La controversia accademica |
Non si dà filosofo che sia privo dell'apprendimento e della scienza della filosofia.
Ma se a questa necessità seguisse quella del possesso quando la si ricerca, certamente sarebbero seppellite, assieme a quel periodo e ai cadaveri di Carneade e di Cicerone, la diatriba, l'ostinazione e la caparbietà degli accademici ed anche la loro problematica, opportuna tuttavia, come io frattanto ritengo, in quel momento.
Ma avviene che pochi e di tanto in tanto raggiungono la vera scienza.
Ne sono causa le frequenti e varie disavventure della vita, come tu stesso, o Romaniano, puoi sperimentare, ovvero un certo stordimento delle menti intorpidite o dalla infingardaggine o dalla mancanza di talento, ovvero la sfiducia nella filosofia.
Difatti la luce spirituale non apparisce alle menti come quella materiale agli occhi.
Infine per un pregiudizio comune a tutta l'umanità, gli uomini non ricercano diligentemente, seppure ricercano, e non pongono impegno all'indagine nella illusione di essere in possesso della verità.
Ne consegue che in uno scontro con gli accademici, le loro armi, maneggiate non da pivelli ma da gente perspicace e ferratissima, appaiono invincibili e quasi forgiate da Vulcano.
E per questo contro i marosi e le tempeste della fortuna si deve resistere con i remi di tutte le virtù e soprattutto si deve implorare l'aiuto divino con ogni devozione e pietà affinché il fermo volere di applicarsi agli studi liberali segua il suo corso, dal quale nessun avvenimento lo faccia dirottare.
Lo accoglierà allora il porto sicuro e tranquillo della filosofia.
Questo è il tuo vero problema; ne consegue che io temo per te, che bramo la tua liberazione e, se ora alfine sono degno d'impetrare, non cesso con quotidiane preghiere di invocare per te un vento favorevole.
E per questo prego la Potenza e la Sapienza di Dio Altissimo ( 1 Cor 1,24 ).
Con questo termine la Scrittura sacra denomina il Figlio di Dio.
Molto aiuterai le mie preghiere se non disperi che saremo esauditi e t'impegni non solo col desiderio, ma anche con la volontà e con la nativa forza della mente, per la quale ti voglio bene, da cui ricevo un singolare diletto, che sempre ammiro.
Ma essa, a causa delle preoccupazioni domestiche, in te si cela come un fulmine tra le nubi ed è ignota a molti e quasi a tutti.
Non può comunque essere ignota a me e forse all'uno e all'altro dei tuoi amici intimi.
Noi non solo abbiamo potuto riconoscere in qualche tua espressione il brontolio del tuono, ma abbiamo anche ravvisato qualche lampeggiamento assai simile al corruscare del fulmine.
Tacerò sul momento il resto e ricordo un sol caso.
Chi mai unì inaspettatamente il fragore del tuono e il bagliore della luce mentale al punto che, ad un solo leggero tuonare della ragione e ad un certo lampeggiamento della temperanza, riuscì in un solo giorno ad estinguere in sé una passione assai vigorosa?
Si manifesterà alfine la tua virtù e muterà gli scherni di molti increduli in indicibile stupore?
Ed essa dopo aver manifestato in terra segni, per così dire, del futuro, ritornerà verso il cielo abbandonando il peso delle cose sensibili?
Agostino avrà formulato invano tali giudizi su Romaniano?
Non lo permetterà colui al quale mi sono interamente dedicato, che soltanto ora ho ricominciato un po' a conoscere.
Dunque applicati con me al filosofare.
In esso c'è tutto ciò che di solito ti stimola in modo meraviglioso all'ansietà e alla problemizzazione.
Non ho timore per il tuo ingegno né da parte della infingardaggine morale né della limitatezza mentale.
Chi infatti apparve più pronto di te nei nostri colloqui, quando ti fu permesso di respirare un po'?
Chi più acuto? Ed io non potrò mai sdebitarmi con te? O forse ti sono debitore di poco?
Tu mi hai accolto in casa sovvenzionandomi e, quel che più conta, fosti di grande liberalità quando, giovanetto povero, mi recai a studiare fuor di casa.
Tu, quando ho perduto mio padre, mi hai confortato con l'amicizia, mi hai spronato con i consigli, mi hai somministrato il mantenimento.
Tu con la tua simpatia e amicizia e col considerarmi di casa mi hai reso, come te, illustre e fra i primi nel nostro municipio.
Poi decisi di andare a Cartagine per ottenere un insegnamento più alto.
A te solo e a nessuno dei miei manifestai il mio disegno e le mie speranze.
Dapprima hai temporeggiato un po' a causa del grande amore, in te innato, per il tuo paese.
D'altronde già v'insegnavo. Tuttavia non avendo potuto contrastare il desiderio d'un giovane che intendeva migliorare, a suo modo di vedere, le proprie condizioni, con grande benevolenza e moderazione passasti dalla dissuasione all'aiuto.
Tu mi somministrasti il necessario per il viaggio.
Poi in quella città, in cui tu avevi riscaldato, per così dire, la culla e il nido dei miei studi, hai sostenuto i miei sforzi nel tentativo di volare da solo.
Ed io presi il mare in tua assenza e a tua insaputa.
Ma tu non ti sei adirato perché non te ne avevo fatto parola come ero solito; attribuisti il fatto a tutt'altro che alla mia continua irrequietezza e sei rimasto fermo nell'amicizia.
E non ti furono davanti agli occhi tanto i tuoi figli abbandonati dall'insegnante quanto piuttosto la segreta buona intenzione della mia anima.
Infine tu mi hai spronato, stimolato e hai ottenuto che io ora possa godere della quiete spirituale, che sia sciolto dal legame dei desideri superflui, che respiri, mi ravveda e torni in me dopo aver deposto il fardello delle preoccupazioni terrene, che io cerchi con grande applicazione la verità, che sia vicino a possederla e che abbia fiducia di arrivare alla stessa misura ideale.
E ho ammesso per fede più di quanto non abbia compreso con la ragione di chi sei lo strumento.
Difatti in alcuni colloqui intimi io ti ho manifestato i miei movimenti interiori, ho confidato spesso e con passione che nessuna eventualità mi sembrava favorevole se non quella che mi consentisse di filosofare e che la vita non mi sembrava felice se non trascorsa nel filosofare; ma che ero trattenuto dal peso notevole dei miei familiari, la cui vita dipendeva dalla mia professione e da vari impedimenti sia di vergogna come dell'inettitudine dei miei a guadagnare.
Tu hai mostrato allora una viva gioia e sei rimasto infiammato di santo entusiasmo per questa vita.
Hai perfino detto che, una volta libero dalle preoccupazioni di certe liti importune, avresti eliminato gli ostacoli anche col mettere a disposizione il tuo patrimonio.
Così, quando fosti partito, dopo aver suscitato in me tal desiderio, giammai ho cessato di aspirare alla filosofia.
Non pensavo quasi ad altro se non a quella vita che era di comune gradimento e convenienza, e con assiduità ma senza eccessivo ardore.
Ritenevo tuttavia di fare già abbastanza.
E poiché ancora non si era accesa la fiamma che mi avrebbe invaso col suo più vivo ardore, pensavo perfino che fosse la più viva quella che appena mi riscaldava.
Ed eccoti che alcuni libri pieni, come dice Celsino, diffusero su di me buoni odori d'Arabia e fecero cadere su quella fiammella pochissime gocce d'unguento prezioso.
Ma accesero in me un incendio incredibile, incredibile più di quanto tu stesso possa di me supporre e, che dovrei dir di più?, incredibile perfino a me di me stesso.
Quale onore, quale fasto umano, quale desiderio di inutile fama, quale stimolo o ritegno mondano aveva ancora interesse per me? Ritornavo tutto in me di corsa.
Volsi gli occhi tuttavia, per così dire, di passaggio, lo confesso, a quella religione che ci fu inculcata fin dalla fanciullezza e quasi impressa nell'intimo.
Essa mi attraeva senza che me ne avvedessi.
Così fra perplessità, entusiasmi ed incertezze comincio a leggere l'apostolo Paolo.
Costoro, pensavo, non avrebbero potuto compiere opere tanto grandi e vivere come è evidente che erano vissuti se i loro scritti e le loro idee fossero stati contrari a un bene sì grande.
Me lo lessi tutto con grande attenzione e interesse.
Al diffondersi di quella luce, per quanto fioca, mi si mostrò il volto del filosofare con piena evidenza.
Magari avessi potuto mostrarlo, non dico a te che ne hai avuto sempre fame, ma a quel tuo avversario, di cui non so se sia per te più un incitamento che un ostacolo.
Anche egli subito disprezzando e abbandonando le piscine circondate di palme e gli ameni frutteti e i delicati e suntuosi banchetti e i buffoni domestici ed infine quanto suscita in lui l'acre desiderio del piacere, convertitosi in amante tenero e rispettoso, volerebbe ammirato, bramoso e appassionato verso la bellezza di quel volto.
Anche egli possiede, bisogna ammetterlo, una certa dignità spirituale o meglio un germe di dignità che, tentando d'ingemmarsi della bellezza vera, finisce per ramificare contorto e deforme fra la pietraia e i rovi delle false filosofie.
Tuttavia riesce a frondeggiare e, per quanto gli è concesso, ad elevarsi ma soltanto per la piccola schiera di coloro che sanno acutamente e attentamente penetrare fra il fogliame.
Da qui l'ospitalità, i molti manicaretti di gentilezza nei banchetti, da qui la stessa eleganza, la dignità esteriore, la grande cortesia delle maniere, il garbo discreto e aggraziato che si diffonde dovunque e su tutto.
In gergo popolare si chiama filocalia.
Non disprezzare questo termine a causa dell'uso non letterario, poiché filocalia e filosofia sono denominate quasi da una medesima radice e vogliono apparire sorelle e lo sono.
Che cosa è infatti la filosofia? L'amore della sapienza.
Che cosa è la filocalia? L'amore della bellezza. Informati dai greci.
Ma che è dunque filosofia? Non è essa la vera bellezza?
Sono dunque veramente sorelle e nate da un medesimo genitore.
Ma questa, impedita di salire al suo cielo dal visco della libidine e chiusa nella fossa dei profani, ha tuttavia ritenuto la comunanza del nome per avvertire chi la usa a non disprezzarla.
Spesso dunque la sorella, che vola nel libero cielo, la riconosce, sebbene sia senza penne, insudiciata e bisognosa, ma raramente la libera.
Difatti soltanto la filosofia è competente a riconoscere le origini della filocalia.
La favola da me inventata ( sono diventato un Esopo estemporaneo ) ti sarà esposta con maggiore ornatezza da Licenzio in una composizione poetica. È infatti un poeta quasi perfetto.
Dunque se quel tuo nemico, per quanto appassionato della falsa bellezza, potesse con occhi guariti e riaperti appena un po', intuire la vera bellezza, con quanta soddisfazione tornerebbe in grembo alla filosofia.
E quando ti riconoscerà, ti abbraccerà come fratello.
Ti stai meravigliando delle mie parole e forse sorridi.
E se ti avessi esposto l'argomento come intendevo?
E se tu avessi potuto per lo meno udire la voce della filosofia se ancora non puoi vederne il volto?
Ti meraviglieresti certamente, ma non rideresti e non saresti sfiduciato.
Credimi, di nessuno si deve avere sfiducia e molto meno di uomini come lui.
Infine se ne sono dati dei casi. Uccelli di quella famiglia facilmente si liberano e tornano a volare fra lo stupore di molti che rimangono in gabbia.
Ma tornerò a noi, o Romaniano. Diamoci al filosofare.
Tuo figlio, e te ne sono riconoscente, ha cominciato a filosofare.
Io lo sorveglio perché si applichi e si rafforzi nelle discipline indispensabili.
Ma affinché anche tu non tema di esserne incapace, se ben ti conosco, ti auguro la piena libertà spirituale.
Che dire dell'attitudine? Magari non fosse tanto rara negli uomini come è certa in te!
Rimangono due difetti o impedimenti a trovar la verità, dei quali non molto mi preoccupo nei tuoi confronti.
Comunque mi preoccupo che da una parte tu possa disistimarti e non abbia fiducia di trovare, dall'altra che tu presuma di aver trovato.
Il primo ostacolo, se pur esiste, sarà eliminato dalla presente trattazione.
Spesso infatti hai criticato gli accademici e tanto più gravemente quanto ne eri meno a conoscenza, ma con tanto maggiore soddisfazione poiché eri attratto dall'amore della verità.
Ed ormai, col tuo appoggio, mi batterò con Alipio e ti convincerò con facilità al filosofare, tuttavia su fondamento probabile.
Difatti non raggiungerai il vero se non ti porrai tutto nel filosofare.
L'altro ostacolo riguarda la tua possibile presunzione di aver trovato, sebbene ti sei allontanato da noi con problemi e dubbi.
Tuttavia se qualche residuo di superstizione è rimasto in qualche piega del tuo spirito, sarà certamente eliminato o quando ti manderò qualche nostra disputa sulla religione o quando potrò conferire con te di persona.
Ora io non faccio altro che liberarmi dalle vane e malsane opinioni.
E per questo non dubito di star meglio di te.
C'è soltanto una cosa per cui invidio la tua buona sorte, che sei solo a goderti il mio Luciliano.
O anche tu hai invidia perché ho detto "il mio"? Ma che altro ho detto se non che è "tuo" e di noi tutti che siamo una sola cosa?
Ma per quanto lo riguarda, perché dovrei rivolgerti la raccomandazione di venire incontro ad un mio desiderio? O dovrò forse convincerti?
Tu stesso ne sei cosciente perché è tuo dovere.
Ma ora dico a tutti e due: guardatevi dal ritenere che conoscete qualche cosa se non l'avete appreso almeno di quella conoscenza con cui sapete che la progressione aritmetica di uno, due, tre e quattro è dieci.
Ma guardatevi egualmente dal ritenere che voi col filosofare non potete conoscere la verità o che in nessun modo qualcuno la possa conoscere filosofando.
Piuttosto fidatevi di me o meglio di colui che ha detto: Cercate e troverete ( Mt 7,7 ).
Non si deve disperare di raggiungere la conoscenza e che essa diverrà più manifesta di quanto non sia il suddetto calcolo numerico.
Troppo tardi ormai mi sono accorto che questa mia introduzione ha passato la misura.
E la misura è senza dubbio cosa divina, ma ci può sfuggire quando ci guida con dolcezza.
Sarò più cauto quando diverrò filosofo.
Dopo la prima disputa che abbiamo raccolto nel primo libro, per circa una settimana non ci occupammo di continuarla.
Commentammo tuttavia dopo il primo, tre libri di Virgilio.
Volevamo poi riprendere la trattazione nel tempo che sembrasse più conveniente.
Inoltre, dalla lettura dell'Eneide Licenzio fu tanto infiammato allo studio della poetica che mi parve di doverlo moderare.
Mal sopportava di essere richiamato da quella a qualsiasi altra occupazione.
Finalmente si piegò, senza tante resistenze, a riprendere la rimandata discussione sul problema degli accademici quando gli feci comprendere, per quanto mi riuscì, il valore della filosofia.
E per buona fortuna era sorta una giornata tanto luminosa e serena.
Sembrava fatta a bella posta per serenare i nostri animi.
Pertanto lasciammo il letto un po' più presto del solito, ci trattenemmo con i campagnuoli qualche istante soltanto.
Il tempo stringeva. Alipio osservò: "Prima che ascolti la vostra discussione sugli accademici, vorrei che mi si leggesse il discorso che dite di aver tenuto durante la mia assenza.
Lo chiedo perché l'attuale discussione si deve rifare alla precedente ed io non potrei, nell'ascoltarvi, non sbagliarmi o per lo meno non trovarmi in difficoltà".
Così si fece. Nella lettura si trascorse quasi tutto il mattino.
Pertanto dalla campagna, in cui ci eravamo trattenuti passeggiando, riprendemmo il cammino verso casa.
Licenzio mi pregò: "Scusami, ma non ti dispiaccia di espormi in breve, prima di pranzo, tutta la filosofia degli accademici affinché non me ne sfugga qualche elemento che venga in mio favore".
"Lo farò, gli risposi, e tanto più volentieri in quanto tu, pensandovi su, potresti mangiar di meno".
"Ma in quanto a questo sta' tranquillo, replicò, perché ho osservato che molti, e soprattutto mio padre, avevano un appetito più formidabile se erano preoccupati.
E per quanto mi riguarda, hai sperimentato tu stesso che quando attendo a far versi, il mio appetito è garantito dal gran daffare.
E di solito me ne meraviglio dentro di me. Perché infatti abbiamo un appetito più formidabile quando applichiamo lo spirito ad altro?
Ovvero perché nell'occupazione del nostro essere interiore, lo spirito esercita il potere sulle nostre mani e sui nostri denti?".
"Ascolta piuttosto, risposi, quanto avevi chiesto sugli accademici perché, se continui a rimuginare le misure metriche, rischio di doverti sopportare non solo durante i pranzi senza misura, ma anche durante le discussioni.
E se io tralascerò qualche elemento che mi favorisce, lo esporrà Alipio".
"Si esige al contrario la tua lealtà, protestò Alipio.
Se si deve temere che tu possa occultarci qualche cosa, penso che sia piuttosto difficile che io trovi mende a colui dal quale, e chi mi conosce lo sa, ho appreso tutto.
Nel manifestare il vero non ti dovrai preoccupare tanto della vittoria quanto del tuo modo di pensare".
"Userò lealtà, risposi, perché me lo ordini nel tuo buon diritto.
La tesi degli accademici riguarda soltanto l'oggetto della filosofia.
Carneade affermava di non curarsi del resto.
Insegnarono dunque che l'uomo non ne può raggiungere scienza e che tuttavia si può esser filosofo.
Tutto il compito del filosofo consisterebbe dunque, come tu, o Licenzio, hai spiegato nella disputa precedente, nella ricerca del vero.
Ne consegue che il filosofo non deve prestar l'assenso ad alcuna enunziazione e che non può non errare, e al filosofo non è lecito, se presta l'assenso ad enunciati non certi.
E non solo affermavano che non si dà certezza, ma lo confermavano anche con numerosi argomenti.
Sono d'avviso che abbiano accettato la tesi che il vero non si può esprimere in seguito alla celebre definizione del vero data dallo stoico Zenone.
Questi ha insegnato che si può esprimere come vero ciò che appare al soggetto in rappresentazione dell'oggetto in maniera tale da non apparire come rappresentazione di un altro oggetto.
Più brevemente e chiaramente si può dire che il vero è riconosciuto da caratteri che non può avere ciò che è falso.
E gli accademici s'impegnarono con ardore a dimostrare che tali caratteri non si possono riconoscere.
E per questo a difesa della loro tesi furono allegati i dissensi dei filosofi, gli errori dei sensi, il sogno e la pazzia, i paralogismi e i soriti.
Avevano appreso dallo stesso Zenone che non si dà stoltezza maggiore che affermare opinativamente.
Con grande astuzia dunque imbastirono la teoria che, se nulla può essere ritenuto con certezza e che l'opinare è da stolti, il filosofo non deve mai affermare nulla.
Contro di loro esplose uno sdegno enorme.
Sembrava infatti conseguente che non può autodeterminarsi chi non presta l'assenso.
Si riteneva insomma che gli accademici avessero coniato una figura di saggio il quale, dal momento che nulla ritiene come certo, non fa altro che dormire e trascura i propri doveri.
Allora essi, inventata la teoria del probabile, che denominavano anche verosimile, ribattevano che il saggio non si asteneva affatto dall'agire poiché ha una norma da seguire.
La verità sfugge tuttavia o perché avvolta in non so quali tenebre naturali o perché confusa nella somiglianza delle cose.
Ma soggiungevano che il trattenere e quasi sospendere l'assenso era la vera grande azione del filosofo.
Mi pare di avere esposto tutto come volevi e di non aver trasgredito, o Alipio, il tuo ordine.
Ho agito, cioè, come si dice, con lealtà.
Se poi non ho esposto le cose come sono o per caso non ho detto tutto, non è avvenuto per mia volontà.
Dunque è lealtà secondo la mia coscienza. D'altra parte è evidente che si deve istruire l'uomo che s'inganna, ma ci si deve salvaguardare da chi vuole ingannare.
Il primo caso esige un buon maestro, il secondo un allievo cauto".
Rispose Alipio: "Ti sono grato che hai soddisfatto la richiesta di Licenzio e hai alleggerito me d'un peso.
E poi non dovevi temere tanto tu quanto io piuttosto se, allo scopo d'esplorare il mio punto di vista poiché in altra maniera non si sarebbe potuto, tu fossi stato costretto a svelare il tuo.
Ma ora non ti rincresca d'esporre quanto manca, non tanto alla domanda quanto a chi l'ha fatta, sulla differenza fra la nuova e la vecchia Accademia".
"Confesso che mi dispiace proprio, dissi. Quindi fa' il favore, mentre io mi riposo un pochino, di chiarire in mia presenza le due denominazioni e di esporre l'origine della Nuova Accademia.
Non posso negare che l'argomento, che ci hai richiamato alla mente, interessa la nostra disputa".
"Penserei, mi rispose, che anche io abbia voluto dilazionare il tuo pranzo se non riflettessi che finora ne sei stato impedito da Licenzio e che la sua richiesta ci ha posto come limite che prima del pranzo gli si sbrogliassero le difficoltà".
Voleva continuare a parlare, ma mia madre, eravamo già in casa, cominciò a sospingerci alla mensa.
Ci mancò il tempo di dire altro.
Mangiammo con tanta frugalità quanto fosse sufficiente a far tacere lo stimolo della fame e ritornammo sul prato.
Alipio riprese a dire: "Accetto il tuo ordine e non oso rifiutarmi.
E se nulla mi sfuggirà, sarò grato al tuo insegnamento e alla mia memoria.
Ma se in qualche punto dovessi cadere in errore, tu lo correggerai affinché in seguito io non debba rifuggire da simile incarico.
Penso che la scissione della seconda Accademia non fosse diretta contro la Vecchia Accademia, ma piuttosto contro gli stoici.
E neanche si può dire che fu una scissione poiché si doveva prendere in considerazione e risolvere un problema sollevato da Zenone.
Difatti non arbitrariamente è stato ritenuto che la teoria dell'incapacità di affermare con certezza, sebbene non agitata da controversie, appartenesse al pensiero dei vecchi accademici.
Ed è facile provarlo anche con l'autorità di Socrate, di Platone e degli altri filosofi dell'antichità, i quali ritenevano di difendersi dall'errore a condizione di non prestar l'assenso senza sufficiente esame.
Tuttavia non tennero nelle loro scuole discussioni in proposito né da loro fu talora posto puntualmente il problema se la verità si può raggiungere con certezza o no.
Ma Zenone introduceva una tesi radicale e nuova e tendeva a dimostrare che niente si può ritenere con certezza se non è vero in tal maniera da distinguersi dal falso per note dissimili e che il filosofo non deve affermare in base all'opinione.
Arcesila ne venne a conoscenza e affermò che non è in potere dell'uomo avere un tal tipo di conoscenza e che non si deve affidare la vita del saggio al naufragio dell'opinione.
Ne concluse che non si dà apodissi per l'assenso.
Le cose stavano al punto che la Vecchia Accademia appariva piuttosto confermata che confutata.
Ma uscì fuori Antioco, discepolo di Filone, che, desideroso, come a molti sembrò, più della gloria che della verità, tirò nella polemica le teorie dell'una e dell'altra Accademia.
Affermava infatti che i nuovi accademici avevano tentato di accreditare un motivo nuovo e assai differente dalla dottrina degli antichi.
Allo scopo invocava l'autorità dei vecchi naturalisti e degli altri grandi filosofi e si poneva in contrasto con gli stessi accademici per il fatto che pretendevano di conoscere il verosimile quando confessavano d'ignorare il vero.
Aveva messo insieme parecchi argomenti, ai quali, a mio avviso, per il momento si deve passar sopra.
Ed in fondo altro non affermava con la più grande insistenza se non che il filosofo può conoscere con certezza.
Ritengo che questi siano i termini della controversia fra nuovi e vecchi accademici.
Che se i fatti stanno diversamente, ti pregherei, per me e per lui, d'informare meglio Licenzio.
Se al contrario i fatti stanno come li ho potuti esporre io, continuate pure la disputa iniziata".
Si critica il concetto di verosimile e probabile ( 7,16 - 13,30 )
Allora io intervenni: "Questo nostro discorso si prolunga più di quanto credessi.
E tu, o Licenzio, per quanto tempo ancora approfitti della tregua? Hai udito chi sono i tuoi accademici?".
Egli sorrise un po' vergognoso e piuttosto turbato dal rimprovero.
"Mi dispiace, disse, di aver con tanta insistenza affermato contro Trigezio che la felicità consiste nella ricerca della verità.
Il problema mi turba a tal punto da sentirmene pressoché misero, mentre a voi, se avete un po' di umanità, sembro soltanto degno di commiserazione.
Ma perché mi sto tormentando scioccamente? Ovvero perché ho paura se ho la garanzia della mia buona causa?
Certamente non mi lascerò convincere se non dalla verità".
"Ti vanno a genio, domandai, i nuovi accademici?". "Assai".
"Ti sembra dunque che dicano il vero?". Stava per dir di sì, ma reso più cauto da un sorriso di Alipio, esitò alquanto.
Quindi riprese: "Ripeti un po' la domandina?". "Ti sembra, ripetei, che gli accademici dicano il vero?".
E di nuovo, dopo un lungo silenzio: "Se è vero, non so, ma è probabile. Non conosco altro che mi sia concesso di ricercare".
"Ma sai che il probabile da costoro è denominato anche verosimile?". "Così pare".
"Dunque la dottrina degli accademici è verosimile?". "Sì".
"E adesso, soggiunsi, sta' più attento. Se qualcuno, visto un tuo fratello, dicesse che è simile a tuo padre e non conoscesse tuo padre, non è, a tuo modo di vedere, un pazzo o uno sciocco?".
Anche a questo punto tacque a lungo. Alla fine disse: "Non mi pare assurdo".
Stavo per rispondergli, quando m'interruppe dicendo: "Aspetta un momentino, per favore".
E poi sorridendo soggiunse: "Fin da adesso tu sei certo della vittoria, no?".
Replicai: "Ammettiamo pure che ne sia certo; non per questo tu devi abbandonare la tua difesa tanto più che questa nostra disputa è stata organizzata per esercitarti e per eliminare la disposizione alla diatriba".
"Ma io non ho letto, si scusò, gli accademici e non posseggo tutta la cultura con cui tu, essendone in possesso, mi attacchi".
"Non avevano letto, gli risposi, gli accademici neanche coloro che per primi ne difesero la teoria.
Ammettiamo che ti manchi un'ampia cultura ma non fino al punto che la tua intelligenza sia tanto incapace da farti soccombere, senza alcun attacco, ad alcune, assai poche, mie domande.
Comincio a temere che, prima di quanto desidero, debba prendere il tuo posto Alipio e se egli diviene avversario non andrò più avanti tanto sicuro".
"Magari, proruppe, io fossi già vinto. Almeno vi udirei, una buona volta, discutere e, quel che più conta, vi osserverei.
Sarebbe il più bello spettacolo che mi si possa offrire.
Voi avete deciso di travasare il discorso piuttosto che versarlo fuori e raccogliete con lo stilo le parole che sgorgano dalla bocca per non lasciarle, come sta scritto, cadere in terra ( Terenzio, Heaut. 242 ).
Mi sarà dunque consentito anche di leggervi. Non so per quale motivo, ma quando si hanno sotto gli occhi in persona coloro che disputano, il dibattito penetra nella mente, se non con maggior profitto, certamente con maggior diletto".
"Ti ringraziamo, dissi, ma quelle tue improvvise effusioni di gioia hanno lasciato sfuggire la tua incauta frase che nessuno spettacolo più bello ti si può offrire.
Ma supponi che, qui con noi, vedessi indagare e disputare il tuo buon padre, il quale, come nessuno, data la lunga sete, attingerà alla filosofia con tanto godimento.
Io riterrei di non essere stato mai così fortunato. Ma tu che proveresti finalmente, che cosa potresti dire?".
A questo punto gli spuntarono le lacrime. Appena poté parlare, stese la mano e guardando il cielo esclamò: "E quando, buon Dio, potrò assistere a tale avvenimento? Ma da te tutto si può sperare".
Al gesto, quasi tutti, dimenticando la disputa, ci sentimmo commuovere fino alle lacrime.
Mi feci forza. Trattenendomi a stento, ripresi: "Ma coraggio e recupera le tue energie poiché da tempo ti avevo avvisato che, come futuro difensore dell'Accademia, le dovevi raccogliere da ogni dove.
Non posso pensare che ora la paura ti faccia tremar le membra prima del suono della tromba ( Virgilio, Aen. 11, 424 ) e che per essere spettatore al combattimento altrui, desideri di divenir prigioniero tanto presto".
A questo punto Trigezio, dopo avere attentamente osservato che i nostri volti erano ridivenuti sereni, esclamò: "E perché questo individuo tanto perfetto non dovrebbe desiderare che Dio gli possa concedere un favore prima di averglielo chiesto?
Comincia ad avere fede, o Licenzio; poiché tu che non trovi nulla da rispondere e desideri di esser vinto, a mio avviso, sei uomo di poca fede ( Mt 6 30; Mt 8,26; Mt 16,8 )".
Scoppiammo a ridere. E Licenzio proruppe: "E parla tu allora, uomo felice non perché possiedi la verità ma di certo perché non la ricerchi".
Fummo maggiormente rasserenati per i motti di spirito dei due giovani.
Mi rivolsi a Licenzio: "Sta' attento alla domanda e riprendi il cammino, se ci riesci, con maggior sicurezza e lena".
"Sono attento, rispose, per quanto mi riesce. Se quel tale che ha visto mio fratello sa, per averlo udito dire, che si rassomiglia a mio padre, se lo crede, si può forse considerarlo un pazzo o uno stolto?".
"Ma per lo meno, replicai, si può chiamarlo un ignorante".
"Non necessariamente, a meno che non presuma di averne scienza.
Infatti se ammette come probabile una notizia che la pubblica voce ha frequentemente diffuso, non si può rimproverare di sconsideratezza".
Soggiunsi: "Consideriamo un tantino il fatto, e poniamocelo, per così dire, davanti agli occhi.
Supponi che l'uomo qualunque, di cui stiamo parlando, sia presente.
Tuo fratello sbuca fuori da qualche parte e quegli chiede: "Di' chi è figlio questo ragazzo?".
Gli si risponde: "Di un certo Romaniano".
E quegli: "Ma quanto si rassomiglia a suo padre! Come è esatto quello che ne avevo udito dire!".
A questo punto tu o un altro chiede: "Lo conosci Romaniano, buon uomo?".
E colui: "Oh! no; tuttavia mi sembra che gli rassomigli".
C'è qualcuno che potrebbe trattenersi dal ridere?". "Non di certo", rispose Licenzio.
"Allora vedi la conclusione?". "È un pezzo che la vedo.
Tuttavia proprio tale conclusione voglio ascoltare da te.
Bisogna a un certo punto che tu cominci a somministrare le vettovaglie a chi hai fatto prigioniero".
"E perché non dovrei concludere?, affermai. Il fatto stesso grida che ugualmente sono oggetto di scherno i tuoi accademici, i quali affermano di contentarsi in questa vita del verosimile e non sanno neanche che c'è il vero".
Trigezio intervenne: "Mi sembra molto diversa la cautela degli accademici dalla stoltezza di quel tale di cui hai narrato.
Essi infatti fondano su determinati criteri le loro affermazioni sul verosimile.
Al contrario quello stolto ha dato ascolto alla voce pubblica, la cui autorevolezza è infima a tutte".
"Come se, replicai, non fosse più stolto se dicesse: Non ho conosciuto affatto suo padre e non ho appreso dalla pubblica voce quanto assomiglia a suo padre, tuttavia mi sembra che gli rassomigli".
"Certamente più stolto, rispose. Ma a che scopo codesto discorso?".
"Ma perché, soggiunsi, sono della medesima mentalità coloro che affermano: Noi non conosciamo il vero, ma quest'oggetto che vediamo è simile a ciò che non conosciamo".
Mi obiettò: "Essi usano il termine 'probabile'". "Come fai a dirlo?, protestai.
Neghi forse che essi parlano di verosimile?". E Trigezio soggiunse: "L'ho detto allo scopo di eliminare quella similitudine.
Mi sembrava infatti che la voce pubblica ingiustamente fosse stata introdotta nella nostra discussione, poiché gli accademici non solo non prestano fede ai mille ma mostruosi occhi, come fantasticano i poeti, della voce pubblica, ma neanche agli occhi dell'uomo.
Ma in definitiva che avvocato sono io dell'Accademia? Ovvero con codesta discussione voi tentate forse di abbattere la mia sicurezza?
Eccoti Alipio, il cui ritorno, scusa, ci permette un po' di vacanza; e noi sospettiamo che da tempo tu giustamente lo temi".
Allora, nel silenzio che seguì, ambedue volsero lo sguardo ad Alipio.
Ed egli: "Vorrei proprio, disse, venire, secondo le mie forze, in aiuto alla vostra causa se non mi spaventasse il vostro auspicio.
Ma, a meno che non m'illuda, potrei sfuggire facilmente tale timore.
Ed insieme m'è di conforto che l'attuale avversario degli accademici s'è caricato del peso di Trigezio sconfitto e che ora è probabile, per vostra stessa ammissione, che riesca vincitore.
Quel che temo di più e che non potrò evitare è l'accusa di negligenza per abbandono del mio posto o di presunzione per avere occupato quello di un altro.
Penso infatti che non vi siate dimenticati che m'è stato conferito l'incarico di giudice".
Qui Trigezio interloquì: "Quello era un conto e questo è un altro. Perciò ti preghiamo che accetti di esserne esonerato".
"Non mi oppongo, rispose. Mentre desidero d'evitare l'accusa di negligenza e di presunzione, non devo cadere nei lacci dell'orgoglio, che è il peggiore dei vizi, qualora volessi mantenere la carica da voi conferitami più a lungo di quanto mi concedete.
E per questo vorrei che mi dica, o buon accusatore degli accademici, a difesa di chi tu li avversi.
Temo infatti che tu intenda dimostrarti accademico ribattendo gli accademici".
"Tu, come penso, gli risposi, sai bene che si danno due tipi di accusatori.
Da Cicerone con rara moderazione è stato detto che egli era accusatore di Verre in maniera da essere difensore dei siciliani.
Ma non ne consegue che chiunque accusa qualcuno, necessariamente difenda un altro".
"Hai per lo meno un principio, egli replicò, su cui la tua tesi abbia già trovato un fondamento?".
"È facile rispondere alla domanda, per me soprattutto, perché non mi giunge inaspettata.
Da tempo ho trattato a fondo il problema in me stesso e vi ho riflettuto sopra molto a lungo.
E perciò, Alipio, ascolta ciò che, come credo, ti è ben noto. Io non intendo che questa discussione sia intrapresa per il gusto di discutere.
Basti quanto abbiamo esposto, a titolo d'introduzione, con questi giovani.
Ivi la filosofia ha liberamente quasi scherzato con noi.
E perciò ci siano tolte dalle mani le nozioncine per fanciulli.
Si tratta della nostra vita, del nostro essere morale, del nostro spirito che tende a superare tutti gli ostacoli del mondo delle apparenze, a trionfare del piacere ritornando, per così dire, nel luogo della sua origine mediante il possesso della verità e a regnare, disposandosi alla temperanza, per tornare, nella raggiunta sicurezza, in cielo.
Comprendi ciò che intendo dire? Eliminiamo dunque ormai tutto questo.
Si devono costruire armi per un forte guerriero ( Virgilio, Aen. 8, 441 ).
Non v'è cosa che sempre ho meno desiderato quanto che fra coloro, i quali sono vissuti insieme per molto tempo e hanno avuto frequenti colloqui, riemerga qualche tema, dal quale possa sorgere un nuovo conflitto.
Ho voluto tuttavia far trascrivere, a causa della memoria, custode non sempre fedele dei pensieri, gli argomenti delle nostre frequenti discussioni.
Questi giovani dovranno imparare a riflettervi sopra e cominciare a destreggiarsi nell'attacco e nella difesa.
E tu non dovresti ignorare che non ho mai raggiunto alcun principio da ammettere con certezza e che ne sono stato impedito dalle argomentazioni e dispute degli accademici.
Neanche io so come hanno potuto incutere nel mio animo l'accettazione probabile, tanto per stare alla loro terminologia, che l'uomo non può trovare il vero.
Ero divenuto del tutto pigro e indolente né osavo cercare quanto non è stato dato di raggiungere ad uomini assai dotti e perspicaci.
Se io prima non otterrò per me la persuasione di poter raggiungere il vero nella misura con cui essi raggiunsero la persuasione opposta, non oserò iniziare la ricerca.
Poi non ho una dottrina da difendere. Quindi ritira la tua domanda, per favore, e discutiamo piuttosto fra noi con tutta la possibile avvedutezza sulla possibilità di raggiungere il vero.
Da parte mia, mi pare di avere già molti argomenti con cui intendo far forza contro la tesi degli accademici.
Frattanto non c'è differenza fra loro e me, se non che a loro sembrò probabile l'impossibilità di raggiungere il vero e per me è probabile la possibilità.
Difatti l'ignoranza del vero o è una mia particolare situazione se essi fingevano, ovvero è comune a me e a loro".
"Ormai, disse Alipio, vado avanti tranquillo, poiché noto che tu non sarai accusatore, ma aiuto.
Tuttavia, scusami, non meniamola alle lunghe. Pertanto durante la presente indagine, in cui, come sembra, io debbo prender le parti dei due che si sono sottomessi a te, proponiamoci di non finire in un contrasto di parole.
Noi stessi abbiamo sovente affermato, per tuo suggerimento e sull'autorità d'un testo di Cicerone, che tale fatto è assai disdicevole.
Dunque Licenzio ha detto, se non mi sbaglio, che approvava la tesi degli accademici sulla probabilità.
Tu hai replicato se sapeva che essa era da costoro denominata anche verosimiglianza.
Egli te l'ha confermato senza esitazione. E so bene, poiché le ho da te apprese, che le dottrine degli accademici non ti sono sconosciute.
Ed essendo esse, come ho detto, ben presenti nel tuo pensiero, non capisco proprio perché vai inseguendo delle parole".
"Credimi, gli risposi, non si fa questione di parole, ma una profonda questione di idee.
Non penso certo che quegli uomini fossero incapaci di attribuire i rispettivi nomi alle cose, ma sono d'avviso che hanno scelto simili termini per occultare la propria filosofia ai meno capaci e per manifestarla ai più capaci.
Esporrò il significato, le ragioni e il modo di questa mia interpretazione dopo aver discusso quelle tesi che gli studiosi suppongono formulate da loro come avversari dell'umana conoscenza.
Intanto mi accorgo con piacere che oggi il nostro discorso si è prolungato fino a questo momento allo scopo di chiarire sufficientemente ed esaurientemente i termini della nostra indagine.
Era indispensabile, perché, a mio avviso, costoro furono uomini assai ponderati e riflessivi.
Quindi, se per il momento rimane qualche cosa da precisare, sarà contro gli studiosi i quali ritennero che gli accademici avversavano la conoscenza certa della verità.
E perché tu non abbia a pensare che io ho paura, indosserò le armi anche contro di loro se propugnano le dottrine contenute nei loro libri per convinzione e non nell'intento di occultare il proprio sistema e non svelare verità considerate sacre a menti ritenute contaminate e profane.
Lo farei oggi stesso se il tramonto non ci costringesse a tornare a casa". Quel giorno si disputò fino a questo punto.
L'indomani sorse un sole non meno sereno e tranquillo. Ma potemmo con difficoltà sbrigare le faccende domestiche.
Difatti ne passammo gran parte nello scrivere lettere. Ed essendone rimaste appena due ore, ci portammo sul prato.
Ci invitava la pura serenità del cielo. Ci parve quindi opportuno di non lasciar trascorrere inutilmente quel po' di tempo che restava.
Arrivammo sotto il solito albero e ci fermammo. Io cominciai: "Vorrei, ragazzi, poiché non abbiamo da trattare un argomento importante, che mi richiamiate la risposta che ieri Alipio diede al piccolo problema che vi ha turbato".
Mi rispose Licenzio: "È passato tanto poco tempo, che non vale la pena richiamarlo, e quanto poca sia la sua importanza lo stai costatando tu stesso.
Comunque ti ha pregato, dal momento che il concetto è chiaro, di non far questione di parole".
Ed io di rimando: "Ma siete sufficientemente coscienti del significato e dell'importanza del concetto in parola?".
"Mi pare, egli disse, di comprenderne il significato; ti prego, comunque, di chiarirlo ancora un po'.
Infatti ti ho udito dire spesso che è sconveniente per chi disputa soffermarsi in questioni di parole quando non rimane alcun motivo di discussione sui concetti.
Ma questo è tanto arduo che non si può chiederne a me la spiegazione".
"Allora, risposi, siate voi ad ascoltarne il significato.
Gli accademici denominano probabile o anche verosimile ciò che ci può stimolare a compiere un atto senza apodissi.
Dico senza apodissi nel senso che l'atto compiuto non è determinato dalla certezza ma che lo compiamo egualmente senza la convinzione di averne indubbia conoscenza.
Ad esempio, supponiamo che qualcuno, durante la notte scorsa, tanto limpida e serena, ci avesse chiesto se fosse seguito un sole tanto splendente.
Penso che avremmo risposto di non saperlo, ma che ci sembrava probabile.
Tali, afferma l'accademico, mi sembrano tutte le conoscenze, che ho ritenuto opportuno denominare probabili o anche verosimili, e non ho proprio nulla in contrario se tu le vuoi denominare diversamente.
Mi basta che tu abbia compreso cosa intendo dire, cioè quali significati io esprimo con questi termini.
Non appartiene certamente all'essenza del filosofo coniare nuovi vocaboli ma indagare sulla ragione delle cose ( Cicerone, Varro framm. 33 t. A ).
Avete compreso abbastanza come mi sono stati strappati di mano gli strumenti didattici con cui v'inducevo alla riflessione?".
Tutte e due risposero di aver compreso e mi pregavano con l'espressione del viso di dare io stesso la risposta.
Soggiunsi: "Credete forse che Cicerone, di cui sono le parole citate, fosse così inesperto della lingua latina da imporre alle nozioni che possedeva nomi incompetenti a significarle?".
Prese allora la parola Trigezio: "Ormai non intendiamo, essendo manifesto il concetto, sollevare più opposizioni per questione di parole.
Ora piuttosto pensa a rispondere ad Alipio che ci ha difeso mentre tu stai tentando di aggredirci di nuovo".
Licenzio lo interruppe: "Un momento, ti prego. Mi sta venendo in mente un non so che: mi sto accorgendo che la dimostrazione non doveva esserti sottratta di mano con tanta facilità".
Tacque un po', immerso nella riflessione, poi continuò: "Scusa, ma pare che non si dia fatto più assurdo dell'affermare che si fonda sul verosimile chi ignora che cos'è il vero.
Insomma quella tua similitudine non mi dà più fastidio.
Difatti, interrogato se dalle attuali condizioni atmosferiche sia condizionato il cadere della pioggia per il giorno successivo, giustamente rispondo che è verosimile e tuttavia non nego di conoscere qualche cosa di vero.
So infatti che quest'albero ora non può diventar d'argento e senza presunzione affermo di sapere secondo verità molte cose e noto che ad esse sono simili quelle che denomino verosimili.
Frattanto perché dovrei esitare e passare all'altra parte per consegnarmi a chi spetto come prigioniero per diritto di vittoria?
Pertanto tu, o Carneade, o altra peste greca, per risparmiare i latini, tu dunque, se affermi di non sapere nulla di vero, come puoi fondarti sul verosimile?
Scusatemi se non ho saputo trovare altro nome. E perché dovremmo disputare con chi non può neanche parlare?".
"Non sarò io, proruppe Alipio, a temere i disertori e quanto meno li temerà il grande Carneade.
Contro di lui tu hai ritenuto, non so se spinto da leggerezza giovanile o piuttosto fanciullesca, di dover lanciare oltraggi anziché un qualche argomento.
Frattanto contro di te, per corroborare la propria tesi che è fondata soltanto sul probabile, gli basterebbe certamente, come argomento che noi siamo assai lontano dal vero, il fatto che tu stesso ne potresti essere una dimostrazione.
Difatti ti sei lasciato tanto sbilanciare da una sola domandina al punto da ignorare completamente da quale parte ti saresti dovuto mettere.
Ma rimandiamo l'argomento della tua scienza. Tu stesso hai dianzi confessato che ti è stata infusa da quest'albero.
Anche se ti sei buttato con l'altro partito, tuttavia devi essere diligentemente istruito su quanto ho detto poco fa.
A mio avviso, non eravamo ancora giunti al problema della possibilità di trovare il vero.
Ma io ho ritenuto di dover trattare soltanto come esordio alla mia difesa il problema di fronte al quale avevo previsto la tua stanchezza e prostrazione e cioè: che non si deve fare ricerca sul verosimile o probabile o qualsiasi altra nozione, comunque si denomini, di cui gli accademici affermino che per loro è sufficiente.
Che se a te pare d'essere già un genuino possessore della verità, a me non importa.
In seguito, se non sarai ingrato a questa mia difesa, me le insegnerai forse tu le medesime cose".
A questo punto Licenzio si mostrò pieno di vergogna per l'attacco di Alipio.
Io intervenni: "O Alipio, hai proprio voluto pronunziarti su ogni argomento fuorché sul modo con cui dobbiamo discutere con coloro che non conoscono l'arte della parola".
E quegli: "Da tempo a me e a tutti è noto che tu possiedi l'arte della parola.
Ora poi lo mostri con la tua stessa professione. Vorrei pertanto che tu giustificassi, prima di tutto, l'utilità di questa tua indagine che o è superflua, come penso, e soprattutto è superfluo trovarle una risposta; ovvero, se può sembrare utile e da me non può essere svolta, ti supplico di non esercitare di mala voglia l'ufficio di maestro".
"Ricordi, gli risposi, che ieri ho promesso di trattare in seguito dei termini in questione.
Ed ora il sole mi avverte di mettere nei cesti gli strumenti didattici mostrati a questi ragazzi, tanto più che sono solito mostrarli a titolo di ornamento e non a scopo di vendita.
Ed ora prima che l'opera dello stilo sia impedita dalle tenebre, le quali di solito sono la difesa degli accademici, desidero che oggi stesso si stabilisca chiaramente, d'accordo fra di noi, la questione per la cui trattazione domani dobbiamo levarci.
Rispondimi dunque per favore, se ritieni che gli accademici abbiano avuto una fondata dottrina sulla verità e non abbiano voluto svelarla incautamente ad individui non iniziati e non purificati, ovvero se hanno veramente teorizzato nei termini in cui si presenta storicamente la loro controversia".
"Con serietà, rispose Alipio, esporrò la loro vera tesi.
E tu conosci meglio di me, per quanto si può rilevare dai libri, i termini con cui di solito esprimono la loro dottrina.
Se poi chiedi la mia opinione personale, penso che il vero non è stato ancora raggiunto.
Aggiungo inoltre, per rispondere alla tua domanda sugli accademici, di ritenere che il vero non si può raggiungere e non tanto per una mia personale opinione, che tu hai sempre avvertito in me, ma anche per l'autorità di grandi ed eccellenti filosofi.
Sono tanto la nostra debolezza quanto la loro sottigliezza, al di là della quale c'è proprio da credere non ci sia più nulla da trovare, che ci costringono, non so come, a curvare il collo".
"Proprio questo volevo, dissi. Temevo infatti, se la tua opinione si accordava con la mia, che la nostra discussione rimanesse sterile.
Non ci sarebbe stato nessuno dalla parte contraria a farci venire l'argomento fra le mani in maniera da analizzarlo con tutta la diligenza possibile.
E se si fosse dato questo caso, ero pronto a pregarti di far tua la tesi degli accademici come se la tua interpretazione fosse che affermassero, non solo per esercizio ma anche per convinzione, l'impossibilità di raggiungere il vero.
Fra noi si discute quindi se sulla base delle loro dimostrazioni è probabile che nulla si può conoscere e che non si dà apodissi per l'assenso.
Se riuscirai a dimostrarlo, cederò volentieri. Se poi riuscirò io a dimostrare che è molto più probabile che il filosofante può raggiungere la verità e che non sempre si deve sospendere l'assenso, penso che non avrai nulla in contrario per accettare la mia opinione".
La mia proposta piacque a lui e ai presenti. Tornammo a casa già avvolti dalle ombre della sera.
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