Discorsi su argomenti vari |
1 - Buona sia la coscienza e anche la reputazione
2 - Regola di povertà nel monastero. Circostanze della investitura episcopale di Agostino. Istituzione del monastero episcopale
3 - Il caso di Gennaro
4 - L'eredità respinta
5 - Agostino non accetta l'eredità di Bonifazio
6 - Una decisione mutata
7 - Agostino promette presto una relazione
1 - Buona sia la coscienza e anche la reputazione
Se ho desiderato che voi foste qui oggi più numerosi, e ieri ve ne ho fatto preghiera, la ragione è quella che vi sto per dire.
Io vivo qui con voi e per voi, con l'aspirazione e il desiderio di vivere un giorno insieme con voi senza fine in Cristo.
Credo che il mio comportamento sia davanti ai vostri occhi e forse potrei osare di dire, per quanto io sia a lui molto inferiore, quello che diceva l'Apostolo: Fatevi miei imitatori, come io di Cristo. ( 1 Cor 4,16 )
E per questo non voglio che qualcuno di voi trovi pretesti [ da esempi attribuiti a noi ] per vivere male.
Ci preoccupiamo infatti - dice ancora l'Apostolo - di comportarci bene non soltanto davanti al Signore, ma anche davanti agli uomini. ( 2 Cor 8,21 )
Per quanto riguarda me personalmente, la testimonianza della mia coscienza mi basta, ma per il rapporto che ho con voi ha importanza che la mia fama non sia macchiata, che tra voi la mia reputazione sia valida.
Riflettete bene a ciò che ho detto, a questa necessaria distinzione: la coscienza va bene per te, il tuo buon nome per il tuo prossimo.
Chi, pago della sua coscienza, trascura la sua buona reputazione, direi che è crudele, specialmente se ricopre una carica come questa, di cui l'Apostolo scrive al discepolo: Offrendo te stesso come esempio in tutto di buona condotta. ( Tt 2,7 )
Non vorrei dilungarmi, tanto più che io sono qui seduto e voi state a disagio in piedi; lo sapete ormai tutti o quasi tutti che quanti siamo qui, nella casa detta del vescovo, cerchiamo di imitare nella nostra vita, per quanto possiamo, il modello di quei santi di cui dice il libro degli Atti degli Apostoli: Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune. ( At 4,32 )
Può darsi che vi sia qualcuno fra di voi che non ha fatto attenzione a questo aspetto della nostra vita, così da conoscerlo come io desidero.
Perciò vi spiego ora quello a cui avevo accennato.
Voi mi vedete qui vostro vescovo per divina volontà.
Quando venni in questa città ero giovane . Molti di voi lo sanno.
Cercavo un luogo dove stabilire un monastero e viverci con i miei fratelli.
Avevo rinunziato a ogni prospettiva mondana; la carriera che avrei potuto fare nel mondo non la volli, e tuttavia non ho cercato il grado in cui mi trovo qui.
Ho preferito stare in luogo umile nella casa del mio Dio che abitare nelle tende degli empi. ( Sal 84,11 )
Mi sono separato da quelli che amano il mondo e neppure mi sono messo alla pari con quelli che presiedono, che fanno da guida alle genti; nel convito del mio Signore non avevo scelto un posto distinto, ma uno degli ultimi posti, un posto inferiore, umile.
E invece a lui piacque dirmi: Sali in alto. ( Lc 14,10 )
Io paventavo la carica di vescovo; a tal punto che evitavo di recarmi nelle località dove la sede vescovile risultava vacante, perché era cominciata a circolare tra i servi di Dio una notorietà di qualche peso a mio carico.
Io cercavo di evitare questo grado e pregavo Dio, gemendo, di concedere che mi salvassi in una posizione umile, non che dovessi correre pericolo occupando un'alta carica.
Ma, come ho detto, il servo non deve contraddire il padrone. ( Tt 2,9 )
In questa città ero venuto per vedere un amico che speravo di guadagnare a Dio e portare con noi nel monastero.
Stavo tranquillo, perché la sede era provvista di vescovo.
Ma, preso con la forza, di sorpresa, fui ordinato sacerdote e attraverso quel gradino giunsi all'episcopato.
Entrando in questa chiesa non portai nulla: solo i vestiti che indossavo in quel momento.
E poiché il mio proposito era di vivere con i fratelli nel monastero, il vecchio Valerio, di venerata memoria, conosciuto il mio disegno e la mia volontà, mi fece dono di quel terreno in cui ora sorge il monastero.
Cominciai allora a riunire fratelli di buona volontà che volessero essere miei compagni nella povertà, che nulla avessero di loro possesso come io non avevo nulla: che fossero disposti ad imitarmi.
Come io avevo venduto la mia piccola proprietà e dato ai poveri il ricavato, così avrebbero dovuto fare quelli che volevano vivere con me.
Tutti saremmo vissuti del bene comune.
Comune a tutti noi sarebbe stato un grande e fertilissimo podere, lo stesso Dio.
Giunsi poi all'episcopato.
E lì mi resi conto che il vescovo è tenuto ad usare ospitalità a coloro che lo vengono a trovare, o che sono di passaggio.
Se il vescovo non lo facesse, apparirebbe non umano.
E in un monastero non sarebbe conveniente introdurre una tale consuetudine, perciò io volli avere con me, in questa stessa sede vescovile, un monastero di chierici.
Ed ecco come viviamo.
Dal momento che siamo in comunità a nessuno è lecito possedere in proprio.
" Forse - insinua qualcuno - c'è chi invece possiede ". Lecito non è.
Chi possiede fa un illecito. Io dei miei fratelli in genere penso bene, perciò, stando sulla fiducia, mi sono astenuto dal fare un controllo di questo genere.
Mi sarebbe parso una diffidenza [ nei confronti di un confratello ].
Sapevo infatti e so che tutti quelli che vivono con me conoscono il nostro proposito, la regola che governa la nostra condotta.
A noi si unì anche il presbitero Ianuario.
Di quello che appariva sua onesta proprietà aveva fatto quasi totalmente generose elargizioni, ma non aveva distribuito tutti i suoi beni.
Gli era rimasto un gruzzolo in argento che diceva appartenere a sua figlia.
Questa figlia, con la grazia di Dio, è in un monastero femminile e dà buona speranza.
Il Signore si degni di aiutarla con la sua guida perché arrivi a compimento ciò che di lei speriamo per la divina misericordia, più che per i suoi meriti.
La figlia è minorenne e non era il caso che disponesse lei di questo denaro.
Noi che eravamo spettatori della sua splendida scelta temevamo pur sempre la instabilità della giovinezza, perciò venne conservato quel denaro nominalmente per la fanciulla che ne avrebbe disposto quando avesse raggiunto l'età legale, così da poterne essa fare l'uso migliore, come si conviene ad una vergine di Cristo.
In questo tempo di attesa Ianuario cominciò ad appressarsi alla morte finché non fece un testamento come per un diritto suo, non della figlia.
Fece testamento - dico - un presbitero membro della nostra comunità, uno che viveva con noi dei beni della Chiesa, che faceva professione di vita comune.
Fece testamento, istituì degli eredi.
O dolore di noi tutti nella comunità!
O frutto nato non dall'albero che piantò il Signore!
Ma fu proprio la Chiesa ad essere istituita erede.
Io non voglio tali doni, non amo frutti amari.
Io lo avevo cercato per il Signore.
Aveva fatto " professione " nella nostra comunità: a quel patto doveva attenersi, a quella comunità doveva mostrarsi fedele.
Non possedeva nulla? Non doveva far testamento.
Possedeva qualcosa? Allora non doveva fingersi povero di Dio, membro della nostra comunità.
Io ne ho un gran dolore, fratelli, e per questo dolore, lo dichiaro alla vostra Carità, ho deciso di non accettare tale eredità per la mia Chiesa.
Ciò che ha lasciato vada ai suoi figli.
Ne facciano essi quello che vogliono.
Se l'accettassi io, mi vedrei complice di un fatto che deploro e che mi addolora.
Ho voluto che ciò non fosse ignorato dalla Carità vostra.
La figlia di quest'uomo è in un monastero femminile, il figlio in uno maschile.
Li ha diseredati ambedue: lei con tributo di lodi, lui con una clausola del testamento che ha del biasimo.
Ho raccomandato alla Chiesa di non consegnare questa somma ai due diseredati finché non siano in età legale.
La Chiesa tiene in serbo per loro questo deposito.
Intanto tra i figli è sorta una lite che mi affligge, che mi dà tribolazione.
La fanciulla dice: " É roba mia, lo sapete, mio padre lo diceva sempre ".
Il ragazzo protesta: " Si deve credere al testamento di mio padre. Non poteva mentire in punto di morte " .
Questa contesa è deplorevole.
Tuttavia se gli stessi figli sono veri servi di Dio, confido di poterla presto comporre.
Li ascolterò come un padre, anzi forse meglio del loro vero padre.
Studierò la materia della contesa e, come Dio vorrà, istruirò la causa fra di loro insieme con alcuni fratelli fedeli e onorati, scelti con l'aiuto di Dio fra di voi, di questo popolo dico, e concluderò come il Signore mi farà grazia di stabilire.
Ma vi scongiuro di non rimproverarmi per il fatto che non accetto questa donazione per la Chiesa.
Non la voglio anzitutto perché aborro il gesto di costui in sé, poi perché si tratta della mia fondazione.
Molti sono d'accordo su quello che dirò.
Alcuni troveranno da ridire.
Accontentare gli uni e gli altri è assai difficile.
Avete sentito or ora quando si leggeva il Vangelo: Abbiamo intonato la danza per voi e non avete danzato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.
É venuto Giovanni che non mangiava e beveva ed hanno detto: " Ha un demonio ".
É venuto il Figlio dell'uomo che mangiava e beveva e hanno detto: " Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani ". ( Mt 11,17-19 )
Che cosa dunque farò in mezzo a gente che è pronta a criticarmi, ad aggredirmi se accetto l'eredità di chi, incollerito con i figli, li disereda?
E d'altra parte che cosa dovrei fare con quelli ai quali canto e non vogliono danzare?
Quelli, intendo, che dicono: " Ecco perché nessuno fa donativi alla Chiesa d'Ippona; ecco perché chi muore non la stabilisce erede: perché il vescovo Agostino nella sua bontà - apparente lode che critica, morso dato con parola lusinghiera - dà via tutto, non accetta nulla ".
Non è vero, io accetto. Dichiaro che accetto, protesto che accetto le offerte buone, le offerte sante.
Ma se qualcuno è in collera col figlio e morendo lo ha diseredato, non dovrei cercare se fosse in vita di placarlo?
Di riconciliare a lui il figlio? Come può il mio desiderio della sua riconciliazione convivere con l'accettazione dell'eredità?
Ecco, io accetterei se si seguisse la linea che ho altre volte indicato.
Uno ha un figlio? Consideri Cristo un secondo figlio.
Ne ha due? Lo consideri terzo.
Ne ha dieci? Consideri Cristo l'undicesimo e io accetterei l'undicesima parte.
Così ho già fatto in qualche caso.
Ma queste critiche tendono a travisare la bontà e a distorcere la buona fama nei miei riguardi per accusarmi in un altro modo perché non voglio accettare offerte dai fedeli.
E invece considerino quante ne ho accettate.
Che vale enumerarle? Ne ricorderò solo una: l'eredità del figlio Giuliano; l'ho accettata perché è morto senza figli.
Non ho accettato invece l'eredità di Bonifazio, detto comunemente Fazio: in questo caso non spinto da ragioni di misericordia, ma per timore.
Non ho voluto che la Chiesa di Cristo diventasse una società di navigazione.
Molti sono coloro che commerciano con le navi.
Ma se si desse il caso che, una volta partita, la nave andasse distrutta in un naufragio, ci troveremmo nella situazione di avere l'equipaggio esposto al rischio della tortura, per la ricerca delle responsabilità del naufragio; secondo la consuetudine i superstiti sarebbero torturati dal giudice.
Noi li dovremmo consegnare loro? A nessun patto una cosa simile si addice alla Chiesa.
E poi bisognerebbe pagare l'onere fiscale.
Ma da quale fondo? Noi non possiamo aver denaro in cassa.
Non si addice ad un vescovo mandar via a mani vuote un mendicante e tenere una riserva di denaro.
Ogni giorno i poveri, che chiedono, si lamentano e ci sollecitano ( sono tanti che dobbiamo lasciarne parecchi nella tristezza, perché non abbiamo di che dare a tutti ).
E vorremmo riservare un fondo in caso di naufragio?
Il mio rifiuto dunque in vista del timore di un naufragio, è basato sulla volontà di evitare rischi, non sulla generosità.
Non è il caso di lodare, ma neppure di criticare.
Senza dubbio quando ho fatto avere al figlio quello che il padre per collera gli toglieva morendo, ho fatto bene.
Chi vuole approvi, chi non vuole lodare non me ne faccia rimprovero.
Che dirvi d'altro, fratelli miei? Chi vuol lasciare erede la Chiesa diseredando il figlio si rivolga ad un altro vescovo che accetti, non ad Agostino.
O meglio, possa avvenire con l'aiuto di Dio, che non ne trovi nessuno!
C'è un tratto ammirevole nella vita del santo e venerabile vescovo di Cartagine, Aurelio.
Chi è venuto a saperlo ne ha fatto grandi lodi a Dio.
Un tale, non avendo figli né speranza di averne, lasciò tutti i suoi averi alla Chiesa riservandosene l'usufrutto.
In seguito gli nacquero dei figli.
Ebbene, il vescovo gli restituì, cosa che egli non si sarebbe aspettato, ciò che gli era stato donato.
Il vescovo aveva certo il diritto di non restituire, ma secondo la giustizia civile, non secondo quella divina.
Voglio anche che voi conosciate il patto che ho stabilito con i miei fratelli che vivono qui insieme con me: che chiunque possiede qualcosa o lo venda e ne distribuisca il ricavato [ ai poveri ], o lo regali o lo mette in comunità; lo tenga la Chiesa attraverso la quale Dio ci dà sostentamento.
Ho dato una proroga fino all'Epifania sia per quelli che non hanno ancora fatto la divisione con i loro fratelli e nelle loro mani hanno lasciato ancora ciò che posseggono, sia per quelli che non hanno disposto ancora nulla dei loro beni in attesa dell'età legale.
Ne facciano quello che vogliono, purché se vivono con me siano poveri e insieme con me aspettino la misericordia da Dio.
Se poi non vogliono, quelli che non vogliono stiano a sentire: certamente sono stato proprio io a stabilire, come sapete, che non si presentasse per l'ordinazione sacerdotale se non chi aveva intenzione di rimanere nella mia comunità e che se poi gli fosse venuto il proposito di dissociarsi, io gli avrei giustamente tolto anche il chiericato poiché si toglieva da un sodalizio, promesso e iniziato, di una santa società.
Ebbene, ora, al cospetto di Dio e vostro, muto questa deliberazione: quelli che vogliono tenersi qualcosa di proprio, quelli a cui non basta Dio e la sua Chiesa, restino pure in servizio dove vogliono e dove possono; non tolgo più a loro il chiericato.
Questo perché non voglio avere con me degli ipocriti.
É un male - chi non lo sa? - recedere da un proposito, ma è ancora peggio simularlo.
Dunque, lo dichiaro: chi abbandona la comunità di vita già iniziata, quella che si loda negli Atti degli Apostoli, cade dal suo voto, cade dalla sua professione santa.
Se la veda con il giudizio di Dio, non col mio.
In quanto a me io non gli tolgo più la dignità di sacerdote.
Davanti agli occhi gli ho posto il suo danno.
Faccia quello che vuole.
So bene infatti che se volessi degradare qualcuno che si decide in questo senso, non gli mancherebbero patroni e difensori anche qui presso i vescovi.
Si obietterebbe: " Che cosa ha fatto di male? Non può reggere la norma di vita stabilita da te; vuol rimanere fuori dell'episcopio e vivere del proprio; dovrebbe per questo perdere la condizione sacerdotale? ".
Per me è scontato quanto sia male professare qualcosa di santo e poi non farlo.
É detto: Fate voti e offritevi al Signore vostro Dio. ( Sal 76,12 )
Ma è anche detto: É meglio non far voti che farli e poi non mantenerli. ( Qo 5,4 )
Una vergine che si sia consacrata a Dio, anche se non le è lecito sposarsi, non è obbligata a vivere in monastero.
Ma se ha cominciato a viverci e poi se ne va, anche se resta sempre vergine, per metà è decaduta.
Così il mio chierico ha professato due impegni: santificazione e chiericato.
Intanto la santificazione ( il chiericato gliel'ha messo Dio sulle spalle per un servizio al suo popolo ed è più un peso che un onore, ma: Chi è sapiente e capisce queste cose? ( Sal 107,43 )
Dunque aveva fatto voto di santificazione e aveva fatto promessa di vivere nel sodalizio comune.
Aveva detto quanto è bello e lieto che abitino i fratelli insieme. ( Sal 133,1 )
Se recederà da questo programma, e rimarrà chierico anche al di fuori della nostra comunità, metà di lui è andata perduta.
In quanto a me non lo giudico.
Se rimanendo fuori mantiene santità di vita, è caduto solo per metà.
Ma se [ resta qui e ] nel suo intimo mente, è caduto del tutto.
Io non voglio metterlo in condizione di simulare.
So quanto gli uomini amino la dignità del sacerdozio, perciò non la tolgo a chi non si sente più di vivere con me nella nostra comunità.
Chi vuol rimanere qui con me ha Dio.
Rimanga dunque qui con me chi è disposto a farsi mantenere da Dio attraverso la Chiesa, a non possedere nulla di proprio; il proprio lo avrà dato ai poveri o messo in comune.
Chi non accetta queste condizioni, abbia la sua libertà, ma veda un po' se è anche in grado di avere l'eterna felicità.
Vi bastino per ora queste informazioni.
Io vi terrò al corrente di quello che farò con i miei fratelli.
Spero che siano buone notizie e cioè che tutti mi obbediscono volentieri e che non avrò trovato nessuno in possesso di qualche cosa se non per necessità attinenti al culto, non per un motivo di cupidigia.
Ciò che avrò fatto vi sarà riferito dopo l'Epifania, secondo la volontà di Dio.
E anche v'informerò di come avrò composto la lite fra i due fratelli, i figli del presbitero Ianuario.
Vi ho parlato molto, perdonate alla vecchiaia loquace ma anche alla trepida debolezza fisica.
Riguardo all'età, da poco tempo sono vecchio come mi vedete, ma riguardo alle forze vecchio lo sono da un pezzo.
Tuttavia se a Dio piace non mancherò alle promesse fatte ora.
Dio me ne dia le forze.
Pregate per me perché fino a quando l'anima è nel corpo, io regga a servirvi nella parola di Dio qualunque sia il supporto delle mie forze.
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