Esposizione dei Salmi |
I versi del nostro salmo ché oggi vogliamo esporre nel nome del Signore cominciano così: Hai operato la dolcezza verso il tuo servo, o Signore, secondo la tua parola, o meglio: secondo il tuo dire.
Notiamo che, riguardo al termine greco χρηστότητα i nostri traduttori l'hanno reso qualche volta con dolcezza, qualche altra con bontà.
In effetti, siccome c'è una dolcezza anche nel male ( quando cioè si gode di cose illecite e sudice ) e segnatamente nell'abbandonarci al piacere carnale, quando si parla di dolcezza dai greci chiamata χρηστότητα occorre intendere quella soavità che s'incontra nei beni d'ordine spirituale.
Questo è il motivo per cui i nostri hanno preferito usare senz'altro il nome bontà.
Quando dunque qui si dice: Hai operato la dolcezza verso il tuo servo, penso che non si debba intendere altro se non: Tu hai fatto sì che mi gustasse fare il bene.
È infatti un gran dono di Dio provare l'attrattiva del bene.
Se invece l'opera buona, comandataci dalla legge, la si compie per timore del castigo e non per il gusto del bene, non si ama Dio ma lo si teme soltanto.
L'opera è compiuta con animo di servi, non di figli; e il servo non resterà in eterno nella casa [ del padrone ], mentre il figlio vi rimarrà in eterno. ( Gv 8,35 )
La carità perfetta, com'è risaputo, caccia via il timore. ( 1 Gv 4,18 )
Ebbene tu, o Signore, hai operato la dolcezza verso il tuo servo quando da servo l'hai reso figlio.
E questo secondo la tua parola, cioè secondo la tua promessa, affinché, nell'ordine della fede, sia stabile la promessa nei riguardi di tutti i discendenti. ( Rm 4,16 )
Dice: Insegnami la dolcezza e l'istruzione e la scienza perché ho creduto nei tuoi comandamenti.
Chiede che questi doni crescano in lui fino a raggiungere la perfezione.
Aveva detto infatti già in precedenza: Hai operato la dolcezza verso il tuo servo.
E quindi cos'altro vorrà dire con le parole: Insegnami la dolcezza, se non che la grazia divina gli si palesi sempre più assaporando la dolcezza della bontà?
Come quei tali che, pur avendo la fede, chiedevano: Signore, accresci la nostra fede. ( Lc 17,5 )
Quello del salmo è un canto di gente che avanza [ verso Dio ] vivendo in questo mondo.
Sicché continua: E l'istruzione o, come recano numerosi codici, la disciplina.
Questa disciplina è dai greci chiamata παιδεία e di norma, quando la troviamo usata nelle nostre Scritture, dobbiamo intenderla nel senso di ammaestramento a base di asperità, secondo il detto scritturale: Il Signore riprende severamente colui che ama e sferza ogni figlio che accoglie. ( Pr 3,12; Eb 12,6 )
Nella letteratura ecclesiastica è invalso l'uso di chiamare questo tipo di ammaestramento col termine "disciplina", preso dal corrispondente greco παιδεία.
Incontriamo la parola nel testo greco dell'Epistola agli Ebrei, e il traduttore latino l'ha resa come segue: Ogni disciplina non sembra lì per lì esser di gioia, bensì di dolore; ma più tardi porta, a chi è per mezzo di essa esercitato, pacifico frutto di giustizia. ( Eb 12,11 )
Quando dunque Dio opera la dolcezza nell'animo di qualcuno, significa che nella sua misericordia gli ispira il gusto del bene o, per spiegarmi con più chiarezza, gli dona l'amore per Iddio stesso e per il prossimo, amato per amore di Dio.
Chi è stato così favorito deve pregare insistentemente perché un tal dono aumenti nel suo cuore, al segno che per conservarlo sappia non solo disprezzare tutte le altre gioie ma anche sopportare ogni sorta di tribolazioni.
Ecco perché è salutare che alla dolcezza si aggiunga la disciplina.
È, questa, una disciplina che non si chiede né si brama per conseguire una dolcezza o bontà qualunque, per avere cioè un amore santo comune.
La si vuole per raggiungere un grado di amore così elevato che, anche sotto il peso della disciplina, non si spenga ma, come fiamma possente al soffiare di vento impetuoso, quanto più viene compressa tanto più si accenda e divampi.
Quindi sarebbe stato poco dire: Tu hai operato la dolcezza verso il tuo servo, ( Sal 119,65 ) se non avesse proseguito chiedendo che gli venisse insegnata una dolcezza sì grande da poter sostenere con la massima pazienza i rigori della disciplina.
Al terzo posto si colloca la scienza, e questo perché, se la scienza superasse in grandezza la carità, sarebbe una scienza che gonfia, non che edifica. ( 1 Cor 8,1 )
Se invece la carità, con la dolcezza della bontà che l'accompagna, è tale che non si lascia spegnere dalle prove e dai rigori della disciplina, allora anche la scienza diviene utile.
Con essa infatti l'uomo si conosce meglio, e conosce ciò che personalmente si meritava e ciò che Dio gli ha donato.
Conoscerà ancora come solo per tali doni è in grado di scoprire quelle possibilità che, senza di essi, nemmeno sospettava di possedere.
Per non parlare delle riuscite, che da solo mai avrebbe potuto ottenere.
Il fatto poi che dice: Insegnami, e non " Dammi ", fa sorgere la domanda come possa essere insegnata la dolcezza se non la si dona.
È vero che molti sanno cose da cui non si sentono attratti e che delle cose che conoscono non hanno alcun gusto; non si può però apprendere la dolcezza se non provandone l'attrattiva.
Lo stesso è della disciplina, cioè della severità imposta a correzione, la quale si impara quando la si riceve o, in altre parole, non la si impara ascoltandone o leggendone la descrizione e nemmeno pensando ad essa, ma facendone l'esperienza.
La scienza, al contrario, posta dal salmista come terza fra le prerogative che desidera gli siano insegnate, viene data proprio mediante l'insegnamento.
Che significa infatti insegnare se non impartire la scienza?
Sono due cose così intimamente congiunte, la scienza e l'insegnamento, che l'una non può essere senza l'altro.
Non s'insegna infatti se non quando l'altro riesce ad imparare, né si impara se non quando uno ci comunica il suo insegnamento.
Se pertanto un discepolo non è capace d'afferrare le cose che il maestro dice, questo maestro non può dire: " lo gliel'ho insegnato, ma lui non l'ha imparato ".
Potrà dire soltanto: " Io gli ho detto quello che gli dovevo dire, ma lui non se l'è messo in testa ".
Non ha cioè compreso, né afferrato o capito.
Viceversa, se il maestro gli avesse effettivamente insegnato qualcosa, il discepolo avrebbe dovuto anche imparare.
Lo stesso è di Dio.
Quando egli vuole insegnare qualcosa, prima dona l'intelletto, senza del quale l'uomo non può comprendere quanto ha attinenza con la dottrina di Dio.
Per questo un po' più oltre il salmo dice: Dammi l'intelletto affinché apprenda i tuoi comandamenti. ( Sal 119,73 )
Quando dunque uno si propone di istruire un altro, può, sì, ripetere le parole che il Signore disse ai discepoli dopo la risurrezione, ma non può fare le cose che egli fece.
Riferisce infatti il Vangelo che egli aprì loro la mente perché comprendessero le Scritture e disse loro. ( Lc 24,45 )
Cosa egli disse lo si legge nel Vangelo; l'avere però i discepoli compreso le parole del Maestro dipese dal fatto che egli aprì loro la via alla comprensione.
Dio dunque insegna la dolcezza ispirandone il gusto, insegna la disciplina mitigandone il peso, insegna la scienza comunicandone la cognizione.
Siccome poi ci sono cose che s'imparano solo per saperle e altre che s'imparano per praticarle, Dio insegna le une in modo che le conosciamo come occorre conoscerle, e questo fa manifestandoci la verità; quanto alle altre invece, egli ce le insegna in modo che noi riusciamo a praticare ciò che è nostro dovere praticare, e questo fa ispirandocene la dolcezza.
Non è infatti senza significato che si dice a Dio: Insegnami a fare la tua volontà. ( Sal 143,10 )
Dice: Insegnami a fare, non soltanto a conoscere.
In effetti, le opere buone da noi compiute sono, sì, il frutto che noi rendiamo al nostro [ celeste ] agricoltore, ma a tal proposito la Scrittura dice: Il Signore darà la dolcezza e la nostra terra darà il suo frutto. ( Sal 85,13 )
Qual è poi questa terra se non quella di cui un tale, rivolto a colui che dona la dolcezza, diceva: La mia anima è dinanzi a te come terra senz'acqua? ( Sal 143,6 )
Aveva detto: Insegnami la dolcezza e l'istruzione e la scienza; e continuando diceva: Poiché ho creduto nei tuoi comandamenti.
Ci si domanda quindi ragionevolmente perché non abbia detto: " Ho obbedito " ma: Ho creduto.
Una cosa infatti sono i comandamenti e un'altra le promesse.
I comandamenti ci sono stati dati perché li osserviamo e osservandoli meritiamo di ricevere le promesse: per cui alle promesse si ha da credere, ai comandamenti da obbedire.
Che vuol dire, pertanto, l'espressione: Ho creduto nei tuoi comandamenti, se non questo: Io ho creduto che a dare tali comandamenti sei stato tu, non un uomo, sebbene per darli all'umanità ti sia servito del ministero di uomini?
Avendo quindi io creduto che si tratta di comandamenti tuoi, questa stessa fede per cui io credo così mi ottenga da te la forza d'adempiere ciò che tu mi hai ordinato.
Se infatti si fosse trattato di precetti impostimi all'esterno da un qualsiasi uomo, forse che costui avrebbe potuto darmi anche quell'aiuto interiore che mi avrebbe reso idoneo a fare quel che egli mi ordinava?
Insegnami dunque la dolcezza ispirandomi la carità, insegnami la disciplina dandomi la pazienza, e insegnami la scienza illuminandomi la mente, perché io ho creduto nei tuoi comandamenti.
Ho creduto che tali precetti me li hai dati tu, che sei Dio e che dài all'uomo, gratuitamente, la capacità di mettere in pratica quanto gli prescrivi.
5 - [v 67.] Dice: Prima che io fossi umiliato, ho commesso falli; perciò la tua parola ( ovvero, come altri recano più apertamente, il tuo dire ) ho osservato.
Evidentemente per non essere di nuovo umiliato.
È preferibile riferire l'espressione al decadimento in cui incorse l'umanità tutta intera quando in Adamo ( Gen 3,17 ) venne come viziata nella sua stessa radice.
Non avendo voluto restare soggetta alla verità, venne assoggettata alla vanità. ( Rm 8,20 )
Fu un'esperienza che per i vasi di misericordia è poi risultata vantaggiosa, nel senso che, sgonfiato l'orgoglio, viene amata la docile obbedienza e l'antica miseria viene annientata per mai più ricomparire.
6 - [v 68.] Sei soave, o Signore.
Molti codici leggono: Soave sei tu, o Signore; alcuni altri: Soave sei tu, oppure: Buono sei tu, nel senso che abbiamo spiegato trattando sopra queste parole.
E nella tua dolcezza insegnami le vie della tua giustizia.
Vuol veramente praticare le vie della giustizia di Dio se vuole apprenderle, insieme con la sua soavità, da colui al quale or ora ha detto: Soave sei tu, o Signore.
Continua poi: S'è moltiplicata contro di me l'iniquità dei superbi.
Di coloro, cioè, ai quali nessun vantaggio ha recato l'umiliazione in cui è decaduta la natura umana per aver peccato.
Ma io con tutto il mio cuore scruterò i tuoi comandamenti.
Dice: Abbondi pure fino all'inverosimile la cattiveria; non per questo si raffredderà in me la carità. ( Mt 24,12 )
Chi parla in questa maniera è un uomo che sta imparando le vie della giustizia di Dio per averne gustato la soavità.
In realtà, quanto maggiore è la dolcezza dei comandamenti dati da Dio soccorritore, altrettanto cresce nell'amante l'impegno di scrutarli.
E conoscendoli li metterà in pratica, e praticandoli li conoscerà [ ancora meglio ], poiché veramente col praticarli se ne acquista una cognizione più perfetta.
8 - [v 70.] Il loro cuore s'è rappreso come latte.
Di chi si parla, se non dei superbi che, come notava prima, avevano accumulato su di lui la loro malvagità?
Con la parola che usa in questo verso vuole indicarci ancora una volta che essi hanno indurito il loro cuore.
È vero che l'espressione è suscettibile d'un significato positivo, come ad esempio nel salmo sessantasettesimo.
Ivi si dice: Monte di formaggio, monte ferace, ( Sal 68,16 ) cioè " monte pieno di grazia ", e molti traduttori anche là hanno usato proprio il termine rappreso.
Nel nostro caso, però, osserva cosa il salmista da parte sua contrapponga alla durezza del loro cuore.
Dice: Io viceversa ho meditato la tua legge.
Quale legge? Una legge sommamente giusta e misericordiosa, tanto che di essa può dire al Signore: E nella tua legge usami pietà.
Dio resiste ai superbi perché induriscano [ nel male ]; agli umili invece dà la grazia, ( Gc 4,6; 1 Pt 5,5 ) affinché amino l'obbedienza e conseguano la gloria della esaltazione.
È infatti meditando su questa legge che si pratica l'umiltà volontaria e si evita l'umiliazione penale, di cui parla il salmo subito dopo.
Buon per me che tu mi abbia umiliato, affinché impari le vie della tua giustizia.
Una cosa molto affine aveva detto poco prima: Prima che io fossi umiliato, ho commesso falli; perciò ho custodito la tua parola. ( Sal 119,67 )
Dal frutto che ne ha ricavato lascia comprendere quanto vantaggiosa gli sia stata l'umiliazione.
Là tuttavia ne indicava anche la causa, in quanto fu per le sue colpe antecedenti che s'era meritato la umiliazione penale.
Che se nel primo testo dice: Perciò io ho custodito la tua parola, e nel seguente: Affinché io impari le vie della tua giustizia, è - mi sembra - un indizio abbastanza chiaro per concludere che conoscere i comandamenti è lo stesso che custodirli, e custodirli è lo stesso che conoscerli. In questo senso, di Cristo non si può dire che non conoscesse quel che rimproverava, eppure rimproverava il peccato senza conoscere il peccato, ( 2 Cor 5,21 ) come era stato scritto di lui.
Quindi per un verso lo conosceva, per un altro non lo conosceva, cioè ne era all'oscuro.
Così è delle vie di giustizia del Signore: molti le imparano e insieme non le imparano.
Le conoscono cioè perché ne hanno una qualche idea, ma nello stesso tempo le ignorano, in quanto non praticandole dimostrano di non conoscerle.
In questo senso è da supporre che il Salmista abbia detto: Affinché io impari le vie della tua giustizia.
Che io, cioè, ne abbia quella scienza che le fa praticare.
10 - [v 72.] Questa pratica non si ottiene senza la spinta dell'amore; e chi riesce a praticare la legge è segno che ha quell'attrattiva a proposito della quale si diceva prima: Nella tua soavità insegnami le vie della tua giustizia. ( Sal 119,68 )
È quel che risulta dal verso seguente dove è detto: Buona è per me la legge della tua bocca, più che tonnellate d'oro e d'argento.
Veramente la carità suscita nel cuore, per la legge di Dio, un amore più intenso di quello che l'avidità vi suscita per tonnellate di oro e di argento.
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