maniera da non poterli giudicare col senso.

Abbiamo infatti un altro senso, quello interiore, ben più nobile del senso esteriore, con cui si percepisce la convenienza o la non convenienza degli oggetti, la convenienza mediante la specie intelligibile, la non convenienza mediante la sua negazione.

Alla funzione di questo senso non partecipano la pupilla dell'occhio, la cavità dell'orecchio, l'inalazione delle narici, l'assaggio del palato e la sensibilità tattile.

Nel senso interiore io ho certezza di esistere e di averne coscienza, amo questi dati e allo stesso modo ho certezza di amarli.

28 - L'amore amato conduce a Dio

Ho detto abbastanza, quanto mi è parso che richiedesse il disegno dell'opera intrapresa, sui primi due concetti, che sono l'esistere e l'averne coscienza, cioè fino a qual punto siano oggetto di amore in noi e in quale misura si riscontri una loro immagine, sebbene differente, anche negli esseri inferiori a noi.

Non si è parlato dell'amore con cui sono amati e se anche l'amore è amato.

È amato certamente. Lo proviamo dal fatto che esso è amato di più negli uomini che sono più rettamente amati.

Non è giusto infatti considerare una persona buona quella che sa ciò che è bene ma quella che lo predilige.

Perché dunque non sentiamo di amare in noi stessi l'amore stesso con cui amiamo ogni bene che amiamo?

Vi è infatti un amore con cui si ama anche un oggetto che non si deve amare e l'uomo, il quale sceglie l'amore con cui si ama l'oggetto che si deve amare, odia in se stesso l'amore perverso.

È possibile che si abbiano entrambi in una sola persona ed è un bene per l'uomo che mentre l'amore buono aumenta, l'altro diminuisca fino alla completa guarigione e ogni atto della nostra vita diventi un bene.

Se fossimo bestie, ameremmo la nostra vita carnale e ciò che è conveniente alla sua facoltà sensitiva, essa sarebbe il bene che ci soddisfa e in vista di essa, giacché per noi sarebbe come un fine, non cercheremmo altro.

E se fossimo alberi, non potremmo amare qualche cosa in base allo stimolo della sensazione, tuttavia sembrerebbe quasi che tendiamo allo scopo di produrre frutti nella maggiore abbondanza.

Se fossimo terra, acqua, aria, fuoco o altro di simile senza senso e vita, non ci mancherebbe tuttavia la quasi tendenza ad occupare lo spazio stabilito per noi.

Infatti le spinte dei pesi sono come gli amori dei corpi, sia che tendano al basso per gravità o all'alto per leggerezza.

Come infatti il corpo dal peso, così lo spirito è portato dall'amore, in qualunque direzione sia portato.

Noi siamo uomini creati a immagine del nostro Creatore che ha vera eternità, eterna verità, eterno e vero amore ed è egli stesso eterna vera amante Trinità senza commischianza e senza separazione.

Ma anche le cose a noi inferiori non esisterebbero nel loro limite, non sarebbero contenute in una idea, non tenderebbero e non conserverebbero l'ordine loro assegnato, se non fossero create da lui che è, è sapiente, è buono al di là di ogni limite.

Noi dobbiamo dunque, come percorrendo tutti gli esseri che ha creato con meraviglioso ordine fisso, cogliere le sue orme impresse dove più, dove meno.

Ravvisando poi in noi stessi la sua immagine e rientrando in noi come il figliol prodigo del Vangelo, ( Lc 15,17-18 ) alziamoci in piedi e torniamo a lui, da cui ci eravamo allontanati peccando.

In lui il nostro esistere non avrà fine, in lui il nostro conoscere non incorrerà nell'errore, in lui il nostro amare non incontrerà ripulsa.

In questa vita noi riteniamo come certi questi tre valori e non li accettiamo per la testimonianza di altri, ma li avvertiamo in atto in noi stessi e li riconosciamo con lo sguardo interiore sommamente verace.

Tuttavia non potendo da noi stessi conoscere fin quando dureranno o se non cesseranno mai e quale destinazione avranno se si tiene una buona o una cattiva condotta, sul problema cerchiamo o già possediamo la testimonianza di altri.

Però non è questo ma verrà in seguito il momento opportuno di trattare più attentamente la ragione per cui non si può avere alcun dubbio sulla veracità di queste testimonianze.

In questo libro si tratta della città di Dio che non è esule nella soggezione alla morte della vita terrena ma è eternamente immortale nei cieli, si tratta cioè degli angeli santi uniti a Dio che non furono e non saranno ribelli.

Ho già esposto che Dio all'inizio ha separato questi angeli da quelli che, abbandonando la luce eterna, sono divenuti tenebra.

Ed ora, con l'aiuto di Dio, nei miei limiti tratterò l'argomento iniziato.

29 - La visione degli angeli

Gli angeli santi non conoscono Dio per mezzo del suono delle parole, ma nella presenza stessa della verità che non diviene, cioè il suo Verbo unigenito.

Conoscono anche il Verbo stesso, il Padre e il loro Spirito Santo e che essi sono una inseparabile Trinità, che le singole Persone in essa sono sussistenti e che non sono tuttavia tre dèi ma un solo Dio, in maniera da avere maggiore conoscenza essi di queste verità che noi di noi stessi.

Conoscono inoltre il creato meglio nella sapienza di Dio, in quanto idea da cui è stato prodotto, che in esso stesso e perciò anche se stessi meglio nell'idea che in se stessi, sebbene anche in se stessi.

Anche essi infatti sono stati creati e sono altro da chi li ha creati.

Nell'idea dunque si conoscono quasi di una conoscenza mattinale, in se stessi quasi in una conoscenza serale, come ho detto precedentemente.

Si ha notevole differenza se una cosa si conosce nella ragione secondo cui è stata prodotta ovvero in se stessa.

In un modo infatti si conosce il concetto delle linee rette, quanto dire la nozione essenziale delle figure, quando si esaminano con l'intelligenza, ( Rm 1,20 ) e in un altro quando si tracciano nella polvere.

Così in un modo si conosce la giustizia nella sua idea immutabile e in un altro nell'anima dell'uomo giusto.

Lo stesso si dica delle altre cose, come il firmamento fra le acque che stanno in alto e quelle che stanno in basso che è stato chiamato cielo, come il radunarsi delle acque in basso, l'apparire della terra e la produzione delle erbe e delle piante, come la formazione del sole, della luna e delle stelle e quella degli animali dalle acque, cioè dei volatili, pesci e delle bestie marine e infine di tutti gli animali che camminano o strisciano sulla terra e dell'uomo stesso che doveva essere superiore a tutti gli esseri terrestri.

Tutte queste cose sono conosciute dagli angeli in un modo nel Verbo, in cui hanno immobili fuori del divenire le loro cause e ragioni ideali, cioè quelle secondo cui sono state create, e in un altro modo in esse.

Quella è conoscenza più chiara, questa più oscura, perché una è dell'idea, l'altra delle opere.

Ma quando queste sono riferite a lode e adorazione del Creatore, nella intelligenza di coloro che ne hanno pura conoscenza si fa giorno come di mattino.

30 - La perfezione del sei

A causa della perfezione del numero sei si narra nella Scrittura che queste opere sono state condotte a perfezione in sei giorni che sono il medesimo giorno ripetuto sei volte.

La ragione non è che a Dio fosse necessario uno spazio di tempo, come se non avesse il potere di creare simultaneamente tutte le opere che poi il tempo avrebbe posto nella successione secondo i movimenti convenienti.

La ragione è invece che mediante il sei è stata indicata la perfezione del creato.

Il numero sei infatti è il primo ad essere compiuto dalle proprie parti, cioè la sesta, la terza parte e la metà, che sono l'uno, il due e il tre e che addizionati danno il sei.

In questo esame dei numeri si devono considerare come parti dei numeri quelle di cui si può dire che sono tante volte in un numero come la metà, la terza e la quarta parte e così le altre che si denominano da un numero.

Ad esempio, dal fatto che il quattro è una determinata parte del nove, non si può dire che vi è tante volte.

È possibile invece per l'uno che è la sua nona parte e per il tre che è la terza parte.

Queste due parti, la nona e la terza, cioè l'uno e il tre, addizionate sono ben lontane dall'intero che è il nove.

Egualmente il quattro è una determinata parte del dieci, ma non si può dire che vi sia tante volte.

Si può dire invece dell'uno che è la decima parte ed anche della quinta parte che è il due e della metà che è il cinque.

Ma queste tre parti, che sono la decima, la quinta e la metà, cioè l'uno, il due e il cinque, addizionate non danno dieci ma otto.

Al contrario le parti del dodici addizionate lo oltrepassano; ha infatti la dodicesima che è l'uno, la sesta che è il due, la quarta, che è il tre, la terza che è quattro ed anche la metà che è sei, ma uno, due, tre, quattro e sei non fanno dodici ma di più, cioè sedici.

Ho ritenuto di richiamare brevemente queste nozioni per evidenziare la perfezione del numero sei, che è il primo ad essere compiuto dalle sue parti addizionate.

E in esso Dio ha compiuto le sue opere.

E per questo non si deve trascurare il significato aritmetico.

A chi riflette con attenzione appare evidente quale valore abbia in molti passi della sacra Scrittura.

Non per caso è stato detto a lode di Dio: Hai disposto tutte le cose nella misura, nel numero e nel peso. ( Sap 11,21; Is 40,12; Gb 28,25 )

31 - Simbolismo del sette e del riposo di Dio

Nel giorno settimo, che è sempre lo stesso giorno ripetuto sette volte ed anche esso per altra ragione è un numero perfetto, si mette in rilievo il riposo di Dio. ( Gen 2,2-3 )

In esso si ha primieramente il tono della Sacralità.

Dio non volle rendere sacro questo unico giorno in alcune delle sue opere, ma nel suo riposo che non ha sera.

In esso non è prodotta una creatura che, conoscendosi in un modo nel Verbo e in un altro in se stessa, renda diversa la conoscenza mattinale da quella serale.

Della perfezione del numero sette si possono dire molte cose.

Ma questo libro è già abbastanza lungo e temo non si pensi che, approfittando dell'occasione, vado pavoneggiandomi con la mia modesta cultura più per leggerezza che per l'utilità.

Si deve dunque mantenere il criterio di una soppesata moderazione, affinché non mi si faccia la critica che, a forza di parlare del numero, ho trascurato la misura e il peso.

È sufficiente ricordare che il primo numero totalmente impari è il tre e che il primo totalmente pari è il quattro e che dai due per somma risulta il sette.

E per questo spesso si usa nel senso di un tutto.

Ad esempio si ha: Il giusto cadrà sette volte e si rialzerà, ( Pr 24,16 ) cioè ogni volta che cadrà, non si perderà.

La Scrittura ha indicato che il passo non va interpretato in termini di malvagità ma di sofferenze che inducono all'umiltà.

Si ha inoltre: Ti loderò sette volte al giorno. ( Sal 119,164 )

Il medesimo concetto si ha in un altro passo con altra formulazione: La sua lode è sempre sulla mia bocca. ( Sal 34,2 )

E altre espressioni simili si hanno nella sacra Scrittura in cui, come ho detto, il numero sette di solito si usa per indicare la totalità di un concetto qualsiasi.

Per questo motivo col medesimo numero si indica talora lo Spirito Santo, di cui il Signore ha detto: Vi insegnerà ogni verità. ( Gv 16,13 )

In quel giorno si ha il riposo di Dio perché in esso ci si riposa in Dio.

Nel tutto infatti, cioè nella piena perfezione si ha il riposo, nella parte la fatica.

Ci affatichiamo appunto, perché conosciamo soltanto in parte, ma quando giungerà ciò che è perfetto, sarà eliminato ciò che è in parte. ( 1 Cor 13,9-10 )

Pertanto si richiede fatica anche per investigare questi passi della Scrittura.

Al contrario gli angeli santi, alla cui compagnia e comunità aneliamo in questo travagliato esilio, hanno l'eternità dell'esistere come pure la facilità del conoscere e la serenità del riposo.

Ci aiutano quindi senza provare disagio, perché, dati i puri e liberi movimenti spirituali, non si affaticano.

32 - Prima del mondo gli angeli

Qualcuno può ribattere e dire che non sono indicati gli angeli fedeli nell'espressione: Sia fatta la luce e la luce fu fatta; ( Gen 1,3 ) può ritenere opinativamente o anche con certezza che quella qualunque luce creata in principio è corporea.

Gli angeli sarebbero stati creati anteriormente, non solo prima del firmamento che, posto fra le acque di sopra e di sotto, fu chiamato cielo, ma anche prima di quel cielo di cui è stato detto: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. ( Gen 1,1 )

Inoltre l'espressione: Nel principio non andrebbe intesa nel senso che per primo è stato fatto questo cielo, perché prima ha creato gli angeli, ma nel senso che ha creato tutte le cose nella sapienza che è il suo Verbo.

Difatti la Scrittura lo ha chiamato principio, come egli stesso ai Giudei che glielo chiedevano ha indicato nel Vangelo di essere il principio. ( Gv 8,25 )

Non ho nulla da ribattere in contrario a questa interpretazione, tanto più che mi fa molto piacere il fatto che proprio all'inizio del Genesi è indicata la Trinità.

Difatti dopo la frase: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, per fare intendere che il Padre ha creato nel Figlio, come conferma anche un Salmo, in cui si legge: Quanto sono state create grandi le tue opere o Signore!

Hai creato tutte le cose nella sapienza, ( Gv 8,25 ) molto opportunamente poco dopo viene indicato anche lo Spirito Santo.

Vi è indicato appunto quale genere di terra Dio ha creato all'inizio, ovvero quale massa o materia della futura struttura del mondo ha designato col termine di cielo e di terra mediante la sottoindicazione e l'aggiunta: La terra era invisibile e informe e le tenebre erano sull'abisso.

E immediatamente per indicare tutta la Trinità, soggiunge: E lo Spirito di Dio si librava sulle acque. ( Gen 1,2 )

Dunque ciascuno interpreti come vorrà un passo così profondo che ad esercizio di chi legge può dar luogo a molteplici opinioni, purché non deroghino dalla regola della fede.

Non si metta in dubbio tuttavia che gli angeli santi, anche se nel grado più alto dell'essere, non sono coeterni a Dio, ma sono sicuri e certi della propria eterna vera felicità.

E il Signore, insegnando che i suoi piccoli sono inseriti nella società angelica, non solo ha detto che saranno eguali agli angeli di Dio, ( Mt 22,30 ) ma ha insegnato anche di quale visione gli angeli stessi godono con le seguenti parole: Guardatevi dal disprezzare uno di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. ( Mt 18,10 )

33 - Angeli buoni e angeli cattivi nel Genesi

L'apostolo Pietro dichiara apertamente che alcuni angeli hanno peccato e che sono stati rinchiusi nelle parti inferiori di questo mondo che è per loro come un carcere, fino alla definitiva condanna che avverrà nel giorno del giudizio.

Afferma appunto che Dio non ha perdonato agli angeli che peccarono, ma che cacciandoli nella prigione della caligine del mondo inferiore li ha destinati ad essere puniti nel giudizio. ( 2 Pt 2,4 )

Non si può dubitare dunque che Dio ha separato, sia con la prescienza che nell'atto della creazione, questi angeli da quelli buoni; e non si può negare che questi giustamente siano considerati luce.

Anche noi che viviamo tuttora nella fede e che speriamo l'eguaglianza con loro, ma non l'abbiamo ancora raggiunta, anche in questa vita siamo stati chiamati luce dall'Apostolo che dice: Siete stati una volta tenebre, ma ora siete luce nel Signore. ( Ef 5,8 )

Coloro i quali con la ragione o per fede sanno che gli angeli ribelli sono peggiori degli uomini infedeli, riconoscono che essi molto convenientemente sono considerati tenebre.

Perciò, anche se si deve intendere un'altra luce nell'espressione di questo libro: Disse Dio: sia fatta la luce e la luce fu fatta, ed altre tenebre sono state indicate nell'altra frase: Dio fece divisione fra la luce e le tenebre, ( Gen 1,3-4 ) io interpreto, che si tratta dei due gruppi angelici.

Uno gode Dio, l'altro si gonfia di superbia; ad uno è detto: Adoratelo voi tutti angeli del Signore, ( Sal 148,2 ) il capo dell'altra dice invece: Ti darò tutte queste cose se mi adorerai in ginocchio; ( Mt 4,9 ) l'uno ha il fuoco del santo amore di Dio, l'altro il fumo dell'immondo amore della propria grandezza.

E poiché, come è stato scritto, Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili, ( Gc 4,6; 1 Pt 5,5; Pr 3,34 ) quello abita nei cieli più alti, ( Sal 115,16 ) questo cacciato da quel cielo si agita in questo più basso cielo dell'aria; quello è tranquillo nella luce dell'adorazione, questo è sconvolto dalle tenebre del piacere; quello accorre pietosamente e punisce giustamente a un cenno di Dio, questo s'infiamma del proprio orgoglio nel desiderio di asservire e di nuocere; quello è intermediario della bontà di Dio nel soccorrere, fin dove egli vuole, questo è impedito dalla potenza di Dio a nuocere fin dove esso vorrebbe; quello si fa beffe dell'altro affinché, pur non volendolo, sia di giovamento con le proprie persecuzioni, questo gli risponde con l'odio mentre fa l'appello dei propri gregari.

Io dunque ho ritenuto che questi due gruppi angelici, fra di loro dissimili e in lotta, uno buono di natura e retto nel volere, l'altro buono di natura ma perverso nel volere, fatti conoscere da altre più chiare testimonianze della sacra Scrittura, sono stati indicati con i termini di luce e tenebre anche in questo libro intitolato Il Genesi.

Ed anche se l'agiografo in quel passo ha inteso un'altra cosa, non è inutile l'avere esaminato quel passo oscuro, perché anche se non sono riuscito a interpretare il pensiero dell'autore del libro, tuttavia non mi sono allontanato dalla regola della fede, che è ben nota ai fedeli da altri passi della Scrittura egualmente autorevoli.

Ed anche se nel testo sono indicate creature materiali, hanno con le spirituali una determinata analogia in base alla quale dice l'Apostolo: Tutti voi siete figli della luce e figli del giorno, non lo siamo della notte e delle tenebre. ( 1 Ts 5,5 )

Se invece ha inteso in questo senso anche l'agiografo, il mio impegno ha conseguito il termine più ambito della discussione, cioè il non dover credere che un uomo di Dio, dotato di sapienza altamente divina, o meglio per suo mezzo lo Spirito di Dio, nell'elencare le opere di Dio che dice compiute al sesto giorno, si sia dimenticato degli angeli.

Difatti sia che: Nel principio s'intenda all'inizio o che più convenientemente: Nel principio s'intenda che ha creato nel Verbo Unigenito, nell'espressione: Nel principio Dio ha creato il cielo e la terra, (Gen 1,1 ) mediante i due termini di cielo e di terra è stata indicata ogni creatura, sia spirituale che materiale.

Ed è l'interpretazione più attendibile.

Oppure sono stati indicati i due grandi settori del mondo visibile in cui sono contenute tutte le creature.

Quindi l'agiografo prima prospetta l'intero creato e poi ne distribuisce le parti secondo il numero mistico dei giorni.

34 - Falsa interpretazione delle acque

Alcuni hanno pensato che col termine acque sono state indicate per analogia le schiere degli angeli e con la frase: Sia fatto il firmamento fra acqua e acqua ( Gen 1,6 ) si indicherebbe che le acque sopra il firmamento sono gli angeli, e quelle sotto le acque visibili o la moltitudine degli angeli ribelli o tutte le stirpi umane.

Se così si dovesse interpretare, non è stato indicato nel testo quando sono stati creati gli angeli, ma quando sono stati separati.

Alcuni affermano con accento di perversa e irreligiosa leggerezza, che le acque non sono state create da Dio, perché in nessuna parte si trova "Dio disse: siano fatte le acque".

Con egual leggerezza lo possono dire anche della terra, perché in nessun passo si legge: "Dio disse: sia fatta la terra".

Ma ribattono che nella Scrittura si ha: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. ( Gen 1,1 )

Ma con quella frase, rispondo io, si deve intendere anche l'acqua, perché con una sola parola è stato incluso l'uno e l'altro elemento.

Si legge infatti in un Salmo: Di lui è il mare ed egli lo ha creato e le sue mani hanno fissato la terra. ( Sal 95,5 )

Ma coloro, i quali ammettono che col termine di acque poste sopra i cieli si devono intendere gli angeli, sono indotti a questa teoria dalla legge dei pesi degli elementi e non riescono a capacitarsi che sia stato possibile collocare la natura fluida e pesante delle acque nelle parti più alte del mondo.

Se costoro avessero potuto creare l'uomo secondo le proprie idee, non avrebbero posto nella testa il muco nasale che in greco si dice φλέγμα e che fra gli elementi del nostro corpo tiene il posto delle acque.

Al contrario, secondo l'opera di Dio, la testa è la sede del muco nasale, e molto convenientemente, ma irragionevolmente stando alla opinione di costoro.

C'è da pensare che, se non lo sapessimo per esperienza e se nel Genesi fosse scritto anche che Dio ha posto l'elemento fluido e freddo e perciò pesante nella parte più alta del corpo umano, questi soppesatori degli elementi non lo crederebbero.

Riterrebbero, se avessero accettato l'autorità della Scrittura, che in quel testo si deve intendere qualche altra cosa.

Ma se mi mettessi a indagare e trattare in particolare le cose che in quel libro divino sono state scritte sull'origine del mondo, si dovrebbero esporre ancora molti concetti e si avrebbe una digressione dal disegno dell'opera.

Quindi poiché mi pare di aver discusso sufficientemente dei due diversi gruppi di angeli in lotta fra di loro, in cui si hanno determinati inizi delle due città anche in relazione ai fatti umani, dei quali ho divisato di parlare in seguito, chiudo alfine questo libro.

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