Lettere |
Scritta fra il 404 e il 405.
Agostino indica ad Alipio, vescovo di Tagaste, come risolvere con giustizia e carità la vertenza concernente l'eredità d'un certo Onorato, da monaco di Tagaste diventato prete della Chiesa di Thiave ( n. 1 ); si dice contrario a dividere la somma a metà tra il monastero e la chiesa di Thiave ( come Alipio aveva proposto ) ( n. 2 ), per salvare la giustizia e non scandalizzare i fedeli ( n. 3-6 ).
Agostino e i fratelli della sua comunità inviano saluti nel Signore ad Alipio signore beatissimo, venerando e carissimo fratello e collega nell'episcopato
Il dolore per la Chiesa di Thiave non dà tregua al mio cuore finché non saprò che quei fedeli sono tornati con te nei buoni rapporti d'amicizia di un tempo, cosa che occorre procurare subito.
L'Apostolo infatti si diede tanto da fare per una sola persona dicendo: per paura che quel tale venga sommerso da un dolore troppo grande e non cadiamo in balìa di Satana, e soggiungendo: poiché non ne ignoriamo le macchinazioni. ( 2 Cor 2,7.11 )
Quanto più occorre dunque che agiamo con la dovuta circospezione, affinché non abbiamo a piangere per tutto il gregge e specialmente per quelli che si sono convertiti di recente alla Chiesa Cattolica e che non potrei in alcun modo abbandonare.
Siccome però la ristrettezza del tempo non ci ha permesso di prendere insieme una decisione ben ponderata, la Santità tua accolga il parere che mi è parso il migliore, scaturito da lunga riflessione dopo il nostro commiato; se incontra pure il tuo compiacimento, si mandi subito, senza indugio, la lettera scritta da me a nome di tutti e due.
Tu hai detto che i fedeli di Thiave abbiano la metà dell'eredità e l'altra metà sia in qualche modo procurata loro da me; io invece penso che, se fosse loro tolto tutto, ci sarebbe motivo per dire che ci siamo dato tanto pensiero non del denaro ma della giustizia.
Se al contrario concediamo loro solo la metà e in tal modo concludiamo la pace con essi una buona volta, apparirà chiaro che l'unica nostra preoccupazione era quella del denaro e vedi da te stesso quale danno ne deriverebbe.
Da una parte infatti daremo loro l'impressione che abbiamo loro sottratto la metà appartenente ad essi e dall'altra avremo noi stessi l'impressione ch'essi abbiano subìto un'offesa e un'ingiustizia nell'essere aiutati con la metà di quello che era tutto dei poveri.
Infatti la tua affermazione: " Volendo correggere una questione dubbia, occorre badare di non aprire ferite più gravi ", conserverà altrettanto valore anche nel caso in cui si conceda loro soltanto la metà.
Poiché, proprio se concederemo tale metà a coloro che si ritirano in monastero e alla cui vita religiosa vogliamo provvedere, rimanderanno ad altro tempo la vendita dei loro beni con pretesti dilatorii, lasciandosi trascinare da questo esempio.
E poi sarebbe strano che per una questione dubbia si debba causare un sì grave scandalo di tutti i fedeli, i quali penserebbero che siano macchiati di sordida avidità di denaro i propri vescovi, da essi altamente stimati, se non si evitasse ogni apparenza di male.
Poiché quando uno abbandona il mondo per entrare in monastero, se lo fa con retta intenzione, non si preoccupa del denaro, soprattutto se avvertito di quanto ciò sarebbe male.
Se invece è finto e cerca il proprio interesse e non quello di Cristo, ( Fil 2,21 ) non possiede certo la carità, e allora a che gli gioverebbe, anche se distribuisse tutti i suoi beni ai poveri e desse il suo corpo alle fiamme? ( 1 Cor 13,3 )
A ciò si aggiunga il fatto, già considerato nel nostro colloquio, che tale inconveniente potrà in seguito essere evitato trattando la cosa con chi si ritira alla vita monastica, se si stabilisce che non venga ammesso nella comunità dei fratelli prima che si sia liberato da tutti quei legami e si differisca l'ammissione al momento in cui il suo patrimonio sarà alienato.
Come può evitarsi la morte spirituale di questi deboli e un sì grande ostacolo alla loro salvezza, mentre facciamo tanti sforzi per guadagnarli alla Chiesa Cattolica?
Non può evitarsi in altro modo se non facendo capire loro molto chiaramente che in tali casi non siamo mossi assolutamente da alcuna preoccupazione di denaro.
Essi però non arriveranno a capirlo in nessun modo, se noi non lasciamo alle loro necessità, i beni che hanno sempre giudicato appartenere al prete, perché, sebbene non gli appartenessero, avrebbero dovuto esserne informati fin da principio.
Mi pare dunque che in faccende di tal genere debba osservarsi la seguente norma: quando uno viene ordinato prete, deve appartenere alla Chiesa, in cui viene ordinato, tutto ciò che gli apparteneva in forza del diritto di legittimo possesso.
Ora, in forza dello stesso diritto, appartiene talmente al prete Onorato tutto il patrimonio di cui si tratta, che, essendo stato ordinato altrove e vivendo nel monastero di Tagaste, qualora morisse senza che la sua proprietà fosse stata venduta o fosse passata ad altri con pubblico atto di donazione, ne entrerebbero in possesso soltanto i suoi eredi, nello stesso modo con cui il fratello Emiliano entrò in possesso di trenta soldi del fratello Privato.
Occorre dunque prendere innanzi tutto queste precauzioni; se non si sono prese, occorre osservare le norme di legge che danno diritto di entrare o no in possesso di tali beni, norme stabilite per la salvaguardia della civile società.
Ci asterremo così, per quanto ci sarà possibile, non solo da ogni azione cattiva, ( 1 Ts 5,22 ) ma anche da ciò che ne ha l'apparenza e conserveremo la buona fama tanto necessaria al nostro ministero.
Consideri ora la tua santa Prudenza quanto sia cattiva l'impressione che dalla nostra condotta può ricevere la gente.
Io, nel timore di cadere per caso in qualche sbaglio, come mi capita di solito quando, per essere troppo propenso al mio modo di vedere, mi allontano dalla verità, ho esposto la questione al nostro collega e fratello Sansucio, senza parlargli della tristezza di quei fedeli da noi sperimentata.
Non gli ho parlato neppure del mio modo di vedere attuale, ma di quello che ci pareva giusto quando ci opponevamo a quello di Thiave.
Egli ne rimase fortemente sbigottito e si stupì che avessimo avuto una simile idea; ma ciò che lo ha costernato è l'apparenza vergognosa della cosa, assolutamente indegna non solo della nostra vita, ma della vita e dei costumi di qualsiasi altra persona.
Ti scongiuro perciò di spedire senza indugio a quelli di Thiave, munita della tua firma, la lettera da me scritta loro a mio e tuo nome.
Se, acuto qual sei, comprendi che è giusto quanto abbiamo deciso, che non si debbano obbligare i deboli ad apprendere ciò che neanche io riesco a comprendere, in questa faccenda si rispetti nei loro riguardi la prudenza del Signore che disse: Avrei da dirvi ancora molte cose, ma per adesso sono al di sopra della vostra portata ( Gv 16,12 ) e, mosso da compassione per siffatta debolezza, a proposito del dovere di pagare il tributo disse pure: I figli dunque ne sono esenti, ma affinché non li scandalizziamo ecc., quando mandò Pietro a pescare, affinché il collegio apostolico potesse pagare le due dramme che venivano riscosse per il culto. ( Mt 17,26s )
Cristo infatti conosceva un altro diritto in forza del quale non era tenuto a pagare alcuna imposta di tal genere, ma la pagava in forza di quella stessa legge per cui, come dicevo, l'erede del prete Onorato entrerebbe in possesso dei suoi beni se morisse prima di aver donato o venduto il suo patrimonio.
L'apostolo Paolo del resto, a proposito dello stesso diritto della Chiesa, usa indulgenza verso i deboli senza esigere alcuna contribuzione in denaro, che pure in coscienza era sicuro di poter esigere con ogni diritto, ma egli non si preoccupa d'altro se non di evitare un sospetto che avrebbe potuto guastare il buon profumo di Cristo, astenendosi da quanto poteva avere l'apparenza di male in paesi ove sapeva che era necessario fare così, ( 1 Cor 9,1-23 ) forse anche prima di aver sperimentato la malignità della gente.
Noi invece mettiamoci a correggere, sebbene in ritardo e dopo l'esperienza fatta, il male che avremmo dovuto prevedere.
Finalmente, poiché temo ogni evenienza e mi ricordo che al momento del nostro commiato mi proponesti che i fratelli di Tagaste mi considerino debitore per metà della somma, se tu comprendi chiaramente che ciò è giusto, io non oppongo rifiuto: solo che soddisferò il debito appena ne avrò la possibilità, quando cioè al monastero d'Ippona verranno dei proventi di tal consistenza, che si possa adempiere tale obbligo senza disagio, cioè tale che, toltane la somma da sborsare, ne tocchi ai nostri una parte non inferiore in proporzione del numero dei membri della comunità religiosa.
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