La città di Dio |
Ho cominciato a parlare dell'inizio della città santa e ho ritenuto che per prima si dovesse trattare l'argomento degli angeli santi che della città in parola costituiscono una gran parte e tanto più felice in quanto non ha mai provato l'esilio.
Dunque cercherò di produrre con l'aiuto di Dio, nei termini del sufficiente, i testi della Scrittura che sono pertinenti.
Quando la sacra Scrittura parla della creazione del mondo, non dice apertamente se e in quale momento sono stati creati gli angeli.
Però se non sono stati passati sotto silenzio, sono stati designati o nel concetto di cielo con la frase: In principio Dio ha fatto il cielo e la terra, ( Gen 1,1 ) o piuttosto col concetto della luce, di cui ho parlato.
Desumo che non siano stati passati sotto silenzio dalla frase che Dio si è riposato al settimo giorno di tutte le opere che aveva fatto. ( Gen 2,2 )
Lo conferma il libro stesso che comincia: In principio Dio ha creato il cielo e la terra, perché sia evidente che prima del cielo e della terra non ha creato nulla.
Quindi ha dato inizio alla creazione col cielo e con la terra.
La terra poi, quale l'ha creata all'inizio, come in seguito spiega la Scrittura, era invisibile e informe e, non essendo stata creata la luce, v'erano tenebre sull'abisso, ( Gen 1,2 ) cioè su una indistinta commischianza della terra e dell'acqua, giacché dove non c'è luce, necessariamente ci sono le tenebre.
In seguito mediante l'atto creativo sono state ordinate tutte le cose, di cui si narra che sono state condotte a perfezione in sei giorni.
È possibile dunque che siano stati passati sotto silenzio gli angeli, come se non fossero fra le opere di Dio, giacché nel settimo giorno ha cessato da ogni opera?
La verità che gli angeli sono creature di Dio, anche se in questo testo non passata sotto silenzio e tuttavia non enunciata con evidenza, in altri passi della Scrittura è espressa con molta chiarezza.
Nel canto dei tre giovani nella fornace, dopo aver premesso: Benedite il Signore, o creature tutte del Signore, ( Dn 3,57 ) nel compimento delle opere del Signore sono nominati anche gli angeli.
Inoltre in un Salmo si canta: Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell'alto; lodatelo, voi tutti suoi angeli; lodatelo, voi tutti suoi eserciti; lodatelo, sole e luna; lodatelo, voi tutte stelle e luce; lodatelo, o cieli più alti; e le acque che sono sopra i cieli lodino il nome del Signore, perché egli ha detto e sono esistiti, ha ordinato e sono stati creati. ( Sal 148,1-5 )
Anche in questo passo con molta chiarezza è stato detto per ispirazione divina che gli angeli sono stati creati da Dio, giacché dopo averli citati fra gli altri esseri del cielo, si riferisce a tutti con le parole: Egli ha detto e sono stati fatti.
Non si deve ritenere che gli angeli sono stati creati dopo tutti gli altri esseri enumerati nei sei giorni.
Ma se qualcuno sragiona così, la sua insensatezza è redarguita da quel passo della Scrittura di pari autorevolezza in cui Dio dice: Quando furono fatte le stelle, mi lodarono a gran voce tutti i miei angeli. ( Gb 38,7 )
Dunque esistevano già gli angeli quando furono fatte le stelle.
Erano state fatte al quarto giorno.
Si dovrà dunque dire che furono creati al terzo giorno? No.
Si sa che cosa è stato fatto in quel giorno.
Furono separate terra e acque e questi due elementi ricevettero le forme relative e la terra produsse i viventi che sono fissati in lei con le radici.
Forse nel secondo? No, neanche in questo.
In esso fu fatto il firmamento fra le acque superiori e inferiori e fu chiamato cielo e nel firmamento, il quarto giorno, furono fatte le stelle.
Certamente se gli angeli appartengono alle opere divine dei sei giorni, sono quella luce che ha ricevuto il nome di giorno.
E appunto per far notare la sua unità non è stato chiamato il primo giorno ma un solo giorno.
E il secondo, il terzo o gli altri non sono un altro giorno ma lo stesso è stato ripetuto per completare il numero sei o sette allo scopo di inculcare la conoscenza dei sette giorni, sei per la conoscenza delle opere che Dio ha compiuto e il settimo per la conoscenza del riposo di Dio.
Dunque: Dio ha detto: sia fatta la luce e la luce fu fatta. ( Gen 1,3 )
Se è giustificato intendere in questa luce la creazione degli angeli, essi certamente sono stati resi partecipi della luce eterna che è la stessa non diveniente sapienza di Dio, per mezzo della quale sono state create tutte le cose.
Ed è l'unigenito Figlio di Dio.
Illuminati dalla luce, mediante la quale sono stati creati, dovevano divenire luce ed essere chiamati giorno per la partecipazione della luce non diveniente e del giorno che è il Verbo di Dio, per mezzo del quale essi e tutte le cose sono stati creati.
Infatti, la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo ( Gv 1,9; Gv 8,12; Gv 12,46 ) illumina questo evento e ogni angelo fedele affinché diventi luce non in se stesso ma in Dio, perché se l'angelo da lui si distoglie diviene ribelle.
Lo sono appunto tutti quelli che sono chiamati spiriti ribelli, non più luce nel Signore ma tenebre in se stessi, perché privati della partecipazione alla luce eterna.
Non si ha infatti una essenza del male ma è stata considerata male la perdita del bene.
Vi è un solo essere buono semplice e perciò il solo non diveniente, ed è Dio.
Da questo essere buono sono stati creati tutti gli esseri buoni, ma non semplici e perciò divenienti.
Sono stati creati, ripeto, cioè fatti, non generati.
Infatti l'essere generato dall'essere buono semplice è parimenti semplice e medesimo all'essere dal quale è stato generato.
Noi li chiamiamo Padre e Figlio e l'uno e l'altro con il loro Spirito è un solo Dio.
Lo Spirito del Padre e del Figlio è detto nella sacra Scrittura Spirito Santo con un particolare significato di questo termine.
È un altro dal Padre e dal Figlio, perché non è né il Padre né il Figlio, ma un altro, ripeto, non altro, perché anche egli è egualmente un essere buono semplice, egualmente non diveniente e coeterno.
E questa Trinità è un solo Dio, ma non perché è Trinità, non è semplice.
E non diciamo semplice l'essenza dell'essere buono nel senso che in essa vi è soltanto il Padre o soltanto il Figlio o soltanto lo Spirito Santo o anche che è soltanto una Trinità di nome, senza la sussistenza delle persone, come pensavano gli eretici Sabelliani, ma si considera semplice perché in lei essere ed avere si identificano, salvo che le persone si dicono in senso relativo l'una dell'altra.
Infatti il Padre ha certamente il Figlio ma non egli è il Figlio, il Figlio ha il Padre ma non egli è il Padre.
Dunque in base agli attributi che si dicono in senso assoluto e non relativo, in Dio si identificano essere e avere.
Ad esempio, in senso assoluto si dice vivo perché ha la vita, ma egli è la sua stessa vita.
Dunque una essenza si dice semplice se l'avere in lei non è qualcosa che essa può perdere, ovvero se altro è chi ha ed altro ciò che ha, come il bicchiere può avere un liquido, il corpo un colore, l'aria la luce o il caldo, l'anima la sapienza.
In nessuno di essi si ha identità di essere e avere, perché il bicchiere non è il liquido, il corpo non è il colore, l'aria non è la luce o il caldo, l'anima non è la sapienza.
Ne deriva che possono anche essere private delle cose che hanno e mutare col volgersi ad altre conformazioni e qualità.
Così il bicchiere può essere vuotato del liquido di cui è pieno, il corpo può scolorarsi, l'aria divenire oscura o fredda e l'anima insipiente.
Ma anche se il corpo fosse immortale, quale viene promesso agli eletti nella risurrezione, ha certamente la qualità permanente della stessa immortalità, ma poiché l'essere corporeo rimane, non può essere la stessa immortalità.
Anche essa è tutta nelle singole parti del corpo e non in una parte di più e in una di meno, poiché una parte non è più immortale dell'altra.
Al contrario, il corpo è più grande nel tutto che in una parte e sebbene una parte in esso sia più estesa e un'altra meno estesa, la parte più estesa non è più immortale della parte meno estesa.
Altro è quindi il corpo, che non è tutto in ogni sua parte ed altro l'immortalità che è tutta in ogni parte del corpo, poiché ogni parte del corpo immortale, anche se ineguale dalle altre, è egualmente immortale.
Ad esempio, il dito è più piccolo della mano, ma non per questo la mano è più immortale del dito.
Quindi, pur essendo ineguali la mano e il dito, è eguale tuttavia l'immortalità della mano e del dito.
E per questo, sebbene l'immortalità sia inseparabile dal corpo immortale, altro è l'esseità per cui si considera corpo ed altra la sua proprietà per cui si considera immortale.
Quindi anche in questo stato è in esso distinto l'essere e l'avere.
La stessa anima, anche se fosse eternamente sapiente, come sarà quando sarà liberata per sempre, sarà comunque sapiente mediante la partecipazione della sapienza non diveniente, che non è medesima con lei.
Infatti anche se l'aria non fosse mai abbandonata da una luce che la invade, non per questo non sono distinte essa e la luce da cui è illuminata.
Non dico questo nel senso che l'anima sia aria, come hanno supposto alcuni filosofi che non seppero concepire un'esseità immateriale.
Hanno comunque, malgrado la grande differenza, una certa analogia.
Non è sconveniente infatti dire che l'anima immateriale è illuminata dalla luce immateriale della sapienza di Dio che è una, come è illuminato il corpo dell'aria dalla luce materiale, e che l'anima diventa tenebrosa se è privata della luce della sapienza, come l'aria diventa tenebrosa se è abbandonata dalla luce sensibile.
Infatti quelle che si dicono tenebre di un qualsiasi spazio non sono altro che l'aria priva di luce.
In questo senso dunque sono considerate semplici le tre Persone che in forma impartecipata ed essenziale sono divine poiché in loro non sono distinte qualità ed esseità e non sono divine, sapienti e felici per partecipazione da altri.
Ed anche se nella Scrittura è stato detto che lo Spirito di sapienza è molteplice, ( Sap 7,22 ) poiché ha in sé molti modi, tuttavia in lui essere e avere non sono distinti e tutti quei modi sono uno solo.
E non vi sono molte sapienze ma una sola, perché in essa sono gli infiniti, che sono anche finiti, significati delle cose intelligibili.
In esse infatti esistono le invisibili non divenienti ragioni delle cose anche visibili e divenienti che sono state create mediante la Sapienza stessa.
Dio non ha creato nulla inconsapevolmente.
È un difetto che ragionevolmente non si potrebbe dire neanche di un artefice umano.
Dunque se Dio ha creato consapevolmente, ha creato le cose che conosceva.
Si presenta dunque al pensiero una considerazione singolare ma vera.
Il mondo non potrebbe esser conosciuto da noi se non esistesse, al contrario se non fosse conosciuto da Dio, non potrebbe esistere.
Stando così le cose, gli spiriti che chiamiamo angeli non furono certamente tenebre in una prima successione di tempo, ma nell'atto stesso che furono creati, furono creati luce.
E non furono creati soltanto perché esistessero e vivessero in una qualsiasi condizione, ma furono anche illuminati affinché vivessero nella sapienza e felicità.
Alcuni angeli si distolsero dalla illuminazione e per questo non raggiunsero la sublimità della vita sapiente e felice che è indubbiamente eterna e stabilmente certa della propria eternità.
Hanno comunque la vita dell'intelligenza, anche se in stato d'insipienza, e in modo tale che anche se volessero, non la potrebbero perdere.
È impossibile stabilire fino a qual punto, prima di peccare, fossero partecipi di quella sapienza.
Ma non potrei affermare che ne partecipassero come gli altri, i quali sono felici in una ideale pienezza, perché non si ingannano sull'eternità della propria felicità.
Se ne avessero partecipato egualmente, anche essi sarebbero rimasti eternamente in essa, egualmente felici perché egualmente certi.
Infatti una vita, finché dura, si può considerare vita, ma non si può considerare vita eterna se avrà una fine, giacché è considerata vita dal solo vivere ed è considerata vita eterna se non ha fine.
Comunque un essere eterno non necessariamente è felice.
È scritto che anche il fuoco della pena è eterno.
Tuttavia se la vita felice nella sua ideale perfezione non può essere che eterna, non era tale quella degli angeli ribelli, perché a un certo punto doveva cessare e per questo non era eterna, sia che lo sapessero, sia che pur non sapendolo s'ingannassero.
Infatti se lo sapevano, c'era il timore e se non lo sapevano c'era l'errore a non permettere che fossero felici.
Se poi non lo sapevano nel senso di non potersi fidare di conoscenze errate o incerte, ma erano costretti a dubitare se il loro bene fosse durato per sempre o se a un certo punto fosse cessato, l'incertezza stessa di un destino così alto escludeva la felicità che noi crediamo esistente negli angeli santi.
Infatti il concetto di felicità non viene ristretto in limiti così angusti da farci pensare che Dio soltanto è felice.
Certo è veramente felice in maniera che non si può dare felicità maggiore.
Al confronto è piccola e poca cosa la massima felicità che sia consentita agli angeli.
Per quanto attiene alla creatura ragionevole ossia intelligente pensiamo che non soltanto gli angeli si devono considerare felici.
Non si può infatti negare che i primi uomini nel paradiso prima del peccato fossero felici, sebbene incerti quanto durasse o se fosse eterna la loro felicità.
Sarebbe stata eterna se non avessero peccato.
Si pensi che attualmente senza presunzione possiamo dichiarare felici gli uomini che vediamo menare la vita onestamente e religiosamente nella speranza dell'immortalità futura, senza il peccato che distrugge la coscienza, perché possono ottenere facilmente la misericordia divina per i peccati della debolezza umana.
E sebbene essi siano certi della ricompensa riservata alla loro perseveranza, rimangono tuttavia dubbiosi della propria perseveranza.
Nessuno infatti potrebbe sapere che persevererà fino alla fine nell'operare e promuovere la giustizia, se non viene reso certo, per rivelazione, da colui che, con giusto e occulto giudizio, non tutti rende consapevoli in proposito, ma non inganna alcuno.
Per quanto dunque attiene al godimento del bene in questa vita, era più felice il primo uomo nel paradiso che qualsiasi giusto nell'attuale soggezione alla morte.
Al contrario per quanto attiene alla speranza di un bene futuro, è più felice del primo uomo, incerto della propria caduta nella grande felicità del paradiso, un individuo qualsiasi anche in una qualsiasi sofferenza fisica, se sa non per opinione ma con verità certa che, nella partecipazione del sommo Dio, avrà la compagnia degli angeli immune da ogni dolore.
È ormai evidente a ognuno senza incertezze che nel conseguimento dell'uno e dell'altro si realizza la felicità che l'essere intelligente desidera con retto intendimento.
Può godere, cioè, senza alcuna inquietudine del bene non diveniente che è Dio e insieme non avere incertezza alcuna e non essere soggetto all'errore sul fatto che di quel bene godrà per l'eternità.
Crediamo con fede religiosa che hanno tale felicità gli angeli della luce e concludiamo per logica deduzione che prima di cadere non l'hanno posseduta gli angeli ribelli, i quali a causa della loro disobbedienza sono stati privati della luce ideale.
Si deve credere tuttavia che ebbero una qualche felicità, quantunque non presciente, se hanno avuto l'esistenza prima del peccato.
Può sembrare spietato credere che, quando furono creati gli angeli, alcuni furono creati in modo che non avessero la prescienza della loro perseveranza o caduta e che altri con verità assolutamente evidente conoscessero l'eternità della propria felicità.
In principio però furono tutti creati di eguale felicità e in realtà furono felici, fino a quando quelli, che ora sono malvagi, si allontanarono di propria volontà dalla luce della bontà.
Comunque sarebbe molto più spietato pensare che attualmente gli angeli santi, incerti della propria felicità eterna, ignorino essi di se stessi quello che noi abbiamo potuto conoscere nei loro confronti mediante la sacra Scrittura.
Un cristiano cattolico non può ignorare infatti che fra gli angeli buoni non vi sarà più un diavolo e che nessun diavolo sarà riammesso nella compagnia degli angeli buoni.
Cristo verità, infatti, nel Vangelo promette ai santi e ai fedeli che saranno eguali agli angeli di Dio; ( Mt 22,30 ) viene anche promesso loro che andranno alla vita eterna. ( Mt 25,46 )
Se dunque noi fossimo certi che non saremo privati di quel destino eterno ed essi non ne fossero certi, saremmo migliori di loro, non eguali.
Ma poiché Cristo verità non inganna e saremo quindi eguali a loro, anche essi dunque sono certi della propria felicità eterna.
Ma gli angeli ribelli non ne furono certi, perché la loro felicità non era tale da esserne certi, dato che sarebbe cessata.
Rimane dunque o che non furono eguali o se furono eguali, dopo la perdizione dei ribelli, ai buoni fu accordata una conoscenza certa della loro felicità eterna.
Qualcuno potrebbe addurre come obiezione il giudizio che il Signore ha dato del diavolo nel Vangelo: Dall'inizio egli era omicida e non si mantenne nella verità. ( Gv 8,44 )
La frase si potrebbe interpretare nel senso che non solo fu omicida dall'inizio, cioè dall'inizio del genere umano, cioè da quando è stato creato l'uomo che egli poteva uccidere con l'inganno, ma che dall'inizio della sua esistenza come angelo non si mantenne nella verità.
Quindi non fu mai felice con gli angeli santi, perché rifiutò di sottomettersi al suo Creatore, mediante la superbia si vantò come di un suo personale potere e divenne per questo ingannato e ingannatore, dato che non si può sfuggire al potere dell'Onnipotente.
Ed egli che non ha voluto conservare mediante l'ossequio della sottomissione la sua vera essenza, aspira con orgogliosa presunzione a fingersi ciò che non è.
Così si comprende anche ciò che ha detto san Giovanni apostolo: Dall'inizio il diavolo pecca, ( 1 Gv 3,8 ) cioè ha rifiutato, da quando è stato creato, la giustizia che può avere soltanto una volontà soggetta con ossequio al Signore.
Chi accoglie questa interpretazione non consente con quegli eretici, cioè i manichei ed altre sètte pestilenziali che sostengono la medesima teoria, che cioè il diavolo ha la natura del male come da un determinato principio contrario.
Costoro sragionano con tanta leggerezza da non riflettere, pur adducendo a loro conferma assieme a noi le citate parole del Vangelo, che il Signore non ha detto: "Fu di altra natura della verità", ma: Non si mantenne nella verità.
Volle fare intendere appunto la caduta dalla verità, perché se avesse perseverato in essa, resone partecipe, sarebbe rimasto felice assieme agli angeli santi.
Ha aggiunto una indicazione, quasi l'avessimo chiesta, affinché fosse chiaro che non perseverò nella verità.
Ha detto: Perché in lui non è la verità.
Sarebbe in lui se vi avesse perseverato.
Il concetto è stato esposto con un discorso un po' insolito.
Apparentemente l'espressione è questa: Non perseverò nella verità, perché in lui non è la verità, ( Gv 8,44 ) come se la ragione per cui non si mantenne nella verità sia che in lui non è la verità.
Al contrario la ragione per cui in lui non è la verità è che non perseverò nella verità.
Questo modo di esprimersi si ha anche in un Salmo: Io ho invocato, perché mi hai esaudito, o Dio. ( Sal 17,6 )
Apparentemente si sarebbe dovuto dire: "Mi hai esaudito, o Dio, perché ho invocato".
Ma nel dire: Io ho invocato, quasi gli si chiedesse di mostrare il motivo della sua invocazione, ha mostrato l'affetto della propria invocazione dall'effetto dell'esaudimento divino.
Sembra che dica: "Mostrò di avere invocato proprio dal fatto che mi hai esaudito".
Anche l'espressione di Giovanni sul diavolo: Dall'inizio il diavolo pecca ( 1 Gv 3,8 ) non è intesa dagli eretici nel senso che la natura, se è natura, non è peccato in alcun modo.
Ma come rispondere ad altri testi dei Profeti?
Isaia, indicando il diavolo sotto la figura del re di Babilonia, ha detto: Come è tramontato Lucifero che sorgeva al mattino? ( Is 14,12 ) ed Ezechiele: Sei stato nelle delizie del paradiso di Dio, sei stato ornato di ogni pietra preziosa.
In questi passi è indicato che per un tempo fu senza peccato.
Infatti poco appresso più espressamente si dice: Ai tuoi giorni hai camminato senza imperfezione. ( Ez 28,13-14 )
E se queste frasi non si possono intendere più convenientemente con altro significato, bisogna anche che interpretiamo la frase: Non perseverò nella verità ( Gv 8,44 ) nel senso che fu nella verità ma non vi si mantenne, e l'altra: Dall'inizio il diavolo pecca nel senso che non peccò dall'inizio in cui fu creato ma dall'inizio del peccato, perché il peccato ha cominciato ad esistere dalla sua superbia.
Si ha una espressione anche nel libro di Giobbe quando si parla del diavolo: Questo è l'inizio dell'opera del Signore che ha fatto perché fosse di scherno ai suoi angeli. ( Gb 40, 14 )
Sembra che ad essa si possa riferire anche un Salmo, in cui si legge: Questo serpente che hai formato perché fosse deriso. ( Sal 104,26 )
Non si deve interpretare nel senso che dall'inizio fosse stato creato un essere tale perché fosse deriso dagli angeli, ma che fu destinato a questa pena dopo il peccato.
Dunque l'inizio della sua esistenza è opera del Signore.
Non v'è natura, anche fra gli ultimi infimi animaletti, che egli non abbia ideato, perché da lui è ogni misura, ogni forma, ogni ordine, senza dei quali non può esistere o esser pensato alcun essere, e a più forte ragione la creatura angelica, che è per dignità di natura la più eccellente di tutte le altre che Dio ha creato.
Fra gli esseri che in qualsiasi forma hanno l'essere e non l'hanno eguale a quello di Dio da cui sono stati creati, i viventi sono più perfetti dei non viventi, come quelli che hanno la facoltà di generare o anche di appetire nei confronti di quelli che sono privi di questo stimolo.
Fra i viventi quelli che hanno la percezione sono più perfetti di quelli che non l'hanno, come gli animali nei confronti degli alberi.
Fra quelli che hanno la percezione gli esseri pensanti sono più perfetti di quelli che non pensano, come gli uomini nei confronti delle bestie.
Infine fra quelli che pensano sono più perfetti gli immortali che i mortali, come gli angeli nei confronti degli uomini.
Sono però considerati migliori in base ai gradi della natura.
V'è poi in base all'utilità dei singoli una diversa misura di valutazione, per cui avviene che diamo ad esseri privi di percezione maggior valore che ad alcuni che l'hanno.
Se fosse in nostro potere, vorremmo radiarli dalla natura, sia perché ignoriamo che significato hanno nel mondo, sia perché, pur sapendolo, li posponiamo ai nostri interessi.
Ciascuno infatti preferisce avere in casa il pane anziché i topi, il denaro anziché le pulci.
E non c'è da meravigliarsi se nel valutare gli uomini stessi, la cui natura è di grande dignità, si guarda di solito con più affetto un cavallo che uno schiavo, una pietra preziosa che una domestica.
Così in base alla libertà di giudizio differisce assai la motivazione di chi fa della teoria dall'indigenza di chi sente il bisogno o dall'appagamento di chi ha un desiderio.
La teoria pensa che cosa valutare di per sé nei gradi delle cose, l'indigenza pensa che cosa raggiungere in vista di uno scopo; la teoria guarda a che cosa si manifesta di vero all'intelligenza, l'appagamento al contrario guarda l'oggetto gradevole che soddisfa i sensi.
Ma negli esseri intelligenti ha tanto valore il peso del volere e dell'amore che, sebbene nell'ordine della natura gli angeli sono più perfetti degli uomini, tuttavia per legge di giustizia lo siano gli uomini buoni nei confronti degli angeli cattivi.
Dunque interpretiamo rettamente la frase: Questo è l'inizio dell'opera di Dio, ( Gb 40, 14 ) in considerazione dell'essere e non della ribellione del diavolo.
Senza dubbio infatti in un soggetto, in cui si ha la depravazione della ribellione, si ebbe anteriormente un essere non depravato.
La depravazione è così opposta all'essere che non può fare altro che danneggiarlo.
Dunque l'allontanarsi da Dio non sarebbe depravazione, se il restare con lui non fosse di pertinenza dell'essere di cui è depravazione.
Pertanto anche una volontà malvagia è una grande testimonianza della bontà dell'essere.
Ma come Dio è creatore ottimo degli esseri buoni, così è anche ordinatore giustissimo delle volontà perverse, nel senso che queste usano male degli esseri buoni ed egli usa bene anche delle volontà perverse.
Ha voluto perciò che il diavolo, buono per suo ordinamento e malvagio per volontà propria, degradato della sua dignità fosse deriso dai suoi angeli, come dire che le sue tentazioni giovino agli eletti, mentre egli vorrebbe che li danneggino.
Dio nel crearlo non ignorava certamente la sua futura malvagità e prevedeva il bene che egli avrebbe derivato dal suo male.
Per questo un Salmo ha detto: Il serpente che hai creato perché fosse deriso. ( Sal 104,26 )
Si deve intendere, cioè, che nell'atto di idearlo, sebbene buono a norma della propria bontà, tuttavia mediante la sua prescienza aveva preordinato come usarlo, anche se malvagio.
Inoltre Dio non creerebbe non dico un angelo ma neanche un uomo, di cui avesse previsto che sarebbe divenuto malvagio, se non conoscesse pure a quale profitto dei buoni destinarli e ornare così mediante antitesi, come se fosse un bellissimo poema, la vicenda dei tempi.
Quelle che si chiamano antitesi sono molto opportune nell'eleganza del discorso.
In latino si dicono opposizioni o, per tradurre più esplicitamente, contrapposizioni.
Da noi non si ha l'uso di questo termine, sebbene anche la lingua latina usi di queste eleganze del discorso, come pure la lingua di tutti i popoli.
Anche l'apostolo Paolo usa con grazia questa figura nella Seconda lettera ai Corinzi, dove dice: Mediante le armi destre e sinistre della giustizia, mediante la gloria e il disonore, attraverso la buona e la cattiva reputazione, come impostori eppure leali, come sconosciuti eppure conosciuti, come moribondi ed ecco che siamo vivi, come colpiti dalla legge ma non messi a morte, come tristi eppure sempre allegri, come bisognosi eppure rendiamo ricchi gli altri, come nullatenenti eppure abbiamo tutto. ( 2 Cor 6,7-10 )
Come dunque questi contrari opposti ai propri contrari rendono l'armonia del discorso, così l'armonia della vicenda dei tempi è data dall'opposizione dei contrari in un determinato discorso non di parole ma di fatti.
Con evidenza il concetto è espresso nel libro dell'Ecclesiastico in questa maniera: Il bene è opposto al male e la vita alla morte, così il peccatore è opposto all'uomo onesto.
In tal modo devi guardare a tutte le opere dell'Altissimo, a coppie, l'uno contro l'altro. ( Sir 33,15 )
L'oscurità della parola divina è utile anche perché dà luogo a molteplici interpretazioni della verità e porta alla luce della riflessione, quando uno interpreta in un senso e l'altro in un senso diverso.
Rimane tuttavia che l'interpretazione data a un passo oscuro deve essere confermata dalla testimonianza di verità evidenti e da altri passi non oscuri, sia che nel proporre le varie interpretazioni si giunga a quella intesa dall'agiografo, sia che, nel caso che essa sfugga, dall'occasione di esporre concetti profondi e oscuri si affermino le altre verità.
Ciò posto non mi sembra in contrasto con le opere di Dio la tesi che se nella prima luce creata s'intendono gli angeli, è stata fatta distinzione fra gli angeli buoni e quelli cattivi con la frase: E Dio fece divisione fra la luce e le tenebre e Dio chiamò giorno la luce e notte le tenebre. ( Gen 1,4-5 )
Egli soltanto ha potuto separarli perché ha potuto anche avere prescienza che sarebbero caduti e che privati della luce di verità sarebbero rimasti nelle tenebre della superbia.
Infatti diede ordine agli astri luminosi del cielo, così accessibili ai nostri sensi, perché dividessero il giorno e la notte, tanto noti a noi, cioè fra la luce sensibile e le tenebre sensibili.
Siano fatti, egli disse, gli astri luminosi nel firmamento del cielo perché diano luce sopra la terra e dividano il giorno e la notte.
E poco appresso aggiunge: E Dio fece due grandi astri luminosi nel cielo, l'astro più luminoso, come ordinamento del giorno e l'astro meno luminoso, come ordinamento della notte e le stelle e li pose nel firmamento del cielo a dar luce sulla terra, a ordinare il giorno e la notte e a dividere fra la luce e le tenebre. ( Gen 1,14.16-18 )
Invece solo egli poté dividere fra la luce, che è la santa società degli angeli risplendente nel mondo intelligibile mediante l'illuminazione della verità, e le tenebre a lei contrarie, cioè gli spiriti tenebrosi degli angeli ribelli distoltisi dalla luce della giustizia.
A lui infatti non poteva essere occulto o incerto che sarebbe avvenuto il male non della natura ma della volontà.
Inoltre non bisogna passare sotto silenzio un particolare.
Dio dice: Sia fatta la luce e la luce fu fatta, e immediatamente si aggiunge: E Dio vide che la luce è buona. ( Gen 1,3-4 )
Non lo dice dopo che ha separato la luce dalle tenebre e ha chiamato giorno la luce e notte le tenebre, affinché non sembrasse che come alla luce, così riservasse l'attestato della propria compiacenza anche a tenebre di quella fatta.
Dove le tenebre non includono il concetto di colpa, dato che a dividere fra di esse e fra la luce terrena e visibile sono gli astri luminosi del cielo, non prima ma dopo si aggiunge: E Dio vide che era un bene.
Dice appunto: Li pose nel firmamento del cielo a far luce sulla terra, a ordinare il giorno e la notte e a separare la luce e le tenebre.
E Dio vide che era un bene. ( Gen 1,17-18 )
Entrambe ebbero la sua compiacenza perché entrambe erano senza peccato.
Ma nel passo dove Dio dice: Sia fatta la luce e la luce fu fatta.
E Dio vide che la luce era buona, si aggiunge in seguito: E Dio separò la luce dalle tenebre e Dio chiamò giorno la luce e notte le tenebre. ( Gen 1,4-5 )
In questo passo non è stato aggiunto: E Dio vide che era un bene, affinché non fossero considerate un bene entrambe, dato che uno dei due era un male, per sua particolare depravazione e non per natura.
Pertanto in questo caso solo la luce ebbe la compiacenza del Creatore.
Le tenebre angeliche, anche se da inserire nell'ordine, non erano da riconoscersi come buone.
E che cosa si deve intendere nella frase ripetuta per tutte le creature: Dio vide che era un bene, ( Gen 1,4.10.12.18.21.25.31 ) se non il riconoscimento dell'opera come buona in quanto prodotta secondo l'idea che è la sapienza di Dio?
Dio non ha certamente appreso che l'opera è un bene quando è stata fatta al punto che nessuna di esse sarebbe stata fatta se gli fosse rimasta sconosciuta.
Mentre dunque vede che è un bene, e non sarebbe fatta se non l'avesse visto prima che fosse fatta, insegna, non apprende che è un bene.
Platone ha osato dire di più, che Dio, cioè, ha esultato di gioia nel portare a compimento l'universo.
E nel dirlo non sragionava al punto da ritenere che Dio fosse stato reso più felice dalla novità della sua opera.
Volle mostrare invece che l'ideatore si compiacque dell'opera già fatta, perché se ne era compiaciuto nell'idea quando era da farsi e non perché la scienza di Dio possa in qualche modo cambiare, sicché costituiscano un oggetto diverso le cose che saranno, quelle che sono e quelle che furono.
Egli non guarda in avanti, come facciamo noi, il futuro, non guarda nell'immediato il presente, non guarda dietro a sé il passato, ma con un atto molto diverso in tutti i sensi dalla norma dei nostri pensieri.
Egli non conosce variando il pensiero da un oggetto a un altro ma senza alcun cambiamento, nel senso che si rappresenta in un presente eternamente stabile tutte le cose nel tempo, le future che non sono ancora, le presenti che già sono, le passate che non sono più.
E non conosce in una maniera con la vista e in un'altra con l'intelligenza perché non è formato di anima e di corpo, e neanche in una maniera adesso, in un'altra prima e in un'altra dopo.
La sua conoscenza dei tre tempi, cioè presente, passato e futuro non diviene, come la nostra, in una molteplicità, perché in lui non ci sono né il divenire né ombra di successione nel tempo. ( Gc 1,17 )
La sua coscienza infatti non passa di pensiero in pensiero, perché nel suo immateriale intuire sono presenti insieme tutti gli oggetti che conosce.
Egli non conosce il tempo nelle proprietà del tempo, come non muove le cose poste nel tempo con suoi movimenti del tempo.
Egli dunque ha intuito che è bene ciò che ha fatto dove ha intuito che è bene il farlo.
E non ha duplicato o aumentato in qualche aspetto la propria scienza perché ha intuito l'opera dopo che era stata fatta, come se avesse una scienza minore prima di fare ciò che intuiva.
Egli non produrrebbe le cose nella loro interezza mediante una scienza nella sua interezza, se non perché ad essa non viene aggiunto nulla da parte delle opere prodotte.
Pertanto se ci si dovesse far sapere soltanto chi ha fatto la luce, basterebbe dire: "Dio ha fatto la luce"; se invece non soltanto chi l'ha prodotta, ma per mezzo di che cosa l'ha prodotta, basterebbe questa frase: E Dio ha detto: Sia fatta la luce e la luce fu fatta.
Apprendiamo così non soltanto che Dio l'ha prodotta ma che l'ha prodotta per mezzo del Verbo.
Siccome era opportuno che principalmente tre concetti ci fossero comunicati sul creato, chi l'ha creato, per mezzo di che cosa l'ha creato, perché l'ha creato, è scritto: Dio ha detto: Sia fatta la luce e la luce fu fatta.
E Dio vide che la luce era buona. ( Gen 1,3 )
Se dunque chiediamo chi l'ha prodotta, si risponde: Dio; se per mezzo di che cosa: Ha detto: Sia fatta, ed è stata fatta; se perché è stata fatta: Perché è buona.
E non vi è autore più eccellente di Dio, idea più efficiente del Verbo, ragione più buona che un essere buono fosse creato da un Dio buono.
Anche Platone dice che la ragione più giusta di creare il mondo è che gli esseri buoni siano creati da un Dio buono.
Può darsi che abbia letto questi testi o che li abbia appresi da chi li aveva letti o che con la straordinaria intelligenza abbia intuito come oggetto di pensiero attraverso il creato ( Rm 1,20 ) la intelligibile nozione di Dio o che l'abbia appreso da coloro che l'avevano intuita.
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