Contro le due lettere dei Pelagiani

Indice

Libro I

1.1 - Ossequio al papa Bonifacio

È vero che senz'altro ti conoscevo già per la risonanza della tua fama celebratissima e avevo già appreso da testimoni molto numerosi e molto attendibili di quanta grazia divina tu fossi ricolmo, o beatissimo e venerando papa Bonifacio.

Ma ora, dopo che ti ha visto anche fisicamente di persona il mio fratello Alipio; dopo che, accolto da te con estrema gentilezza e cordialità, ha scambiato con te conversazioni dettate da reciproca direzione; dopo che, convivendo con te in comunione di grande affetto, anche se per piccolo tratto di tempo, ha versato nel tuo animo sé e me insieme e ha riportato te e me nell'animo suo, tanto maggiore si è fatta in me la conoscenza della tua Santità quanto più certa l'amicizia.

Tu infatti, rifuggendo dal pensare altamente di te, ( Rm 12,16 ) per quanto più alto sia il posto da cui presiedi, non disdegni d'essere amico degli umili e di rendere amore a coloro che ti danno amore.

Cos'altro è appunto l'amicizia, che non trae il nome se non dall'amore e non è fedele se non nel Cristo, nel quale soltanto può essere anche eterna e felice?

Per questo e altresì per la maggiore fiducia suscitata in me da quel fratello che mi ti ha reso più familiare, ho ardito di scrivere alla tua Beatitudine qualcosa sui problemi che in questo tempo sollecitano con uno stimolo più vivo la mia cura episcopale, per quanta ne ho, a vigilare per il gregge del Signore.

1.2 - Il pericolo della nuova eresia

Infatti i nuovi eretici, nemici della grazia di Dio, che per Gesù Cristo nostro Signore è data ai piccoli e ai grandi, benché una più aperta condanna li mostri già con maggiore evidenza come gente da tenere alla larga, non cessano tuttavia di tentare con i loro scritti i cuori dei meno cauti o dei meno istruiti.

Ai quali eretici bisognerebbe senz'altro rispondere perché non confermino se stessi o i loro seguaci in quel nefando errore, anche se non temessimo che con il loro specioso discorrere riescano ad ingannare qualcuno dei cattolici.

Ma poiché essi non finiscono di gridare attorno ai recinti del gregge del Signore e di forzarne gli accessi da ogni parte per strappare le pecore, redente a così caro prezzo, e poiché è comune a tutti noi che esercitiamo l'ufficio dell'episcopato la vigilanza pastorale, sebbene tu primeggi in essa per la sede più alta, io faccio quello che posso, secondo la piccolezza del mio ufficio e secondo quanto il Signore si degna donarmi con l'aiuto delle tue orazioni, al fine di opporre ai loro scritti pestilenziali e fraudolenti altri scritti curativi e protettivi, che o guariscano anche la loro rabbia furiosa o le impediscano di mordere altri.

1.3 - Dedica dell'opera a Bonifacio

Ecco cosa rispondo alle loro due lettere, ossia ad una prima che si dice mandata da Giuliano a Roma con lo scopo, credo, che gli servisse a trovare o a far più seguaci possibili, e ad una seconda che in diciotto hanno osato scrivere a Tessalonica come vescovi che condividono quell'errore, per tentare con la loro astuzia non cristiani comuni, ma lo stesso vescovo locale e trarlo, se possibile, dalla loro parte.

Le risposte dunque che io, come ho detto, do in quest'opera alle loro due lettere, ho decisamente preferito di mandarle alla tua Santità, non tanto per fartele conoscere quanto per fartele esaminare ed emendare dove ci fosse eventualmente qualcosa che ti dispiaccia.

Mi ha confidato infatti il mio fratello [ Alipio ] che sei stato tu stesso a degnarti di dare a lui quelle lettere, le quali non sarebbero potute capitare nelle tue mani se non per la diligenza vigilantissima di tuoi figli e nostri fratelli.

Da parte mia poi ringrazio la tua benevolenza tanto sincera verso di noi di non avermi voluto tener nascoste quelle lettere dei nemici della grazia di Dio, nelle quali hai trovato il mio nome, espresso in modo evidente e calunnioso.

Ma spero dal Signore Dio nostro che non senza ricompensa celeste mi lacerino con dente maledico coloro ai quali io mi oppongo in difesa dei bambini, perché non siano lasciati per loro rovina al falso lodatore Pelagio, ma siano offerti al vero salvatore Cristo per la loro liberazione.

2.4 - Accusa pelagiana sul libero arbitrio

Rispondiamo ordunque alla lettera di Giuliano.

Egli scrive: Quei manichei con i quali non siamo attualmente in comunione, ossia tutti costoro dai quali dissentiamo, affermano che per il peccato del primo uomo, cioè di Adamo, andò perduto il nostro libero arbitrio e che nessuno possiede più il potere di vivere bene, ma tutti sono costretti al peccato dal potere vincolante della loro carne.

Manichei chiama i cattolici, alla maniera di quel Gioviniano che, novello eretico di qualche anno fa, negava la verginità di Maria santa e metteva alla pari della sacra verginità le nozze dei fedeli.

Né per altra ragione moveva ai cattolici questo addebito se non perché voleva farli apparire accusatori o condannatori delle nozze.

2.5 - Il libero arbitrio non è andato perduto, ma ha bisogno di essere liberato

Nel difendere però il libero arbitrio precipitano fino a confidare in esso piuttosto che nell'aiuto del Signore per poter osservare la giustizia e fino a spingere ciascuno a vantarsi di sé e non nel Signore. ( 1 Cor 1,31 )

Chi di noi poi direbbe che per il peccato del primo uomo sia sparito dal genere umano il libero arbitrio?

Certo per il peccato sparì la libertà, ma la libertà che esisteva nel paradiso di possedere la piena giustizia insieme all'immortalità.

Per tale perdita la natura umana ha bisogno della grazia divina, secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero; ( Gv 8,36 ) liberi, s'intende, per poter vivere in modo buono e giusto.

Infatti è tanto vero che non è sparito nel peccatore il libero arbitrio che proprio per mezzo di esso peccano gli uomini, specialmente tutti coloro che peccano con piacere e amore del peccato, acconsentendo a ciò che fa loro piacere.

Per cui anche l'Apostolo scrive: Quando eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia. ( Rm 6,20 )

Ecco, si dichiara che non avrebbero potuto sottostare in nessun modo nemmeno alla schiavitù del peccato se non in forza di un'altra libertà.

Liberi nei riguardi della giustizia non lo sono dunque se non in forza dell'arbitrio della volontà, ma liberi dal peccato non lo diventano se non in forza della grazia del Salvatore.

Per questo appunto l'ammirabile Dottore ha differenziato anche gli stessi vocaboli, scrivendo: Quando infatti eravate sotto la schiavitù del peccato, eravate liberi nei riguardi della giustizia.

Ma quale frutto raccoglieste allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro destino è la morte.

Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come destino avete la vita eterna. ( Rm 6,20-22 )

Dice liberi nei riguardi della giustizia, non liberati; dal peccato invece non dice liberi, perché non l'attribuissero a sé, ma con grande accorgimento preferisce dire: liberati, riferendosi così alla famosa sentenza del Signore: Se il Figlio vi avrà liberati, allora sarete liberi davvero.

Poiché dunque i figli degli uomini non vivono bene se non dopo esser diventati figli di Dio, che pretesa è quella di costui ( Giuliano ) d'attribuire al libero arbitrio il potere di vivere bene, quando tale potere non è dato se non dalla grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, come dice il Vangelo: A quanti però l'hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio? ( Gv 1,12 )

3.6 - Anche la fede è dono di Dio

Ma forse diranno d'essere stati aiutati proprio per avere il potere di diventare figli di Dio e che invece per meritare d'avere tale potere hanno precedentemente accolto Gesù con il libero arbitrio senza l'aiuto di nessuna grazia.

Questa è appunto la loro tattica per cercar di distruggere la grazia: sostenere che essa viene data secondo i nostri meriti.

Ma perché non dividano questa sentenza evangelica riconoscendo affermato il merito nelle parole: A quanti però l'hanno accolto, e poi non riconoscendo affermata nelle altre: Ha dato il potere di diventare figli di Dio la grazia data gratuitamente ma corrisposta in forza di cotesto merito, se domandassimo cosa significhino le parole: L'hanno accolto, avranno forse pronta un'altra risposta che non sia: "Hanno creduto in lui"?

Orbene, perché sappiano che anche il credere dipende dalla grazia, leggano quello che dice l'Apostolo: Senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari.

Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio, perché a voi è stata concessa a motivo di Cristo la grazia non solo di credere in lui ma anche di soffrire per lui. ( Fil 1,28-29 )

Riconosce evidentemente che ambedue, il credere e il soffrire, sono stati doni concessi.

Così pure quando augura: Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo. ( Ef 6,23 )

Leggano inoltre quello che dice il Signore stesso: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. ( Gv 6,44 )

Nel qual testo, perché nessuno pensi che le parole: Venire a me abbiano un senso diverso dal: "Credere in me", poco dopo parlando del suo corpo e del suo sangue ed essendosi scandalizzati moltissimi del suo modo d'esprimersi, dichiarò: Le parole che vi ho dette sono spirito e vita.

Ma vi sono alcuni tra voi che non credono.

Poi l'Evangelista soggiunge: Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.

E continuò Gesù: Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. ( Gv 6,64-66 )

Ha ripetuto dunque la sentenza con la quale aveva affermato: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato.

E mostrò d'averlo detto per i credenti e per i non credenti, spiegando il senso delle sue precedenti parole: Se non lo attira il Padre che mi ha mandato e ripetendo con parole diverse lo stesso pensiero espresso nella frase: Se non gli è concesso dal Padre mio.

Viene appunto attirato al Cristo chi riceve il dono di credere nel Cristo.

Il potere dunque di diventare figli di Dio è dato a coloro che credono in Gesù nel momento stesso in cui è fatto ad essi il dono di credere in lui.

Il qual potere se non è dato da Dio, non si può avere in nessun modo dal libero arbitrio, perché nel bene non sarà nemmeno libero l'arbitrio che non sia stato liberato dal Liberatore, nel male invece ha libero l'arbitrio l'uomo che porta dentro di sé il piacere della malizia, seminata in lui da un impostore occulto o manifesto, oppure assorbita per autosuggestione.

3.7 - Libertà nel peccato

Non è dunque vero, come alcuni dicono che noi diciamo e come costui osa per giunta scrivere, che "tutti sono costretti al peccato dalla necessità della loro carne", quasi che pecchino contro la propria volontà.

È vero invece che quanti sono già in età di disporre dell'arbitrio della propria mente, e rimangono nel peccato per volontà loro, e da un peccato precipitano in un altro per volontà loro.

Perché, anche chi li corrompe e inganna, non fa altro che portarli a commettere il peccato di loro volontà, o per ignoranza della verità o per piacere d'iniquità o per ambedue i mali: e di cecità e di debilità.

Ma la ragione per cui questa volontà, libera nel male perché si diletta del male, non è libera nel bene, sta nel fatto che non è stata liberata.

Né può l'uomo volere qualcosa di buono se non è aiutato da colui che non può volere il male, cioè dalla grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore.

Tutto quello infatti che non viene dalla fede è peccato. ( Rm 14,23 )

E quindi la buona volontà che si strappa al peccato viene dalla fede, perché il giusto vive di fede. ( Rm 1,17; Ab 2,4 )

Ma alla fede spetta credere nel Cristo.

E nessuno può credere in lui, cioè andare da lui, se non gli è stato concesso.

Nessuno dunque può avere la giusta volontà se non ha ricevuto dall'alto la vera grazia, cioè la grazia gratuita senza meriti precedenti di nessun genere.

4.8 - Ambiguità pelagiane

Ciò non vogliono costoro, esaltati e superbi, né difensori del libero arbitrio correggendolo, ma distruttori gonfiandolo.

I quali non per altro s'indignano contro di noi che facciamo queste affermazioni se non perché disdegnano di vantarsi nel Signore. ( 1 Cor 1,31 )

Pelagio tuttavia paventò il giudizio dei vescovi palestinesi ed essendo stato accusato di dire che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, negò di dirlo e condannò con anatema coloro che lo dicevano.

Né altra dottrina che questa è tuttavia quella che Pelagio si trova a difendere nei libri scritti da lui dopo di allora, persuaso d'aver giocato i suoi giudici o mentendo o nascondendo non so in che modo il proprio pensiero con ambigue parole.

5.9 - Accusa pelagiana sul matrimonio

Ma vediamo già quello che viene appresso.

Egli scrive: Dicono pure che le nozze attualmente in uso non sono state istituite da Dio.

Ciò si legge nel libro di Agostino contro il quale io ho risposto recentemente con quattro libri.

E le affermazioni di Agostino sono state fatte proprie in odio alla verità dai nostri nemici.

A tali sue calunniosissime parole mi sembra di dover rispondere brevemente per ora, perché dopo le ripete, quando egli stesso vuole insinuare, come per opporsi alle nostre tesi, che cosa insegnino costoro.

A quel punto sarà il caso di combattere con l'aiuto del Signore contro di lui tanto quanto lo esige l'importanza della questione.

Per il momento rispondo che le nozze sono state istituite da Dio: e allora quando fu detto: Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne; ( Gen 2,24 ) e allora quando fu scritto: L'unione della moglie col marito è dono del Signore. ( Pr 19,14 )

Né altro infatti avviene anche ora se non quello che allora: l'unirsi dell'uomo con la moglie e il farsi dei due una sola carne.

Delle stesse nozze appunto come si praticano adesso il Signore fu consultato dai Giudei se fosse lecito rimandare la moglie per un qualsiasi motivo.

E, ricordata questa testimonianza della legge, egli soggiunse: Quello dunque che Dio ha congiunto l'uomo non lo separi. ( Mt 19,6 )

Di questa testimonianza della legge si valse anche l'apostolo Paolo per esortare i mariti ad amare le proprie mogli. ( Ef 5,25 )

Mi guardi dunque Dio che nel mio libro abbia potuto costui leggere qualcosa di contrario a questi testi divini.

Egli invece, o non intendendo o piuttosto calunniando, tenta di storcere in altro senso quello che legge.

Quanto poi al mio libro, contro il quale egli ricorda d'aver risposto con quattro libri, esso fu scritto da me dopo la condanna di Pelagio e di Celestio.

Ciò ho creduto doverlo dire, perché costui dice che le mie affermazioni sono state fatte proprie in odio alla verità dai suoi nemici, e non vorrei che da ciò qualcuno sia indotto a pensare che i nemici della grazia del Cristo siano stati condannati come nuovi eretici per questo mio libro.

Comunque in quel mio libro le nozze sono difese invece che riprovate.

5.10 - Accusa sulla sessualità e la procreazione

Scrive costui: Dicono altresì che il movimento dei genitali e il mescolamento dei coniugi sono invenzioni del diavolo e per questo coloro che nascono sono rei, benché innocenti, e che essi nascano da questo mescolamento diabolico viene dal diavolo e non da Dio.

Ora questo senza nessun dubbio è manicheo.

Noi al contrario, come diciamo che le nozze sono state istituite da Dio per l'ordinata generazione dei figli, così diciamo che la seminagione dei figli da generare non poteva essere nemmeno nel paradiso, se si generassero dei figli, senza il movimento dei genitali e il mescolamento dei coniugi.

Ma se tale sarebbe stato il movimento e tale il mescolamento dei coniugi, nel caso che nessuno avesse peccato, quale è adesso in compagnia della vergognosa libidine, qui sta la questione, e di essa discuteremo più diligentemente in seguito, se Dio lo vorrà.

6.11 - Né l'unione coniugale né i figli sono opera diabolica

Che cosa tuttavia costoro vogliano, a cosa mirino, dove tentino di arrivare lo dichiarano le parole che costui aggiunge e con le quali ci attribuisce di dire: "Per questo coloro che nascono sono rei, benché innocenti, e che essi nascono da questo mescolamento diabolico viene dal diavolo e non da Dio".

Ora, invece, noi né diciamo diabolico il mescolamento dei coniugi, specialmente dei credenti, che si fa allo scopo di generare figli da rigenerare successivamente.

Neppure diciamo che gli uomini vengono fatti dal diavolo, ma sempre da Dio in quanto sono uomini, e che tuttavia nascono rei anche da coniugi credenti, come un oleastro da un olivo, a causa del peccato originale, e che per questo sono sotto il diavolo finché non rinascano nel Cristo, essendo il diavolo autore della colpa e non della natura.

Poiché costoro dicono all'opposto che i bambini non contraggono nessun peccato originale e quindi non sono sotto il diavolo, che cosa s'ingegnano d'ottenere se non l'esclusione dei bambini da quella grazia di Dio con la quale egli, come dice l'Apostolo, ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto? ( Col 1,13 )

Tanto da negare che i bambini siano in potere delle tenebre, anche prima dell'aiuto liberante del Signore, lodano nei bambini l'opera del Creatore in modo così esagerato da distruggere la misericordia del Redentore.

E poiché noi riconosciamo la misericordia sia nei grandi che nei piccoli, egli sentenzia che questo senza nessun dubbio è manicheo, quando invece è l'antichissimo dogma cattolico che serve a sbaragliare il nuovo dogma eretico di costoro.

7.12 - Accusa pelagiana sui giusti dell'Antico Testamento

Scrive: Dicono che i santi nell'Antico Testamento non furono senza peccati, cioè non furono liberati dalle colpe neppure per via d'espiazione, ma la morte li colse in stato di reato.

Invece noi diciamo che furono liberati dalle loro colpe tanto prima della Legge quanto al tempo dell'Antico Testamento, non per virtù propria, perché è maledetto l'uomo che confida nell'uomo, ( Ger 17,5 ) e questa maledizione abbraccia certamente coloro ai quali il Salmo divino rimprovera di confidare nella loro forza; ( Sal 49,7 ) né in virtù dell'Antico Testamento che generava nella schiavitù, ( Gal 4,24 ) benché dato da Dio per grazia di una precisa disposizione; né in virtù della stessa Legge e santa e giusta e buona ( Rm 7,12 ) che prescriveva: Non desiderare, ( Es 20,17; Rm 7,7 ) perché non fu data per essere capace di conferire la vita, ma per le trasgressioni, finché non venisse la discendenza promessa; ( Gal 3,19-21 ) ma furono liberati per il sangue del Redentore stesso, che è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù. ( 1 Tm 2,5 )

Ma cotesti nemici della grazia di Dio, che è stata data a piccoli e grandi per Gesù Cristo nostro Signore, proprio per questo dicono che quegli antichi uomini di Dio erano di una giustizia perfetta perché non si creda che abbiano avuto bisogno dell'incarnazione, passione, risurrezione del Cristo, per la cui fede furono salvati.

8.13 - Accusa sulla santità degli Apostoli

Scrive: Dicono che anche l'apostolo Paolo e tutti gli Apostoli ebbero sempre la macchia della libidine disordinata.

Chi oserebbe dirlo, per quanto empio?

Ma la calunnia di costui si spiega per il fatto che le parole dell'Apostolo: Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, ( Rm 7,18 ) e le altre simili, non credono che Paolo le abbia dette di se stesso, ma che abbia preso le parti di non so chi altro che patisse tale situazione.

Per cui dobbiamo considerare ed esaminare diligentemente questo passo della Lettera di Paolo, perché una qualche sua oscurità non faccia da copertura all'errore di costoro.

A quel proposito, sebbene l'Apostolo discuta l'argomento abbastanza diffusamente, difendendo con grande e lunga insistenza la grazia contro quelli che si vantavano nella legge, noi tuttavia tocchiamo pochi punti pertinenti al tema.

Dice S. Paolo: Nessuno sarà giustificato davanti a Dio dalle opere della legge.

Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato.

Ora invece, indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono.

E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e tutti sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata dal Cristo Gesù. ( Rm 3,20-24 )

E ancora: Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge?

Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede.

Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. ( Rm 3,27-28 )

Ancora: Non infatti in virtù della legge fu data ad Abramo o alla sua discendenza la promessa di diventare erede del mondo, ma in virtù della giustizia che viene dalla fede; poiché se diventassero eredi coloro che provengono dalla legge, sarebbe resa vana la fede e nulla la promessa.

La legge infatti provoca l'ira; al contrario, dove non c'è legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,13-15 )

In un altro passo: La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia. ( Rm 5,20 )

Similmente in un altro luogo: Il peccato infatti non dominerà più su di voi, poiché non siete più sotto la legge, ma sotto la grazia. ( Rm 6,14 )

E in un altro luogo ugualmente: O forse ignorate, fratelli, - parlo a gente esperta di legge - che la legge ha potere sull'uomo solo per il tempo in cui egli vive?

La donna sposata, infatti, è legata dalla legge al marito finché egli vive, ma se il marito muore, è libera dalla legge. ( Rm 7,1-2 )

E poco più sotto: Alla stessa maniera, fratelli miei, anche voi mediante il corpo del Cristo siete stati messi a morte quanto alla legge, per appartenere ad un altro, cioè a colui che fu risuscitato dai morti, affinché noi portiamo frutti per Dio.

Quando infatti eravamo nella carne, le passioni peccaminose stimolate dalla legge si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte.

Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non più nel regime vecchio della lettera. ( Rm 7,4-6 )

Con queste e simili prove il famoso Dottore delle genti dimostra con sufficiente evidenza che la legge non poté togliere il peccato, ma piuttosto lo accrebbe per lasciarlo togliere dalla grazia, perché la legge, alla quale soccombe l'infermità, sa comandare, e la grazia, per la quale s'infonde la carità, sa aiutare.

Infatti, perché nessuno fosse indotto da queste testimonianze a vituperare la legge e a sostenere che è cattiva, avvertì l'Apostolo la difficoltà che poteva pararsi davanti a quanti fraintendessero e si fece da se stesso la medesima obiezione: Che diremo dunque? Che la legge è peccato? No certamente!

Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge. ( Rm 7,7 )

L'aveva già detto precedentemente: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. ( Rm 3,20 )

Non dunque abolizione, ma cognizione.

8.14 - Esegesi di Rm 7,7-27

Ma da qui comincia già quello che ci ha spinti a fare queste nostre considerazioni: introduce la sua persona e sembra parlare di se stesso.

Nella qual persona i pelagiani non vogliono che s'intenda l'Apostolo stesso, ma che egli abbia trasferito in sé un altro, cioè l'uomo sottoposto ancora alla legge e non ancora liberato per mezzo della grazia.

Qui però costoro devono ormai ammettere che nessuno può giustificarsi per la legge, ( Gal 3,11 ) come dice altrove il medesimo Apostolo; ma che la legge vale per conoscere il peccato e per la trasgressione della legge stessa, perché, conosciuto e cresciuto il peccato, si cerchi la grazia per mezzo della fede.

Ma le parole che temono di riferire all'Apostolo non sono queste, che egli potrebbe dire anche parlando delle sue vicende passate, bensì quelle che seguono.

Infatti a questo punto dice: Io non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare.

Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desideri.

Senza la legge infatti il peccato è morto e io un tempo vivevo senza la legge.

Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita e io sono morto.

La legge, che doveva servire per la vita, è diventata per me motivo di morte.

Il peccato infatti, prendendo occasione dal comandamento, mi ha sedotto e per mezzo di esso mi ha dato la morte.

Così la legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento.

Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero!

È invece il peccato: esso per rivelarsi peccato mi ha dato la morte, servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento. ( Rm 7,7-13 )

Tutte queste possono, come ho detto, sembrare reminiscenze dell'Apostolo sulla sua vita passata, cosicché con la sua affermazione: E io un tempo vivevo senza la legge abbia voluto far intendere la sua prima età dall'infanzia fino agli anni della ragione, e con l'affermazione che segue: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita e io sono morto descriva se stesso come già capace di ricevere la legge, ma incapace d'osservarla e quindi come trasgressore della legge.

9.15 - Una cosa è amare la giustizia, un'altra il timore della pena

Né sorprenda ciò che ha scritto ai Filippesi: Quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge, sono stato irreprensibile. ( Fil 3,6 )

Avrebbe infatti potuto essere trasgressore della legge interiormente nelle sue cattive passioni e osservare tuttavia le opere esterne della legge o per timore degli uomini o anche per timore di Dio, ma per paura della pena, non per amore e piacere della giustizia.

Perché, altro è fare il bene per volontà di fare il bene, altro è invece essere così incline per volontà a fare il male da farlo anche realmente, se si potesse permettere di farlo impunemente.

Così mal disposto pecca certamente all'interno della stessa volontà chi si astiene dal peccare non per volontà, ma per paura.

Nel quale stato interiore sapendo l'Apostolo d'essersi trovato così mal disposto prima della grazia di Dio che viene per Gesù Cristo nostro Signore, lo confessa altrove con tutta esplicitezza.

Scrivendo agli Efesini dice appunto: Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli.

Nel numero di quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi, un tempo, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed eravamo per natura meritevoli d'ira, come gli altri.

Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia di lui infatti siamo stati salvati. ( Ef 2,1-5 )

E lo ripete nella Lettera a Tito: Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, traviati, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell'invidia, degni di odio e odiandoci a vicenda. ( Tt 3,3 )

Tale fu Saulo nel tempo in cui dice d'essere stato irreprensibile secondo la giustizia che viene dalla legge.

Infatti nelle righe successive riconosce con evidenza che non aveva progredito nella legge e non aveva mutato la sua condotta morale per essere irreprensibile dopo quella sua vita abominevole: tanto è vero che dice di non essere stato mutato rispetto a quei mali se non per mezzo della grazia del Salvatore.

Infatti, aggiungendo anche qui, come nella Lettera agli Efesini, questa precisazione, dice: Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna. ( Tt 3,4-7 )

9.16 - Il peccato del primo uomo rivive nell'uomo che nasce

Quello poi che dice in questo passo della Lettera ai Romani scrivendo: Il peccato per rivelarsi peccato mi ha dato la morte, servendosi di ciò che è bene, corrisponde alla sua precedente affermazione dove ha detto: Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: Non desiderare.

E il concetto di sopra: Per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato lo ripete anche qui dicendo: Il peccato per rivelarsi peccato, cosicché l'affermazione: Senza la legge infatti il peccato è morto non l'intendiamo se non nel senso che non esiste, è nascosto, non apparisce, s'ignora assolutamente, come se fosse stato sepolto in non so quali tenebre d'ignoranza.

Le parole poi: E io un tempo vivevo senza la legge cosa significano se non: Mi sembrava di vivere?

E le seguenti: Ma, sopraggiunto quel comandamento, il peccato ha ripreso vita cosa significano se non: È risaltato ed è apparso?

Né dice tuttavia che ha preso vita, ma che ha ripreso vita. ( Rm 3,20; Rm 7, 7-9.13 )

Perché aveva già preso vita una volta nel paradiso dove appariva evidentemente commesso contro il precetto che era stato intimato.

Quando invece lo contraggono coloro che nascono, rimane nascosto come se fosse morto, finché la sua malizia che fa guerra alla giustizia non si senta nella proibizione, dove altro è ciò che è comandato e approvato, altro ciò che diletta e domina: è allora che in qualche modo nella conoscenza dell'uomo generato riprende vita il peccato che aveva già preso vita una volta nella conoscenza dell'uomo che fu all'inizio creato.

10.17 - Difficoltà esegetiche: la legge spirituale e l'uomo di carne

Ma non è altrettanto semplice come si possa intendere di Paolo quello che segue. Dice: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne. ( Rm 7,14 )

Non dice: Sono stato, ma: Sono. Era dunque forse carnale l'Apostolo quando scriveva così? O lo dice quanto al suo corpo?

Era infatti ancora nel corpo di questa morte, non essendosi ancora avverato quello che dice altrove: Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. ( 1 Cor 15,44 )

Allora infatti sarà spirituale l'uomo in tutto se stesso, cioè nell'una e nell'altra parte di cui è composto, quando sarà spirituale anche il suo corpo.

Né infatti è assurdo che in quella vita sia spirituale anche la carne, se in questa vita in coloro che hanno ancora la "sapienza della carne" ha potuto essere carnale anche lo stesso spirito.

Ha detto dunque: Mentre io sono di carne, proprio perché l'Apostolo non aveva ancora il corpo spirituale.

Nello stesso modo in cui poteva dire: Mentre io sono mortale; e certo non s'intenderebbe detto da lui se non secondo il suo corpo che non si era ancora vestito d'immortalità.

Similmente quello che ivi aggiunge: Venduto come schiavo del peccato, perché nessuno lo pensi non ancora redento dal sangue del Cristo, si può intendere anche questo secondo quanto dice successivamente: Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. ( Rm 8,23 )

Se infatti si dice venduto come schiavo del peccato, in quanto il suo corpo non è stato ancora redento dalla corruzione, o si dice venduto una volta nella prima trasgressione del precetto divino così da avere un corpo corruttibile che appesantisce l'anima, ( Sap 9,15 ) che cosa impedisce d'intendere che qui l'Apostolo dica di se stesso quello che dice in tal modo da poterlo riferire pure a lui, anche se nella sua persona voglia che non si prenda lui soltanto, ma tutti coloro che sanno di dover combattere senza acconsentire per mezzo dell'amore dello spirito contro lo stato attuale della carne?

10.18 - Non ciò che voglio, io faccio, ma ciò che detesto

Ci mettono forse paura le parole che seguono: Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto; ( Rm 7,15 ) che eventualmente qualcuno sospetti da queste parole che l'Apostolo consentisse alla concupiscenza della carne per fare azioni cattive?

Ma si deve considerare ciò che soggiunge: Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona. ( Rm 7,16 )

Confessa infatti di acconsentire alla legge più che alla concupiscenza della carne.

È a questa infatti che dà il nome di peccato.

Il fare dunque e l'operare che egli si è riconosciuto non è l'acconsentire passionalmente al male e farlo, ma è lo stesso movimento istintivo della concupiscenza.

Dice dunque: Io riconosco che la legge è buona, appunto perché io non voglio ciò che la legge non vuole.

Poi afferma: Ora non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. ( Rm 7,17 )

Che significa: Ora se non: "Ora che ormai sono sotto la grazia, la quale ha liberato il piacere della volontà dall'adesione della cupidigia"?

L'affermazione infatti: Non sono più io a farlo non si potrebbe intendere meglio che in questo senso: non acconsente di offrire al peccato le sue membra come strumenti d'ingiustizia. ( Rm 6,13 )

Perché, se è lui che e desidera e acconsente e agisce, come non è lui stesso a farlo, benché gli dolga di farlo e si rammarichi fortemente d'essere vinto?

10.19 - Il desiderio del bene e la capacità di attuarlo

In quello poi che viene subito di seguito non c'è tutta la chiave che rende apertissimo il senso in cui parla?

Dichiara: Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene. ( Rm 7,18 )

Se non aggiungesse la spiegazione: Cioè nella mia carne, forse intenderemmo diversamente quell'in me.

E perciò rigira lo stesso concetto ripetendo e insistendo: C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di farlo perfettamente.

Questo infatti significa fare perfettamente il bene: che l'uomo non abbia nemmeno la concupiscenza.

Imperfetto è invece il bene quando l'uomo sente la concupiscenza, anche se non si acconsente nel male.

Infatti, dice, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.

Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. ( Rm 7,19-20 )

Lo ripete insistendo e quasi volendo svegliare dal sonno la gente più tarda: Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. ( Rm 7,21 )

Chi dunque vuol fare il bene, ne ha la volontà; ma gli è accanto il male a causa della concupiscenza, alla quale non acconsente colui che dice: Ora, non sono più io a farlo.

10.20 - La legge di Dio e la legge della carne

Ma ciò che segue spiega ancora più esplicitamente l'uno e l'altro concetto: Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. ( Rm 7,22-23 )

Ma la frase: Mi rende schiavo può fare difficoltà, se non c'è nessun consenso.

Perciò tre sono le affermazioni dell'Apostolo per cui si potrebbe pensare che egli descriva chi vive ancora sotto la legge e non ancora sotto la grazia: le due già discusse: Mentre io sono di carne, e: Venduto come schiavo del peccato, più questa terza: Mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra.

Ma, come abbiamo spiegato le prime due per la carne ancora corruttibile, così allo stesso modo si può intendere anche questa terza nel senso che abbia detto: Mi rende schiavo, ma nella carne, non nella mente; nel movimento istintivo, non nel consentimento, e in tanto mi rende schiavo in quanto anche nella carne stessa non c'è una natura diversa, ma la nostra.

Come dunque spiega egli stesso che cosa abbia inteso con le parole: Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene, così è dalla sua stessa spiegazione che dobbiamo interpretare questa frase: Mi rende schiavo, come se avesse detto: Rende la mia carne schiava della legge del peccato che è nelle mie membra.

10.21 - La liberazione dell'uomo per mezzo di Gesù Cristo

Poi soggiunge la ragione che giustifica tutte le affermazioni fatte da lui precedentemente: Sono uno sventurato!

Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )

E conclude: Io dunque, con la mente servo la legge di Dio, con la carne invece la legge del peccato, ( Rm 7,25 ) ossia con la carne la legge del peccato a causa della concupiscenza, con la ragione la legge di Dio perché non acconsento alla medesima concupiscenza.

Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. ( Rm 8,1 )

Non è infatti condannato se non chi consente alla concupiscenza della carne nel male.

Poiché la legge dello Spirito che dà vita nel Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte, ( Rm 8,2 ) appunto al fine che la concupiscenza della carne non si accaparri il tuo consenso.

E il seguito della lettera evidenzia sempre e sempre più la medesima dottrina.

Ma ci dobbiamo limitare.

10.22 - Ag. confessa di aver cambiato opinione

Era sembrato però anche a me un tempo che cotesto discorso dell'Apostolo descrivesse l'uomo sotto la legge.

Ma in seguito mi forzarono a cambiare parere queste sue parole: Non sono più io a farlo.

A ciò infatti si riferisce anche la sua dichiarazione successiva: Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù.

Ho cambiato parere anche perché non vedo come un uomo sotto la legge avrebbe potuto dire: Acconsento con gioia nel mio intimo alla legge di Dio, dal momento che non si deve attribuire se non alla grazia la stessa gioia di fare il bene, per la quale l'uomo rifiuta anche di consentire al male, non per timore del castigo, ma per amore della giustizia: e questo infatti è gioire del bene.

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