Discorsi sui tempi Liturgici |
1 - Meraviglioso scambio nella passione di Cristo
2 - Non dobbiamo vergognarci, ma altamente gloriarci della morte del Signore
3 - In che senso si afferma che Dio è morto
4 - La croce di Cristo è dottrina di pazienza e d'umiltà
La passione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo è fiducia della gloria e dottrina di pazienza.
Che cosa infatti non si riprometteranno dalla grazia di Dio i cuori dei fedeli, quando per essi il Figlio unigenito di Dio, coeterno col Padre non si è contentato di nascere uomo dall'uomo, ma ha voluto addirittura morire dalle mani degli uomini, che lui stesso aveva creati?
È gran cosa quel che il Signore ci promette per il futuro; ma molto più grande è quel che celebriamo come già fatto per noi.
( Quando Cristo è morto per essi, ( Rm 5,6 ) dov'erano, o che cosa erano gli empi? ).
Chi potrà dubitare che egli donerà ai santi la sua vita, se ad essi ha già fatto dono persino della sua morte?
Perché la debolezza umana stenta a credere che gli uomini vivranno davvero un giorno con Dio?
È molto più incredibile quel che è già avvenuto, che Dio è morto per gli uomini.
Chi è infatti Cristo se non colui che nel principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio? ( Gv 1,1 )
Questo Verbo di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. ( Gv 1,14 )
Nella propria natura egli non aveva di che morire per noi, se non prendeva da noi una carne mortale.
Così l'immortale è potuto morire, così ha voluto donare la vita ai mortali, rendendoli partecipi di se stesso, dopo che lui si era fatto partecipe di loro.
Noi di nostro non avevamo di che vivere, lui di suo non aveva di che morire; fece allora con noi un mirabile commercio di scambio: quello con cui morì era nostro, quello per cui vivremo sarà suo.
Per dire la verità, anche la carne che assunse da noi per potervi morire, l'aveva data lui, essendo lui il creatore; mentre la vita, per la quale vivremo in lui e con lui, quella non la prese da noi.
In conclusione, per quel che riguarda la natura nostra, quella per cui noi siamo uomini, egli è morto non del suo, ma del nostro, perché la sua natura, per la quale egli è Dio, non può assolutamente morire; se si guarda invece alla sua creatura, che è opera sua in quanto è Dio, egli è morto anche del suo, perché la carne nella quale è morto è lui che l'ha creata.
E allora non solo non dobbiamo vergognarci della morte del Signore nostro Dio, ma anzi aver fiducia in essa pienamente e pienamente gloriarcene; perché, col prendere da noi la morte che trovò in noi, con suprema fedeltà si è impegnato a darci la vita in lui, che noi non potremmo avere da noi stessi.
Infatti se ci ha tanto amati, da patire per noi peccatori, lui senza peccato, quel che noi abbiamo meritato con il peccato, come non ci darà ora quel che meritiamo nella giustizia, se è lui che giustifica?
Come non renderà i premi ai santi, lui che promette secondo verità se, pur senza iniquità, ha scontato la pena degli iniqui?
Confessiamo dunque intrepidamente, o fratelli, e proclamiamo apertamente che Cristo è stato per noi crocifisso; affermiamolo non timorosi, ma gioiosi, non vergognandoci, ma vantandoci.
L'apostolo Paolo lo comprese bene e lo raccomandò come titolo di vanto.
Di Cristo egli avrebbe potuto ricordare i molti aspetti riguardanti la sua grandezza e la sua divinità; invece dichiara di non vantarsi delle cose meravigliose di Cristo, di lui che, essendo Dio, presso il Padre ha creato il mondo o, uomo come noi, ha comandato al mondo, ma per me, egli afferma, non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo. ( Gal 6,14 )
Teneva conto l'Apostolo chi, per chi, dove era stato appeso; e su quel grande abbassamento di Dio e su quella altezza di Dio riponeva ogni fiducia.
Riguardo poi a quella gente che c'insulta perché noi adoriamo un Signore messo in croce, quanto più si credono sapienti, tanto più vaneggiano in modo irrimediabile e senza speranza, e non capiscono affatto quel che noi crediamo e diciamo.
Noi infatti non affermiamo che in Cristo è morto quel che era Dio, ma quel che era uomo.
Anche quando muore un qualunque uomo, quella parte che costituisce essenzialmente l'uomo, quella cioè che lo distingue dagli animali, dotata d'intelligenza, capace di distinguere l'umano e il divino, il temporale e l'eterno, il falso e il vero, ossia l'anima razionale, non subisce la morte insieme al suo corpo, ma mentre questo muore, se ne va via viva, e noi tuttavia diciamo: È morto un uomo.
E allora perché non si può dire anche: È morto Dio, intendendo non che sia potuto morire quel che è Dio, ma la parte mortale che Dio aveva assunto per i mortali?
Come infatti, quando muore uno, non muore la sua anima che è nella carne, così, quando è morto Cristo, non è morta la sua divinità che era nell'uomo.
Ma, riprendono quelli, Dio non poteva unirsi con l'uomo e formare con esso un unico Cristo.
Se diamo retta a questa mentalità carnale e sciocca e ai ragionamenti umani, sarebbe molto più difficile ammettere che si possa unire lo spirito con la carne, anziché Dio con l'uomo; ma se lo spirito dell'uomo non si unisse col corpo umano, non ci sarebbe l'uomo.
Posto dunque che tra uno spirito e un corpo l'unione è più difficile e più strana che tra uno spirito e uno spirito, ne consegue che, se è possibile che lo spirito dell'uomo ( che non è corpo ) e il corpo dell'uomo ( che non è spirito ) si uniscono insieme per formare l'uomo, molto più è possibile che Dio, che è spirito, ( Gv 4,24 ) si sia unito, con un'unione spirituale, non [ direttamente ] a un corpo senza spirito, ma a un uomo avente lo spirito, in modo che dai due risultasse un unico Cristo.
Gloriamoci perciò anche noi della croce del Signore nostro Gesù Cristo, per cui il mondo sia per noi crocifisso e noi lo siamo per il mondo. ( Gal 6,14 )
Perché di questa croce non avessimo a vergognarci, noi ce la siamo collocata nel bel mezzo della fronte, ossia nella sede del pudore.
Se poi volessimo spiegare quanta dottrina di pazienza, e quanto salutare, sia in questa croce, quali parole saranno adatte per l'argomento, o quale tempo per le parole?
Se uno infatti crede veramente e intensamente in Cristo, come oserà alzarsi in superbia, quando Dio stesso si fa maestro di umiltà non tanto con la parola, ma più ancora con l'esempio?
E quanto sia salutare questa dottrina, ce lo richiama in breve quella sentenza della Sacra Scrittura: Il cuore dell'uomo si esalta prima di cadere, e si umilia prima della gloria. ( Pr 18,12 )
E con questa concorda l'altra: Dio resiste ai superbi, ma agli umili fa grazia. ( 1 Pt 5,5; Gc 4,6 )
E anche l'altra: Chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato. ( Lc 14,11; Lc 18,14 )
Perciò, siccome l'Apostolo ci ammonisce di non aspirare a cose troppo alte, ma di piegarci a quelle umili, ( Rm 12,16 ) consideri l'uomo, se ne è capace, in quale abisso di superbia egli sprofondi, se non ha gli stessi sentimenti del Dio umile; e anche quanto sia pericoloso per l'uomo sopportare con impazienza quel che vuole Dio [ che è ] giusto, quando Dio sopportò con pazienza quel che volle il nemico ingiusto.
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