La dottrina cristiana |
All'incanto di quest'arte è stato attribuito dalla gente tanto pregio che con essa vengono persuase non solo cose da non farsi, ma anche molti e gravi mali e turpitudini, che sono da fuggirsi e detestarsi.
Cose di questo genere sono, viceversa, insegnate da gente cattiva e turpe con tanta eloquenza che, se loro non si consente, almeno vi si prova diletto a leggiucchiarle.
Peraltro allontani Dio dalla sua Chiesa ciò che il profeta Geremia diceva rimproverando la sinagoga dei Giudei: Cose spaventose e orribili sono avvenute sulla terra: i profeti profetavano cose inique e i sacerdoti applaudivano con le loro mani e il mio popolo amò tutto questo.
E che farete per l'avvenire? ( Ger 5,30-31 )
O eloquenza tanto più tremenda quanto più pura, e quanto più solida tanto più veemente!
Vera scure che spezza le pietre! A tale scure, disse Dio in persona per bocca dello stesso Profeta, ( Ger 46,22 ) è simile la sua parola proferita ad opera dei santi Profeti.
Lungi dunque, lungi da noi la disgrazia che i sacerdoti applaudano a chi dice cose inique e il popolo di Dio le ami!
Lungi da noi, dico, tanta follia! Cosa dovremmo fare quindi per l'avvenire?
Ammesso pure che le parole siano meno comprese, piacciano di meno e stimolino di meno, tuttavia le si dicano lo stesso, e che siano ascoltati volentieri gli insegnamenti giusti e non quelli iniqui: cosa che certo non avverrebbe se non venissero detti con finezza oratoria.
In una assemblea di gente seria - di cui è detto a Dio: Ti loderò in mezzo ad un popolo serio ( Sal 35,18 ) - non è gradita nemmeno quella artificiosità con cui si parla di cose certo non cattive, ma si adornano di veste pomposa le cose ordinarie e banali, come non si adornerebbero opportunamente e seriamente nemmeno le cose grandi e consistenti.
Qualcosa del genere è in una lettera del beato Cipriano: e ciò io credo essere capitato, o anche fatto di proposito, affinché si sapesse dai posteri come il rigore della dottrina cristiana abbia distolto la lingua da simili ridondanze e l'abbia ristretta nell'ambito di una eloquenza più seria e moderata.
Tale è appunto l'eloquenza che si riscontra nelle sue lettere successive e che si ama serenamente, si desidera con religiosità, anche se si raggiunge con difficoltà.
Diceva dunque in un noto passo: Dirigiamoci a questa sede; i dintorni solitari ci consentono d'appartarci; là le volute vaganti dei tralci si distendono con nodi pendenti fra le canne che le reggono e con tetti frondosi fanno un portico risultante di viti.7
Cose come queste non si dicono senza una fecondità mirabilmente copiosa di eloquenza, ma per essere eccessivamente cariche sconvengono alla gravità [ del discorso ].
Quanto a quelli che amano questo modo di fraseggiare, nei confronti di chi non parla così ma si esprime più sobriamente riterranno che costoro sono incapaci di usare tale eloquenza, non che la evitano di proposito.
Contro di ciò notiamo che quell'uomo santo mostrò e di sapersi esprimere con ricercatezza, perché lo fece in qualche brano, e di rifuggire da tale gergo, poiché in seguito non lo si trova più.
Il nostro oratore dunque parlerà di cose giuste, sante e buone - di null'altro infatti deve parlare -; e parlando di queste cose userà ogni risorsa possibile perché lo si ascolti in maniera comprensibile, con piacere e con docilità.
Il fatto poi che riesca a tanto - se ci riesce e nei limiti entro i quali ci riesce - non dubiti di attribuirlo più alla devozione nella preghiera che non alle risorse oratorie: per cui, dovendo pregare e per sé e per coloro ai quali rivolgerà la parola, sarà prima uomo di preghiera che predicatore.
Avvicinandosi l'ora di parlare, prima di muovere la lingua per parlare sollevi a Dio l'anima assetata, in modo che proferisca quel che ha bevuto e versi ciò che lo riempie.
In effetti, su ogni argomento che tocchi il campo della fede e della carità molte sono le cose da dire e molti i modi con cui le può dire chi le conosce.
Ora chi potrebbe valutare rettamente cosa noi dobbiamo dire volta per volta o cosa si aspettano gli uditori di ascoltare da noi all'infuori di colui che penetra i cuori di tutti?
E chi fa sì che noi diciamo quel che occorre e com'è necessario se non colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi? ( Sap 7,16 )
Pertanto chi vuol conoscere la verità e insegnarla impari, certo, tutto ciò che deve insegnare; si procuri una capacità espressiva quale conviene ad un uomo di Chiesa; ma giunto il momento di dover parlare, pensi che a una mente bene intenzionata conviene regolarsi come diceva il Signore: Non pensate a cosa o a come dovete parlare; vi sarà dato infatti in quel momento ciò che dovete dire, poiché non siete voi a parlare ma parla in voi lo Spirito del Padre. ( Mt 10,19-20 )
Se è dunque lo Spirito Santo colui che parla in coloro che per Cristo vengono consegnati ai persecutori, perché non dovrebbe essere lo stesso Spirito Santo a parlare in coloro che presentano Cristo a chi lo vuole conoscere?
Chi poi dice che non occorrono norme sugli argomenti che si debbono insegnare o sul come insegnarli per il fatto che è lo Spirito Santo a renderci maestri, potrebbe anche dire non essere necessario nemmeno pregare perché il Signore dice: Il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima ancora che glielo chiediate. ( Mt 6,8 )
Allo stesso modo si dovrebbe dire che l'apostolo Paolo non doveva prescrivere a Timoteo e a Tito cosa e come insegnare agli altri.
Sono viceversa queste tre lettere dell'Apostolo quelle che deve avere sempre dinanzi agli occhi colui che nella Chiesa ha ricevuto l'incarico di ammaestrare.
Non si legge infatti nella Prima Lettera a Timoteo: Annunzia queste cose e insegna? ( 1 Tm 4,11 )
Quali poi siano queste cose, è stato detto sopra.
Non si legge ancora nella stessa: Non rimproverare un presbitero ma scongiuralo come un padre? ( 1 Tm 5,1 )
E nella Seconda Lettera non gli si dice: Conserva la forma delle parole salutari che hai udite da me? ( 2 Tm 1,13 )
E ancora nella medesima: Fa' del tutto per presentarti a Dio come ministro accetto, che non si vergogna ma tratta fedelmente la parola di verità? ( 2 Tm 2,15 )
In essa è anche scritto: Predica la parola, insisti a tempo opportuno e inopportuno, ammonisci, scongiura, rimprovera con ogni pazienza e sapienza. ( 2 Tm 4,2 )
Lo stesso nella Lettera a Tito. Non vi dice forse che il vescovo deve insistere con le sue parole nella dottrina della fede, sì da essere energico nella sana dottrina e riprendere chi la contraddice? ( Tt 1,9 )
Vi dice ancora: Tu peraltro di' le cose che sono conformi alla sana dottrina: che i vecchi siano sobri, ( Tt 2,1-2 ) con quel che segue.
E ancora: Parla di queste cose, esorta e rimprovera con grande autorità. ( Tt 2,15 )
Nessuno ti disprezzi. Esortali ad essere sottomessi ai sovrani e alle autorità, ( Tt 3,1 ) eccetera.
Che pensare dunque? Forse che l'Apostolo sia in contrasto con se stesso quando, dopo aver detto che i maestri della Chiesa sono mossi dall'azione dello Spirito Santo, comanda loro cosa e in che modo debbano insegnare?
O non sarà piuttosto da intendersi che il compito di certi uomini, favoriti di doni dello Spirito Santo, non può non estendersi anche all'istruzione degli stessi maestri, sebbene resti vero che né chi pianta è qualcosa né chi irriga ma Dio che fa crescere? ( 1 Cor 3,7 )
Ecco perché, sebbene ci sia il ministero di santi uomini o anche l'intervento degli angeli santi, nessuno apprende rettamente quanto concerne la vita di unione con Dio se da Dio non è reso docile a Dio, al quale si dice nel salmo: Insegnami a compiere il tuo volere poiché tu sei il mio Dio. ( Sal 143,10 )
Nello stesso senso l'Apostolo dice ancora a Timoteo, parlando da maestro a discepolo: Tu però persevera nelle cose che hai imparate e sono state a te affidate sapendo da chi le hai apprese. ( 2 Tm 3,14 )
Succede qui come nei medicamenti: applicati dagli uomini ad altri uomini, non fanno effetto se non in coloro cui Dio concede la salute.
Dio può certo guarire anche senza medicine, mentre le medicine senza di lui non valgono a nulla, anche se occorre usarle, e, se si esercita la medicina per compiere un dovere, ciò è considerato come un'opera di misericordia o di carità.
Lo stesso è degli aiuti prestati con l'insegnamento.
Somministrati tramite l'uomo, essi giovano all'anima se Dio interviene per farli giovare: quel Dio, dico, che avrebbe potuto dare all'uomo il suo Vangelo anche senza l'uomo e il suo intervento.
Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè insegnare, piacere e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità.
Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l'assenso nell'uditore.
Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè insegnare, piacere e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose di modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne.8
È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell'insegnare sa dire le cose piccole in stile dimesso, per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne.
Quel nominato autore avrebbe potuto mostrare come le tre forme del dire da lui descritte si usano nelle cause forensi, non però qui, cioè nelle problematiche ecclesiastiche dove si svolge il discorso di colui che noi vogliamo addestrare.
Là infatti si discute di cose piccole quando il giudizio verte su problemi di denaro, di cose grandi invece quando ne va di mezzo l'incolumità o la vita umana.
Quando poi non si deve giudicare né del primo né del secondo argomento e non si tratta di cose che l'uditore deve fare o decidere ma è solo questione di solleticare il gusto, si è come nel mezzo fra i due estremi e perciò quella eloquenza fu chiamata " modesta ", cioè misurata.
Il termine modus ( " misura " ) ha dato il nome a modicis ( " misurato " ).
Infatti usiamo modica come sinonimo di parva in modo ingiustificato, non in senso proprio.
Viceversa è dei nostri discorsi, in quanto tutte le cose che diciamo, specie quelle che predichiamo al popolo dall'ambone, le dobbiamo riferire alla salute degli uomini, e non alla salute temporale ma alla salvezza eterna ( diciamo anche che occorre evitare la rovina eterna ), sicché tutte le cose che diciamo sono grandi.
Le stesse cause pecuniarie, concernenti cioè il guadagnare o perdere soldi, quando ne parla un oratore ecclesiastico non si possono considerare come piccole cose, sia che si tratti di una somma piccola come di una somma grande.
Non è infatti piccola la giustizia che, naturalmente, dobbiamo rispettare anche quando si tratta di piccole somme di denaro, dicendoci il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto. ( Lc 16,10 )
Pertanto ciò che è insignificante è insignificante ma essere fedeli nelle cose insignificanti è una cosa grande.
Difatti, come la ragione formale della rotondità, che cioè dal centro tante linee uguali si protendano verso l'esterno, è identica in un grande disco e in una piccola moneta, così, quando si compiono con giustizia le cose piccole, non per questo diminuisce la grandezza della giustizia stessa.
Parlando dei giudizi profani ( e quali saranno stati se non quelli pecuniari? ), l'Apostolo dice: C'è forse qualcuno in mezzo a voi che, avendo una controversia con un altro, osi essere giudicato dagli iniqui e non presso i santi?
O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se da voi è giudicato il mondo sarete incapaci di giudicare cose da nulla?
Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque le cose secolari!
Se dunque avrete dei giudizi su cose secolari, stabilite come giudici i più spregevoli della comunità. Lo dico a vostra vergogna.
Possibile che non ci sia tra voi un qualche sapiente che possa far da giudice tra i fratelli?
Ma ecco che un fratello contende col suo fratello, e il giudizio si fa di fronte agli infedeli!
Ora è già uno smacco che abbiate litigi fra voi. Perché piuttosto non sopportate l'ingiustizia? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare?
Ma ecco che voi compite l'iniquità e frodate, e questo a dei fratelli!
O non sapete forse che gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio? ( 1 Cor 6,1-9 )
Cos'è che suscita tanto sdegno nell'Apostolo? Che cosa egli riprende, rimprovera, sgrida, minaccia?
Quale moto del suo animo egli denuncia con un'alterazione della voce così variata e così rude?
Come mai, infine, impiega parole tanto solenni per cose così trascurabili?
Tanta foga avrebbero dunque provocato in lui affari terreni? No di certo!
Ma egli parla così a motivo della giustizia, della carità, della fede, le quali cose, senza che alcuno sano di mente possa dubitarne, anche nelle questioni piccole sono realtà importanti.
Certamente, se ammonissimo i lettori sul modo come debbono trattare gli affari mondani, o per sé o per i propri familiari, dinanzi ai giudici ecclesiastici, giustamente li esorteremmo a presentare le cose con tono dimesso, essendo appunto cose di poco conto.
Ma parlando noi qui del modo di esprimersi di colui che vogliamo sia maestro di quelle verità per le quali si è liberati dai mali eterni e si perviene ai beni eterni, ogniqualvolta si tratta di queste cose, o dinanzi al popolo o in privato, sia che ci si rivolga a uno sia a più, sia con amici che con nemici, sia in un discorso prolungato sia in un dialogo, sia in trattati sia in libri, sia in lettere o molto lunghe o molto brevi, si tratta sempre di cose grandi.
Forse dare un bicchiere di acqua fresca è una cosa minima e di nessun valore; ma il Signore non disse una cosa minima e insignificante quando asserì che chi l'avesse dato a un suo discepolo non avrebbe perso la sua ricompensa. ( Mt 10,42 )
Se, pertanto, il nostro dottore parlerà di questo tema nella Chiesa, non dovrà ritenere che parla di una cosa piccola, e quindi può parlarne non con eloquenza temperata né con eloquenza solenne ma con tono dimesso.
Quando parlammo al popolo di questo tema, e Dio mi assisté perché non ne parlassi con parole inadeguate, non accadde forse che da quell'acqua fredda - diciamo così - si sollevasse una enorme fiamma, ( 2 Mac 1,32 ) tale da accendere, con la speranza della ricompensa celeste, anche i cuori di uomini freddi e spingerli a compiere opere di misericordia?
Sebbene il nostro dottore debba parlare di cose grandi, non sempre deve dirle con eloquenza solenne, ma con stile dimesso quando insegna e con tono temperato quando rimprovera o elogia alcunché.
Quando invece si tratta di cose da farsi e il discorso è rivolto a persone che dovrebbero farle ma non vogliono, allora dette cose, che sono grandi, le si deve dire con eloquenza solenne, capace di piegare gli animi.
Capita a volte che di un e identico argomento, di per sé elevato, si debba parlare con stile dimesso, se lo si insegna; in tono temperato se lo si predica; e con eloquenza solenne se si tratta di far tornare indietro un animo traviato.
Cosa c'è infatti più grande di Dio? E non sarà, per questo, oggetto di apprendimento?
Ovvero chi insegna l'unità nella Trinità non dovrà trattarne in tono dimesso, di modo che il tema, di per sé difficile a conoscersi, possa essere compreso, nei limiti del possibile?
O che si dovranno in tal caso ricercare i fronzoli e non gli argomenti? O che si tratta forse di piegare l'uditore perché faccia qualcosa o non piuttosto istruirlo perché impari?
Viceversa, quando si loda Dio o in se stesso o nelle sue opere, quale forma di elocuzione bella, anzi splendida, non sorge dalle labbra di colui che riesce a lodarlo quanto gli è possibile, pur essendo vero che nessuno lo sa lodare come meriterebbe e tuttavia nessuno può non lodarlo?
Se invece non lo si adora o insieme con lui o al di sopra di lui si adorano gli idoli o i demoni o qualsiasi altra creatura, questo è un grande disordine, e al fine di distorglierne gli uomini si deve senz'altro parlarne con eloquenza solenne.
Un esempio di stile dimesso si ha nell'apostolo Paolo - tanto per riferire una cosa a tutti accessibile - là dove dice: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non avete ascoltato la legge stessa?
Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera.
Ma quello della schiava è nato secondo la carne, quello della donna libera in virtù della promessa.
Ora tali cose sono dette per allegoria.
Le due donne infatti rappresentano le due alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar.
Il Sinai infatti è un monte nell'Arabia, e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, la quale è serva insieme con i suoi figli.
Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre. ( Gal 4,21-26 )
E parimenti là dove argomenta dicendo: Fratelli, parlo a modo umano, ma un patto stabilito tra uomini nessuno lo annulla o ci fa delle aggiunte.
Ora ad Abramo furono annunciate delle promesse, a lui e alla sua discendenza.
Non dice: Ai suoi discendenti come se fossero molti, ma a uno solo: alla sua discendenza, che è Cristo.
Ora io dico questo: un patto stabilito da Dio, una legge venuta quattrocentotrent'anni dopo non lo annulla sì da rendere vana la promessa.
Se l'eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalle promesse; ma ad Abramo l'ha data Dio, in virtù della promessa. ( Gal 3,15-18 )
E perché l'uditore poteva pensare: Perché dunque è stata data la legge, se da essa non deriva l'eredità?, egli stesso si pone questa difficoltà e risponde a modo di interrogazione: A qual fine dunque la legge?
E immediatamente risponde: È stata accordata in ordine alle trasgressioni, finché venisse il discendente a cui era stata fatta la promessa, donata per mezzo di angeli ad opera di un mediatore.
Ma non si dà mediatore di chi è solo, mentre Dio è uno solo. ( Gal 3,19-21 )
E qui veniva la domanda che l'Apostolo si era posto da sé: La legge è dunque in contrasto con le promesse di Dio?
E risponde: Assolutamente no!
E motivando l'affermazione dice: Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustizia sarebbe certo derivata dalla legge.
Ma la Scrittura racchiude tutto nel peccato affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo. ( Gal 3,22 )
E ci sono altri esempi di questo genere.
Rientra dunque nel compito di insegnare non solo rendere palesi le cose nascoste e sciogliere i nodi delle questioni ma anche ovviare alle altre questioni che, mentre si trattano le une, possano eventualmente presentarsi, affinché quel che veniamo dicendo non sia oppugnato o rigettato sulla base di queste ultime.
A una condizione tuttavia, e cioè che la loro soluzione ci venga prontamente alla memoria e non siamo turbati dal fatto che ciò che non possiamo risolverle tutte.
Succede infatti che alla questione [ che si tratta ] sopraggiungano altre questioni e a queste seconde, altre ancora.
A trattarle e risolverle tutte si prolunga troppo il ragionamento e si richiede troppa attenzione, tanto che, se la memoria non è veramente forte e robusta, il trattatista non può ritornare agli inizi donde era sorto il problema.
È quindi molto bene refutare [ subito ] la difficoltà, se viene in mente come farlo, perché non succeda di ricordarsene quando non c'è chi risponda o ci si ricordi quando l'obiettore è presente ma è ormai azzittito, sicché se ne parta senza essere stato sufficientemente guarito [ del suo dubbio ].
Indice |
7 | Cypr., Ad Donat. 1 |
8 | Cicero, De orat. 1, 101 |