Lettere |
Scritta tra il 404 e il 405.
Agostino rispondendo alle lettere 72, 75, 81, gli chiede di dirgli apertamente se lo ha perdonato ( n. 1 ) e conferma l'opinione che Pietro fu effettivamente e giustamente rimproverato da Paolo, ribadendo gli argomenti esposti nella lettera 40 ( n. 2-27 ).
Esprime quindi il dispiacere che le lettere dirette a Girolamo siano capitate prima in mani estranee, ma nega d'avere mai scritto alcun libro contro di lui ( n. 28-33 ).
Per la versione di Girolamo dall'ebraico spiega perché non desidera che sia letta nelle sue chiese ( n. 34-35 ).
S'accomiata con l'augurio che tra loro regni sempre la più schietta carità ( n. 36 ).
Agostino invia cristiani saluti a Girolamo, carissimo e onorando signore nell'amore di Cristo, santo fratello e collega di sacerdozio
Già da tempo ho inviato alla tua Carità una lunga lettera in risposta a quella che tu mi ricordi di avermi fatto recapitare dal tuo santo figliolo Asterio, il quale è ora non più solo fratello ma anche collega nell'episcopato.
Non so se tale lettera abbia avuto ancora la sorte di arrivare nelle tue mani; so unicamente, dallo scritto recapitatomi dal sincerissimo fratello Fermo, che quel tale che per primo t'ha assalito con la spada è stato respinto con lo stilo, e che sarebbe mio dovere d'umanità e di giustizia biasimare l'accusatore e non già chi risponde all'accusa.
Da questo sia pur brevissimo indizio suppongo comunque che tu hai letto la mia lettera.
Sì, è vero: in essa io deploravo che fra te e Rufino fosse sorta una così grave discordia, mentre proprio chi vi amava come fratelli godeva della fama ovunque diffusa della vostra tanto stretta amicizia.
Dicendo ciò, non intendevo muovere un rimprovero alla tua fraternità, poiché mi guarderei bene dall'attribuirti qualche colpa in quella faccenda, ma solo deplorare quanto sia incerta la perseveranza di noi poveri uomini nel conservare i rapporti d'amicizia nello scambievole affetto, per quanto grande esso sia.
Io però avrei preferito sapere dalla tua risposta se mi hai accordato il perdono che t'avevo chiesto; desidererei che tu me lo facessi capire nel modo più esplicito, anche se ho l'impressione d'averlo ottenuto, come posso arguirlo dal tono piuttosto scherzoso della tua lettera, sempre se me l'hai spedita dopo aver letto la mia, cosa questa che in essa non appare affatto.
Tu mi proponi, o meglio, mi comandi ( in forza della fiducia che hai nella carità ) di esercitarci [ ludamus ] insieme nel campo della sacra Scrittura senza procurarci vicendevoli dispiaceri.
Io veramente, per quanto dipende da me, preferirei trattare simili problemi in tono serio e non già per gioco [ ludo ].
Comunque, se t'è piaciuto usare quel termine così alla buona, ti confesso che m'aspetto qualcosa di meglio dalle possibilità che tu possiedi di benevolenza, d'intelligenza, di applicazione continua e annosa, appassionata e ingegnosa!
E non solo per un dono dello Spirito Santo, dal quale hai queste doti, ma pare per sua ispirazione mi devi aiutare in quelle gravi e difficili questioni, non già come uno che voglia giocare nel campo della sacra Scrittura ma come uno che ha il fiato grosso nel salire le montagne.
Se invece hai creduto di dover usare il termine " giochiamo" per indicare la gioia che deve regnare tra amici carissimi quando discutono tra loro, giochiamo pure non solo quando l'argomento delle nostre conversazioni è chiaro e facile, ma pure quando è arduo e difficile.
Ti scongiuro d'insegnarmi il modo d'arrivare a questo risultato.
Può darsi che qualche passo ci procuri imbarazzo per il fatto che non possiamo approvarne il senso ( non tanto per averlo considerato con poca attenzione, quanto a causa della nostra tarda intelligenza ) e ci sforziamo di sostenere un nostro punto di vista contrario.
Orbene, qualora dovessimo esprimerlo in modo piuttosto franco e senza troppi riguardi, evitiamo il sospetto reciproco di puerile iattanza come se andassimo a caccia di notorietà col mettere sotto accusa dei personaggi illustri.
Se invece cercheremo di rendere più tollerabile, foderandola per così dire di termini più morbidi, qualche osservazione pungente, usata per necessità polemica, non accusiamoci poi di brandire una spada cosparsa di miele.
A meno che per caso questo metodo di discutere sia adatto ad evitare ambedue quei difetti o almeno ad evitare di sospettarli nell'altro quando, discutendo con un amico più istruito, ci è giocoforza approvare tutto quel che dice senza aver la possibilità di contraddirlo neppure per accertarci meglio della cosa!
Allora, sì, senza paura di offenderci, si può giocare come in una gara, altrimenti ci sarebbe da meravigliarci se non fossimo giocati noi stessi!
Poiché - debbo confessarlo alla tua Carità - questo timore riverenziale per cui credo in modo fermissimo che nessun autore ha potuto sbagliare nello scrivere, ho imparato ad averlo solamente per i libri della sacra Scrittura.
Se quindi m'imbatterò in qualche passo di questi libri, che mi dia l'impressione d'essere in contrasto con la verità, non avrò alcun dubbio che ciò dipenda dal fatto che o è scorretto il manoscritto o il traduttore non ha centrato il senso o sono io che non ho capito.
Nel leggere invece tutti gli altri autori, per quanto possano essere superiori a chiunque altro per santità e dottrina, non ritengo vera una cosa per l'unico motivo che quelli la pensino così, ma solo perché sono riusciti a persuadermi che la loro opinione non è in contrasto con la verità in base all'autorità della sacra Scrittura canonica o in base a un ragionamento plausibile.
Penso pure, fratello, che tu pure non sia di parere diverso; voglio dire: non credo assolutamente che tu pretenda che i tuoi libri siano letti come se fossero quelli dei Profeti e degli Apostoli, gli unici a proposito dei quali sarebbe empio aver dubbi che siano esenti da qualsiasi errore.
Un simile pensiero tenga Dio lontano dalla tua religiosa umiltà e dallo schietto sentimento che hai di te stesso; se ne fossi privo, non avresti certamente detto: "Dio voglia ch'io meriti d'abbracciarti e d'insegnare o imparare qualcosa in conversazioni tra noi due".
Se, per quanto riguarda la tua persona, sono convinto, in considerazione della tua vita e del tuo carattere, che hai parlato senza simulazione e senza falsità, quanto è più giusto che io creda che Paolo non pensasse diversamente da quanto ha scritto nel passo ove, parlando di Pietro e di Barnaba, dice: Quando m'accorsi che non camminavano rettamente, secondo la verità del Vangelo, in presenza di tutti dissi a Cefa: Se tu, che sei Giudeo, vivi da pagano e non da Giudeo, come mai costringi poi i pagani a osservare i riti giudaici? ( Gal 2,14 )
Orbene, che certezza potrei avere io che, scrivendo o parlando, l'Apostolo non m'inganni, se ingannava i suoi figli, ch'egli partoriva continuamente fino a che non si fossero conformati perfettamente a Cristo, ch'è la Verità? ( Gal 4,19; Gv 5,6 )
E dire che proprio poco prima li aveva rassicurati dicendo: M'è testimone Iddio che quanto vi scrivo non è affatto una menzogna! ( Gal 1,20 ) e poi eccolo scrivere cose contrarie alla verità e ingannare con una non so quale simulazione diplomatica, dicendo d'essersi accorto che Pietro e Barnaba non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo e d'essersi opposto apertamente a Pietro per il solo motivo ch'egli costringeva i pagani a osservare i riti giudaici! ( Gal 2,11-14 )
" Ma - si obietterà - è meglio credere che sia stato l'apostolo Paolo a scrivere qualche particolare non rispondente a verità, anziché pensare che sia stato Pietro ad agire non rettamente in qualche caso ".
Ma se fosse così, dovremmo dire - Dio ne guardi! - che è meglio pensare che il Vangelo dica una bugia, anziché ammettere che Cristo sia stato rinnegato da Pietro; ( Mt 26,69-75 ) dovremmo pensare che sia il Libro dei Re a mentire, anziché ammettere che un Profeta così eminente come David, scelto in modo così straordinario dal Signore Iddio, abbia commesso un adulterio nel desiderare in modo sensuale e nel portare via la moglie a un altro e per di più abbia commesso un omicidio davvero orrendo facendone uccidere il marito? ( 2 Sam 11,4.17 )
Tutt'altro! La sacra Scrittura è l'autorità che occupa il più alto posto nel cielo anzi la sommità stessa del cielo e io la leggerò assolutamente certo e sicuro della sua veridicità.
Da essa verrò a conoscere senza ombra d'errore che alcune persone sono state veramente lodate, corrette o condannate, anziché gettare l'ombra del dubbio sulle parole di Dio solo perché ho timore di dover ammettere che certe azioni umane debbano venire talora criticate in persone eminenti ed encomiabili.
Il sacrilego errore dei Manichei è confutato con lampante evidenza dalle espressioni delle divine Scritture, ch'essi non possono stravolgere in senso diverso e perciò sostengono che moltissime tra esse sono false, anche se non attribuiscono tale falsità agli Apostoli che le scrissero, bensì a non so quali corruttori di manoscritti.
Ma siccome non hanno mai potuto dimostrarlo né in base a esemplari più numerosi o più antichi né in base alla lingua originale, sulla quale è stata fatta la traduzione dei testi latini - cioè sulla lingua che fa testo - devono battere in ritirata, pieni di confusione e pienamente confutati da una verità a tutti ben chiara!
E la tua Santità non si rende conto dell'appiglio opportuno che offriamo alla loro malizia se andiamo dicendo che non da altri sono stati falsificati gli scritti degli Apostoli, ma furono proprio gli Apostoli a scrivere delle falsità?
" Ma non è possibile pensare - dici tu - che Paolo rimproverasse Pietro di una cosa che aveva fatto lui stesso ".
Adesso però io esamino non che cosa abbia fatto, ma che cosa abbia scritto; questo è della massima importanza per la questione da me presa a discutere e cioè che la verità delle sacre Scritture, affidataci come documento storico per la conferma della nostra fede non da persone qualsiasi ma dagli stessi Apostoli e posta per questo nel canone dei Libri sacri come il sommo e più autorevole criterio di verità, resta sotto ogni aspetto attendibile ed esente da qualsiasi possibilità d'essere messa in dubbio.
Orbene, se Pietro agì solo come doveva, allora sarebbe stato Paolo a mentire dicendo che s'era accorto che non camminava rettamente secondo la verità del Vangelo.
Chiunque infatti agisce come deve, senza dubbio agisce bene e perciò dice il falso chi dice che non ha agito bene, mentre sa ch'era suo dovere d'agire a quel modo.
Se al contrario è vero quanto ha scritto Paolo, è vero pure che Pietro non camminava rettamente secondo la verità del Vangelo: faceva insomma quel che non avrebbe dovuto fare; e se Paolo aveva fatto anch'egli qualcosa di simile, dovrò credere che si sarà ravveduto anch'egli e non poté trascurare di far ravvedere l'apostolo suo collega, anziché credere che possa aver riferito qualcosa di falso nella sua lettera in questione o in qualsiasi altra lettera, ma tanto meno in quella, in cui aveva premesso l'asserzione: Quanto vi scrivo - m'è testimonio Iddio - non è una menzogna. ( Gal 1,20 )
Io per me credo che in quel caso Pietro agisse in modo da obbligare i pagani a osservare i riti giudaici.
Così infatti trovo scritto in Paolo e non posso credere ch'egli abbia mentito.
Era quindi Pietro a non agire rettamente, perché era in contrasto con la verità del Vangelo pensare che i convertiti a Cristo non potessero salvarsi senza osservare quei riti antichi.
Appunto questo sostenevano in Antiochia coloro ch'erano passati dalla circoncisione alla fede di Cristo e contro i quali Paolo ingaggiò una lotta continua e accanita.
Ma quando fu proprio Paolo a far circoncidere Timoteo, ( At 16,3 ) a sciogliere il voto a Cencre, ( At 18,18 ) a celebrare in Gerusalemme i riti della Legge con quelli che lo conoscevano dietro esortazione di Giacomo, ( At 21,26 ) egli non agì per far credere che con quei riti si potesse conseguire la salvezza cristiana; voleva solo non dare l'impressione ch'egli condannasse, al pari dei culti idolatrici dei pagani, i riti che Dio aveva prescritto si celebrassero, com'era conveniente, nei tempi primitivi, in quanto rappresentavano la prefigurazione delle realtà future. ( Col 2,17 )
Giacomo in realtà gli dice proprio questo: d'aver cioè sentito dire di lui che insegnava a romperla con Mosè. ( At 21,26 )
Ora, sarebbe senza dubbio un'empietà che i credenti in Cristo la rompessero con un Profeta di Cristo come se condannassero e detestassero la dottrina di uno del quale Cristo stesso afferma: Se voi credeste a Mosè, credereste pure a me, perché proprio di me egli ha scritto. ( Gv 5,46 )
Considera attentamente, ti scongiuro, le precise parole di Giacomo: Tu vedi, fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto in Cristo e come tutti sono zelanti della Legge.
Ora essi hanno sentito dire che insegni a tutti i Giudei, viventi tra i pagani, a staccarsi da Mosè, dicendo loro di non far circoncidere i loro figlioli e di vivere senza seguire la tradizione.
Che fare dunque? È necessario senz'altro radunare la folla, avendo essa sentito del tuo arrivo.
Fa dunque quel che ti diciamo. Sono qui con noi quattro persone che hanno fatto un voto.
Prendile con te e purìficati con esse e paga per esse le spese necessarie perché si radano il capo.
In tal modo tutti si renderanno conto ch'è falso quanto hanno sentito dire sul tuo conto, mentre tu pure segui la Legge e vi resti fedele.
Riguardo poi ai pagani passati alla fede, noi abbiamo creduto giusto di dare il seguente ordine: non devono attenersi a nessun'altra prescrizione tranne a quella che si astengano dai cibi immolati agli idoli, dal sangue e dalla fornicazione. ( At 21,20-25 )
A mio parere il testo non è oscuro: Giacomo volle dargli questo consiglio perché i Giudei convertiti al Cristo, che però erano ancora zelanti nell'osservare la Legge, sapessero ch'era falsa la diceria sentita sul conto di Paolo; voleva inoltre evitare che le prescrizioni date agli antichi Ebrei, nostri antenati nella fede, le considerassero condannate come sacrileghe dalla dottrina di Cristo e scritte senza l'ordine di Dio.
Questa calunnia contro Paolo l'avevano lanciata non quelli che capivano con quale spirito dovevano essere osservati dai Giudeo-Cristiani i riti mosaici, cioè per metterne in rilievo l'autore, ossia Iddio, e la santità prefigurata in quelle cerimonie, senza tuttavia credere che potessero ottenere con essi la salvezza, che già s'era rivelata in Cristo e veniva procurata mediante il sacramento del Battesimo.
Quella calunnia contro Paolo era stata diffusa da coloro che volevano l'osservanza di quei riti, come se sotto la nuova legge del Vangelo la salvezza dei fedeli fosse impossibile senza di essi.
Quei tali s'erano infatti accorti ch'egli predicava la grazia con tutta l'energia e ch'era agli antipodi della loro mentalità, quando insegnava che veniamo giustificati non da quei riti, ma dalla grazia di Gesù Cristo, della quale quei riti erano solo prefigurazioni e, come tali, erano prescritti sotto la Legge mosaica, appunto per preannunciare la grazia.
Ecco perché gli avversari cercavano di suscitare contro Paolo e l'odio e la persecuzione e l'accusavano come nemico della Legge e dei comandamenti divini.
Ora, Paolo non avrebbe potuto evitare più opportunamente l'odio suscitatogli dalla calunnia se non col praticare egli stesso quei riti che veniva accusato di condannare come sacrileghi; solo così poteva dare una prova palmare che né ai Giudei - a quel tempo - si dovevano proibire quei riti, come se fossero pratiche sacrileghe, né ai pagani se ne doveva imporre l'osservanza, come se fossero indispensabili.
Poiché se Paolo avesse condannato effettivamente quei riti, come s'era inteso dire sul suo conto, e poi invece si fosse piegato ad osservarli per nascondere con azioni simulate il suo modo di pensare, Giacomo non gli avrebbe detto: Così tutti si renderanno conto, ma: Così tutti penseranno che è falso quanto hanno sentito sul tuo conto ( At 21,24 ) tanto più che proprio a Gerusalemme gli Apostoli avevano decretato che nessuno doveva costringere i pagani a praticare i riti giudaici, ( At 15,28 ) mentre non avevano decretato, in quell'occasione, che si dovesse proibire ai Giudei di praticare i loro riti, anche se la stessa dottrina cristiana non ne faceva un obbligo neppure per essi.
Se, quindi, dopo il decreto degli Apostoli, Pietro agì con simulazione per costringere i pagani all'osservanza dei riti giudaici - cosa alla quale neppure lui era obbligato, ma che non gli era nemmeno proibita allo scopo di onorare le sacre Scritture affidate proprio ai Giudei ( Rm 3,2 ) - che c'è di strano se Paolo lo costrinse a dichiarare senza paura ciò che non poteva non ricordare d'aver decretato a Gerusalemme insieme agli altri Apostoli?
Se invece Pietro fece una simile cosa prima del concilio di Gerusalemme - come io sono più propenso a credere - neppure in tal caso sarebbe strano che Paolo pretendesse che Pietro, invece d'un codardo sotterfugio, dichiarasse quanto era condiviso pure da lui.
Egli infatti ne era a conoscenza, sia perché aveva confrontato il suo col Vangelo di Pietro, sia perché, nella vocazione del centurione Cornelio, Pietro aveva avuto un avvertimento in proposito, sia infine perché l'aveva veduto a mensa coi pagani prima che arrivassero ad Antiochia quei Giudei di cui aveva paura.
Non nego affatto che Pietro avesse la stessa convinzione di Paolo; questi perciò non insegnava all'altro cosa dovesse reputarsi vero in quel problema, quanto piuttosto gli rimproverava la simulazione, per causa della quale i pagani si vedevano costretti all'osservanza dei riti giudaici.
Lo rimproverava inoltre unicamente perché tutta la condotta simulata di Pietro poteva far credere che fosse vero quanto sostenevano i Giudei, che cioè i convertiti alla fede non potessero salvarsi senza la circoncisione e senza gli altri riti, che erano prefigurazioni delle realtà future. ( Col 2,17 )
Per questo motivo dunque Paolo circoncise Timoteo, perché i Giudei e soprattutto i suoi parenti da parte di madre non avessero l'impressione che i pagani convertiti a Cristo detestassero la circoncisione come deve detestarsi l'idolatria, mentre la prima era stata comandata da Dio, l'altra invece ispirata da Satana.
Per un altro motivo invece non volle far circoncidere Tito, per non dare un appiglio a coloro i quali sostenevano per i credenti l'impossibilità di salvarsi senza la circoncisione e, per ingannare i pagani, mettevano in giro la diceria che anche Paolo avesse la stessa convinzione.
Ce lo fa capire egli stesso nel passo che dice: Ma neppure Tito, che era con me, quantunque greco, fu costretto a farsi circoncidere, per dare una lezione a certi falsi fratelli intrusi, che s'erano introdotti di nascosto tra noi al fine di spiare la nostra libertà e di ridurci in schiavitù.
A costoro non abbiamo ceduto e non ci siamo piegati nemmeno per un istante, perché la verità del Vangelo si conservasse integra per voi. ( Gal 2,3-5 )
Da questo passo appare chiaro che Paolo intuì l'inganno cui essi miravano e perciò non fece quello che aveva fatto con Timoteo, pur potendolo fare in virtù della libertà con cui aveva mostrato che quei riti non si dovevano né cercare come necessari né condannare come sacrileghi.
In questa discussione però occorre naturalmente evitare di chiamare, come fanno i filosofi, indifferenti oppure intermedie tra il bene e il male certe azioni, che non si possono catalogare né tra le azioni buone né tra i peccati.
E perché? Per non essere costretti ad affermare che l'osservanza dei riti della Legge non può essere un'azione indifferente, ma che è o buona o cattiva.
Poiché se la diremo buona, saremmo obbligati ad osservarli anche noi; se invece è cattiva, dovremmo credere che gli Apostoli li abbiano osservati non sinceramente ma fintamente.
Io però, per quanto riguarda gli Apostoli, non temerei tanto il paragone coi filosofi allorché nelle loro dissertazioni affermano qualche verità, quanto piuttosto il paragone con gli avvocati del Foro, allorché nel difendere le cause dei clienti ricorrono alla menzogna.
Ora, se perfino nella spiegazione della Lettera ai Galati s'è potuto credere conveniente introdurre il paragone tra gli Apostoli e gli avvocati per confermare la simulazione di Pietro e di Paolo, perché dovrei temere l'accostamento che tu fai ai filosofi?
Questi sono stolti non perché sia falso tutto quel che dicono, ma perché sono false molte teorie a cui dànno credito e, quando si riscontra che dicono la verità, sono estranei alla grazia di Cristo, ch'è la verità in persona.
E perché non dovrei dire che le prescrizioni degli antichi riti non sono né buone ( infatti non veniamo giustificati da essi che sono solo figure preannuncianti la grazia, dalla quale siamo giustificati ) ma neppure cattive in quanto furono ordinate da Dio come confacenti a quei tempi e a quelle persone?
La mia opinione è suffragata da un'espressione del Profeta, il quale afferma che Dio diede a quel popolo precetti non buoni. ( Ez 20,25 )
Forse proprio per questo egli non li chiamò " cattivi ", ma solo " non buoni ", cioè non tali da rendere buoni gli uomini, oppure non tali per cui, senza di essi, non si potrebbe essere buoni.
Vorrei che la tua sincera benevolenza mi facesse sapere se solo per simulazione un fedele orientale venendo a Roma digiuna in giorno di sabato, eccetto il sabato della vigilia di Pasqua; se diremo che quest'usanza è cattiva, dovremo condannare non solo la Chiesa di Roma, sebbene molte altre Chiese vicine o anche un po' distanti, dove essa si conserva ed è in vigore.
Se invece pensiamo ch'è peccato non digiunare il sabato, con quale temerarietà oseremo condannare tante Chiese orientali e una parte molto maggiore del mondo cristiano?
Saresti contento se dicessimo ch'esiste qualche pratica indifferente, che fosse ammissibile da chi volesse osservarla non per simulare, ma solo per conformarsi alla legge e alla pratica d'una comunità?
Eppure nei Libri canonici della sacra Scrittura non si trova alcun cenno di simili pratiche comandate ai Cristiani!
A più forte ragione non oserei chiamare peccaminosa una pratica che proprio in forza della fede cristiana non posso negare essere stata ordinata da Dio; so inoltre, sempre in forza della stessa fede, che la mia giustificazione non dipende da una simile pratica, ma dalla grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.
Dico dunque che la circoncisione e gli altri riti di tal genere furono dati da Dio all'antico popolo ebraico mediante il Testamento che chiamiamo Antico; essi erano unicamente simboli dei beni futuri che dovevano essere realizzati da Cristo; dopo l'arrivo di tali beni quelle prescrizioni sono rimaste solo come documenti che i Cristiani devono leggere per comprendere le profezie che li hanno preceduti e non per praticarle come se dovessimo aspettare ancora la rivelazione della fede, che quelli annunciavano come futura.
Sebbene però quei riti non dovessero essere imposti ai pagani, non dovevano tuttavia essere eliminati dalla consuetudine dei Giudei come detestabili e da condannare.
Solo in un secondo tempo e gradualmente, a poco a poco, in seguito all'intensa predicazione della grazia di Cristo, i fedeli avrebbero capito che veniamo giustificati e salvati dalla grazia e non già da quei riti, figure di beni una volta futuri, ma ormai avverati e presenti.
Così, con la chiamata al Vangelo dei Giudei viventi durante la manifestazione fisica del Signore e durante i tempi degli Apostoli, sarebbe venuta a cessare definitivamente la funzione di quelle pratiche rituali figurative; per tenerle ancora in onore sarebbe bastato non scansarle come detestabili e simili all'idolatria.
D'altronde la loro pratica non doveva continuare più oltre, per evitare che si credessero necessarie nel senso che dall'osservanza di esse dipendesse la salvezza o questa fosse impossibile senza di esse.
Così la pensavano quegli eretici, i quali, volendo essere Giudei e Cristiani allo stesso tempo, non potevano essere né Giudei né Cristiani.
Quantunque io non abbia mai avuto nulla in comune con tale opinione, ti sei degnato tuttavia di ammonirmi con la più squisita cortesia di starne in guardia.
Orbene, proprio in quell'errore era caduto Pietro, non perché vi consentisse, ma perché cadde nella simulazione per paura.
Ecco perché Paolo poté scrivere, senza dire una bugia diplomatica, d'essersi accorto che non camminava rettamente secondo la verità del Vangelo e poté dirgli con altrettanta sincerità che obbligava i pagani a praticare i riti giudaici.
A una tale pratica invece Paolo non costringeva nessuno senza finzione allorché praticava sul serio quegli antichi riti, quando era necessario, per dimostrare che non erano, di per sé, da condannare.
Egli per contro predicava senza stancarsi che la salvezza dei fedeli non dipendeva da quei riti, ma dalla grazia della fede ch'era stata rivelata; in tal modo non costringeva nessuno a sobbarcarsi a praticarli come necessari.
Io insomma credo che l'apostolo Paolo nell'osservare quelle pratiche agisse senza finzione; con tutto ciò non permetto a un Giudeo divenuto Cristiano né l'obbligo a praticare sul serio quei riti, allo stesso modo che neppure tu, per quanto pensi che Paolo agisse con simulazione, obblighi questo supposto individuo a una simulazione del genere, né gliela permetti.
Desideri per caso che sostenga anch'io che il nocciolo della questione o, meglio, della tua opinione, sta in questo: che, una volta venuto il Vangelo di Cristo, i fedeli convertitisi dal Giudaismo farebbero bene a offrire i sacrifici che offrì Paolo, a far circoncidere i figlioli, a osservare il sabato, a fare quel che fece Paolo con Timoteo e che facevano tutti i Giudei, purché agiscano con simulazione ed inganno?
Se la cosa sta così, allora noi scivoliamo non già nell'eresia di Ebione e di quelli chiamati comunemente Nazzarei o in qualsiasi altra vecchia eresia della medesima specie, ma in non so quale altra nuova eresia, tanto più dannosa perché consisterebbe non tanto nell'errore, quanto nell'intenzione premeditata di ingannare.
Può darsi però che, per giustificarti, tu mi risponda che gli Apostoli sono encomiabili perché in quell'occasione finsero di praticare quei riti al fine di non scandalizzare i deboli, ch'erano molto numerosi tra i convertiti dal Giudaismo e ancora non capivano che erano ormai da rigettare, mentre adesso ormai la dottrina della grazia di Cristo è sicuramente radicata in tante nazioni e confermata in tutte le Chiese cristiane mediante la lettura della Legge e dei Profeti; che se questi vengono letti in chiesa, lo si fa solo per far comprendere la funzione di quei riti e non perché vengano praticati; che, se uno volesse praticarli solo per finta, sarebbe un pazzo!
Perché allora non m'è permesso di dire che l'apostolo Paolo e gli altri Cristiani ortodossi osservarono in determinate circostanze e senza finzione quei vecchi riti per metterne in risalto il significato, per evitare che quelle cerimonie piene di simbolismo profetico e già praticate dai loro antenati, ch'erano attaccatissimi alla religione, venissero considerate dai posteri come sacrileghe e diaboliche?
Al sopraggiungere della fede, già preannunciata dagli antichi riti e rivelata poi dalla morte e dalla risurrezione del Signore, esse avevano certamente perduta, in certo qual modo, la loro funzione vitale: erano come cadaveri di parenti, che dovevano anch'essi, per così dire, essere portati alla sepoltura non con simulato onore, ma con religioso rispetto; non dovevano insomma essere abbandonati all'improvviso e neppure essere gettati in pasto agli oltraggi dei nemici, come a dei cani arrabbiati.
Adesso quindi, se un Cristiano, anche se proveniente dal Giudaismo, avesse intenzione di praticarli come per il passato, dissotterrando per così dire dei carboni ormai spenti, non agirebbe più come uno che accompagni o porti religiosamente una salma alla sepoltura, ma come un sacrilego il quale violi una tomba.
Ammetto senz'altro che la mia lettera contiene un passo in cui affermo che Paolo s'era adattato a praticare certi riti sacri dei Giudei quand'era già apostolo di Cristo solo al fine di far capire che non erano dannosi per quelli che li volevano praticare con le disposizioni d'animo con cui li avevano ricevuti nella Legge dai loro padri, ma debbo dichiararti pure di non avere aggiunto espressamente la precisazione: " Solo, beninteso, nei primi tempi in cui fu rivelata la grazia della fede cristiana ".
La pratica di quei riti infatti non poteva essere dannosa in quel tempo.
In seguito però, passato un certo periodo, quei riti dovevano essere abbandonati da tutti i Cristiani, perché fosse possibile distinguere ciò che Dio aveva prescritto al suo popolo per mezzo di Mosè da ciò che aveva istituito lo spirito immondo nei templi dei demoni.
Sono io quindi che debbo essere incolpato di negligenza per non aver aggiunto quella precisazione, e non già tu per il tuo rabbuffo.
A parte ciò, molto tempo prima che io ricevessi la tua lettera, in un mio scritto contro Fausto, il manicheo, avevo spiegato, sia pure assai brevemente, quel medesimo passo; lì non avevo tralasciato quella precisazione.
Se la tua Benignità vorrà degnarsi, potrai leggerlo da te stesso; d'altronde, che quella precisazione io l'abbia dettata precedentemente, te lo potranno garantire - se e quando lo vuoi - i nostri carissimi fratelli per mezzo dei quali t'invio adesso la presente.
Tuttavia riguardo alla mia convinzione, credi pure a me; parlo davanti a Dio e te lo chiedo per il diritto della carità: non ho mai pensato che i Cristiani convertiti anche presentemente dal Giudaismo abbiano l'obbligo o esista alcuna scusa che renda lecito praticare quei vecchi riti con qualsivoglia intenzione o disposizione d'animo.
Il mio pensiero su quel passo di Paolo è stato sempre il medesimo fin da quando ho conosciuto le sue lettere; allo stesso modo neppure tu pensi che qualcuno possa fingere di praticare quei riti al giorno d'oggi anche se credi che gli Apostoli li praticassero per finta.
Ebbene, tu sostieni la tesi contraria e, nonostante - come scrivi - le proteste di tutti, esprimi francamente l'opinione che i riti giudaici sono dannosi e letali per i Cristiani e che qualsiasi Cristiano il quale li ha osservati, provenga egli dal giudaismo o dal paganesimo, è precipitato nel baratro del demonio.
Allo stesso modo confermo anch'io in pieno questa tua dichiarazione, anzi aggiungo che colui il quale ha osservato quei riti, provenga egli dal giudaismo o dal paganesimo, è precipitato nel baratro del demonio, l'abbia fatto con convinzione oppure con finzione.
Che vuoi di più? Ma come tu fai distinzione tra la simulazione degli Apostoli e l'applicazione della loro condotta al tempo presente, così io faccio distinzione tra la condotta sincera tenuta allora dall'apostolo Paolo nel praticare tutti quei riti e l'osservanza dei medesimi al giorno d'oggi, anche se non sia affatto finta, per il motivo che, se allora essa era approvabile, adesso è detestabile.
È vero che sta scritto: La Legge e i Profeti arrivano fino a Giovanni ( Lc 16,16 ) e: I Giudei cercavano di uccidere Cristo perché non solo violava il sabato, ma dichiarava pure d'essere figlio di Dio facendosi uguale a Dio ( Gv 5,18 ) ed anche: Abbiamo ricevuto grazia su grazia ( Gv 1,16 ) come pure: La Legge è stata data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità è stata procurata da Gesù Cristo; ( Gv 1,17 ) è vero pure che Dio, per mezzo di Geremia, promise che avrebbe dato un nuovo patto alla casa di Giuda, diverso da quello stretto coi loro padri; ( Ger 31,31 ) eppure, nonostante tutto questo, non posso credere che il Signore in persona si fosse fatto circoncidere dai genitori solo per finta!
Ammesso pure che, essendo piccino per l'età, non potesse evitare la circoncisione, non penso tuttavia che agisse con finzione quando al lebbroso - la cui guarigione era dovuta non già alle prescrizioni date per mezzo di Mosè ma all'ingiunzione di Cristo in persona - egli disse: Va' ad offrire per te il sacrificio prescritto da Mosè in testimonianza per il popolo. ( Mc 1,44; Lv 14,2-32 )
Così non agì neppure per inganno quando andò alla festa, anzi cercava tanto poco di mettersi in mostra davanti alla gente, che vi andò di nascosto e non già in modo palese. ( Gv 7,10 )
È bensì vero che lo stesso Apostolo affermò: Ecco, proprio io, Paolo, vi dico che, se vi farete circoncidere, Cristo non vi sarà di alcun giovamento. ( Gal 5,2 )
Ingannò egli dunque Timoteo facendo in modo che Cristo non gli fosse d'alcun giovamento?
O si deve forse pensare che quel rito non gli apportò alcun danno perché fu solo una simulazione?
Paolo però non scrisse né disse: " Se vi farete circoncidere sinceramente " e neppure: " per finta ", ma senza alcuna eccezione: Se vi farete circoncidere, Cristo non vi sarà d'alcun giovamento.
Ebbene, come tu pretendi far prevalere la tua tesi sottintendendo in questo passo " a meno che non sia per finta ", così neppure la mia è una pretesa sfacciata, se esigo da te il permesso d'intendere la frase: Se vi farete circoncidere come indirizzata a coloro che volevano farsi circoncidere credendo di non potersi salvare con la grazia di Cristo.
Insomma chi in quel tempo si faceva circoncidere con questa disposizione d'animo, con questa volontà e con questa intenzione, non poteva trarre alcun giovamento da Cristo.
Lo dice apertamente pure in un altro passo: Poiché, se la giustificazione si ottiene per mezzo della Legge, allora Cristo è morto inutilmente. ( Gal 2,21 )
Questa verità è proclamata pure nel passo che mi hai citato tu stesso: Non avete più nulla da spartire con Cristo voi che cercate la giustificazione per mezzo della Legge; siete caduti in disgrazia. ( Gal 5,4 )
Paolo dunque condanna quelli che credevano d'ottenere la giustificazione per mezzo della legge, non quei tali che osservavano questi riti per dare gloria a Dio, dal quale erano stati prescritti, e comprendevano sia lo scopo per cui erano stati ordinati, cioè quello di preannunciare la realtà futura, sia il tempo per il quale dovevano durare.
A ciò si riferisce pure l'altra affermazione dell'Apostolo: Se siete guidati dallo spirito, non siete più sotto la Legge. ( Gal 5,18 )
Di qui si conclude, come tu ben capisci, che non ha lo Spirito Santo chi è sotto la Legge, e non lo ha non solo apparentemente, come - secondo te - la pensavano i nostri padri, ma effettivamente, come la penso io!
Mi pare inoltre un problema importante quello di sapere in che senso l'Apostolo chiama colpa l'essere " sotto la Legge ".
Secondo me, egli, esprimendosi così, non ha di mira la circoncisione o i sacrifici che a quel tempo venivano compiuti dagli antichi Ebrei e al presente i Cristiani non compiono più, e neppure pensava ad altre cerimonie di tal genere, ma proprio al precetto espresso dalla Legge con le parole: Non desiderare. ( Es 20,17; Dt 5,20; Rm 7,7.12 )
Su ciò siamo d'accordo: i Cristiani debbono certamente osservarlo e la predicazione evangelica deve metterlo in luce sopra ogni altro.
Paolo, insomma, afferma che santa è la Legge e santo e giusto e buono è il precetto, ( Rm 7,12 ) quindi soggiunge: È diventata dunque una cosa buona la causa di peccato per me? Per nulla affatto!
Ma è stato il peccato a servirsi del bene per darmi la morte e s'è servito del comandamento per divenire la quintessenza del peccato. ( Rm 7,13 )
Quanto egli afferma qui, che cioè il peccato, servendosi del comandamento, è divenuto la quintessenza del peccato, lo esprime anche altrove dicendo: Subentrò poi la Legge, perché il peccato fosse più grave.
Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. ( Rm 5,20 )
In un altro passo, dopo aver parlato poco prima dei piano divino che giustifica, Paolo, ponendosi per così dire una domanda, dice: Ma perché allora la Legge? e tosto risponde: Essa fu data in seguito a motivo della prevaricazione, finché non venisse il Discendente, al quale era stata fatta la promessa. ( Rm 3,19 )
Egli dunque afferma che si trovano in maniera condannabile sotto la Legge coloro i quali sono resi colpevoli proprio dalla Legge in quanto non la osservano e, non comprendendo il beneficio della grazia, sono pieni d'orgogliosa arroganza e presumono d'osservare i comandamenti di Dio come se ciò dipendesse dalle proprie forze.
Ora, invece, la pienezza della Legge è la carità; ( Rm 13,10 ) ma la carità è diffusa nei nostri cuori non da noi stessi, ma dallo Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )
Per spiegare però a sufficienza questo argomento, sarebbe necessario, forse, un discorso troppo prolisso, anzi un vero e proprio trattato.
Se, insomma, il comandamento della Legge Non desiderare, qualora la debolezza umana non sia aiutata dalla grazia di Dio, rende colpevole chi è soggetto ad essa e serve a condannare il prevaricatore, piuttosto che a liberare il peccatore, quanto meno avrebbe potuto dare la giustificazione alcuno di quei riti prescritti solo per la loro funzione di simboli, quali la circoncisione e le altre pratiche, che, diffondendosi sempre più la rivelazione della grazia, era stato necessario abolire?
Ma non per questo esse dovevano essere scansate come i sacrilegi diabolici dei pagani, anche quando era poi cominciata a manifestarsi la grazia, ch'era stata annunciata da quelle figure.
Al contrario tali riti dovevano essere permessi ancora per un po' di tempo, soprattutto ai fedeli provenienti dal popolo al quale erano stati dati.
Ma poi, una volta ch'erano stati, per così dire, portati onorevolmente alla sepoltura, dovevano essere definitivamente abbandonati dai Cristiani.
Che significa poi, per favore, quella frase: " Non per diplomazia, come pensavano i nostri padri "?
Essa infatti o indica quel ch'io chiamo bugia ufficiosa - che sarebbe come una diplomazia consistente nel mentire in modo onesto - o non vedo assolutamente cosa possa indicare; a meno che il termine aggiunto di " diplomazia " faccia in modo che una bugia non sia più bugia!
Ma se ciò è assurdo, perché allora non dici chiaramente che è lecito difendere una bugia ufficiosa?
È forse il termine a farti impressione, dato che il termine " ufficioso " non è molto usato nei libri ecclesiastici?
Eppure non ne ebbe paura il nostro Ambrogio, che intitolò De Officiis alcuni suoi libri ripieni di utili norme.
O forse pensi che se uno mentisce " ufficiosamente " è da condannare, mentre se lo fa " diplomaticamente " è da approvare?
Dimmi, ti prego, se mentisce chi pensa così quando sceglie l'una delle due alternative poiché anche a questo proposito c'è la grande questione se a un galantuomo o, peggio, a un Cristiano sia lecito mentire.
Non è stato loro detto: Il vostro " sì " sia " sì " e il " no " " no ", per non essere condannati? ( Gc 5,21; Mt 5,37 )
Non sono loro che sentono dire con fede: Tu manderai in perdizione tutti i menzogneri? ( Sal 5,7 )
Ma, come dicevo, questa è un'altra questione, e piuttosto importante.
In fatto di menzogna, chi la pensa così, scelga pure la forma che preferisce, purché si creda fermamente e si sostenga questa tesi: gli autori delle sacre Scritture, e in modo particolare gli autori dei Libri canonici, sono assolutamente esenti da menzogne; poiché non si può credere che ai dispensatori di Cristo - dei quali è detto: Orbene dagli amministratori si richiede che ciascuno sia trovato fedele ( 1 Cor 4,2 ) - sia lecito mentire nel dispensare la verità, quasi che la fedeltà alle cose importanti da loro apprese riguardi solo loro stessi.
Lo stesso termine " fede " non è forse chiamato, in latino, fides dal fatto che si mantiene ciò che si dice?
Ebbene, quando si mantiene ciò che si dice, non c'è alcuna possibilità di mentire.
Quel fedele dispensatore, ch'era l'apostolo Paolo, ci dà perciò senza dubbio prova di veridicità nei suoi scritti, perché dispensatore di verità e non di falsità.
Ecco perché dice la verità quando dice d'essersi accorto che Pietro non procedeva rettamente secondo la verità del Vangelo e d'esserglisi perciò opposto apertamente, perché obbligava i pagani a osservare i riti giudaici. ( Gal 2,14 )
Pietro d'altronde accolse religiosamente, con santa e salutare umiltà, l'utile riprensione che Paolo gli aveva fatta con la franchezza della carità, offrendo ai posteri l'esempio di non prendercela a male quando eventualmente, deviando dal retto sentiero, fossimo corretti anche da un inferiore; esempio, il suo, più raro e più santo di quello datoci da Paolo d'avere il coraggio di opporci coraggiosamente ai superiori per difendere la verità del Vangelo, salva sempre la carità fraterna.
Certo: è meglio non scostarsi per nulla dal retto sentiero, ma è molto più da ammirare e da lodare chi accoglie volentieri la correzione, che non chi corregge coraggiosamente la deviazione d'un altro.
È quindi lodevole sia la giusta libertà di Paolo sia la santa umiltà di Pietro, ma era questa, secondo il mio modesto parere, che doveva essere difesa più energicamente contro le calunnie di Porfirio, anziché offrirgli un'occasione più propizia di denigrare; egli sarebbe stato più mordace nell'accusare i Cristiani, se avesse potuto tacciarli di falsità o nello scrivere i loro libri o nel presentare i misteri del loro Dio.
Mi chiedi di presentarti almeno un commentatore, del quale io abbia seguito l'opinione su questo punto controverso, mentre tu hai fatto il nome di tanti che ti hanno preceduto nell'opinione che sostieni.
Mi chiedi pure di lasciarti libero di sbagliare in compagnia di autori tanto qualificati nel caso che io volessi criticare il tuo errore.
Ti confesso che di tali autori non ne ho letto neppure uno, ma di quattro tra questi sei o sette tu pure infirmi l'autorità, poiché dici che il Laodiceno, di cui taci il nome, è uscito non molto tempo fa dalla Chiesa, e chiami vecchio eretico Alessandro e, inoltre, come leggo nei tuoi opuscoli più recenti, Origene e Didimo sono da te criticati piuttosto aspramente né su questioni di poca importanza sebbene ad Origene tu abbia dato in precedenza lodi eccessive.
Penso quindi che neppure tu ti rassegneresti a sbagliare con questi tali, anche se ti sei espresso così perché credi che sul tal punto essi non abbiano errato.
Infatti chi vorrebbe sbagliare in compagnia di chicchessia?
Ne restano dunque tre: Eusebio di Emesa, Teodoro d'Eraclea e Giovanni, da te ricordato poco dopo, che fino a qualche tempo fa ha governato come vescovo la Chiesa di Costantinopoli.
D'altronde, se tu volessi sapere da me o ricordarti da te stesso quale fosse l'opinione del nostro Ambrogio e parimenti del nostro Cipriano su questo punto, potresti renderti conto che neppure a me sono mancati autori da seguire nella tesi che sostengo.
Come però ho affermato poco prima, questa mia dipendenza la riservo unicamente ai Libri canonici della sacra Scrittura, che io seguo ispirandomi a questa norma: non dubito assolutamente che tali autori abbiano commesso alcun errore e che nulla abbiano scritto allo scopo d'ingannare.
Dovrei dunque cercare un terzo autore in modo da contrapporne anch'io ai tuoi tre?
Penso che non mi sarebbe difficile trovarlo, se le mie letture fossero state più numerose.
Comunque, al posto di tutti questi, anzi al di sopra di tutti questi, mi viene in soccorso l'apostolo Paolo in persona; in lui trovo rifugio, a lui mi appello contro tutti i commentatori dei suoi scritti che la pensano diversamente; a lui mi rivolgo direttamente, lo interpello e lo interrogo per sapere se quanto scrisse ai Galati, ( Gal 2,14 ) d'essersi cioè accorto che Pietro non procedeva rettamente secondo la verità del Vangelo e d'essersi opposto a lui apertamente, perché con la sua condotta simulata obbligava i pagani a seguire i riti giudaici, lo scrisse in modo veridico oppure se mentì per non so quale diplomatica finzione.
E che sento rispondermi? Poco prima, proprio all'inizio del racconto che sta facendo, mi grida in tono di sacro giuramento: Quanto vi scrivo - Dio m'è testimonio - non è una menzogna. ( Gal 1,20 )
Mi perdonino tutti quelli che hanno un l'opinione diversa, ma per conto mio preferisco credere a un Apostolo sì eminente quando in una sua lettera fa un giuramento per accreditarla, piuttosto che a un esegeta, dotto quanto si voglia, che commenta una lettera non sua.
E neppure temo che mi si dica che difendo Paolo negando che simulasse l'errore dei Giudei e affermando che fosse caduto realmente nel loro errore.
Non poteva infatti neppure simulare quell'errore lui che con franchezza d'apostolo, conveniente a quel tempo, col praticarli quando era necessario, non faceva che mettere in risalto quei vecchi riti, istituiti non dall'astuzia di Satana, ma dalla Provvidenza di Dio, perché fossero figure preannunciatrici delle realtà future.
E neppure era caduto in quell'errore dei Giudei lui che non solo sapeva, ma predicava pure, senza stancarsi e con energia, che nell'errore erano quanti pensavano che quei riti dovessero imporsi anche ai pagani o li giudicavano necessari alla giustificazione dei fedeli, a qualunque stirpe essi appartenessero.
Dicevo pure che Paolo si fece giudeo coi Giudei e pagano coi pagani, non per agire con l'astuzia del bugiardo, ma per l'intimo sentimento che lo portava a compatire.
Ho però l'impressione che tu non abbia considerato attentamente il modo come mi sono espresso o forse sono stato io piuttosto a non spiegarmi con sufficiente chiarezza.
In realtà io mi sono espresso non già nel senso che Paolo abbia praticato quei riti solo per finta e per compassione, ma in quest'altro senso: come non simulò nel conformarsi ad alcune usanze giudaiche, così non simulò neppure nel conformarsi ad alcune usanze pagane nei casi che tu pure hai ricordati; a questo proposito debbo confessarti, non senza gratitudine, che mi sei venuto in aiuto.
Ecco: in una mia lettera t'avevo chiesto di spiegarmi come poteva intendersi che Paolo si fosse fatto come un giudeo coi Giudei per aver osservato solo fintamente i riti dei Giudei, dato che poi si fece pure pagano coi pagani senza però praticare neppure per finta i sacrifici dei pagani.
Tu m'hai risposto che si fece pagano coi pagani perché ammise nella fede di Cristo gl'incirconcisi e permise pure d'usare indifferentemente dei cibi condannati dai Giudei.
Orbene, io chiedo: agì forse con simulazione anche in questo caso?
Poiché, se tale ipotesi è quanto mai assurda e falsa, le cose, per conseguenza, non stanno diversamente per quei riti coi quali si conformava alle usanze dei Giudei con prudente franchezza, non costretto cioè come uno schiavo o, ciò che sarebbe più indegno, usando una diplomazia d'inganno anziché di lealtà.
Infatti per tutti i fedeli e per tutti quelli che hanno conosciuto la verità - lo attesta egli stesso, salvo che non inganni pure in questo punto - ogni creatura di Dio è buona, e niente è da disprezzare se preso con rendimento di grazie. ( 1 Tm 4,4 )
Per lo stesso Paolo dunque, non solo in quanto uomo, ma pure come dispensatore fedelissimo, che non solo conosceva, ma insegnava pure la verità, ogni creatura di Dio - anche in fatto di cibi - era buona, non simulatamente, ma realmente.
E perché mai, allora, mentre non praticò neppure per finta alcuno dei riti religiosi e delle cerimonie dei pagani - mentre al contrario il suo pensiero e il suo insegnamento sui cibi e sulla circoncisione rispondevano a verità - perché mai, ripeto, si fece come un pagano tra i pagani e non avrebbe potuto farsi giudeo tra i Giudei, se non fingendo i riti religiosi dei Giudei?
Perché mai riserbò a un innesto d'ulivo selvatico il ministero dell'autentica fede, ( Rm 11,17 ) mentre sui rami naturali cresciuti dall'interno dell'albero stesso e non aggiunti dall'esterno avrebbe dovuto stendere un non so qual velo di diplomatica simulazione?
Perché mai, fattosi come un pagano tra i pagani, insegna ciò che pensa e agisce come pensa, mentre, fattosi come un giudeo fra i Giudei, una cosa ha nel cuore e un'altra ne esprime a parole, a fatti e per iscritto?
Inammissibile una simile interpretazione!
La realtà è tutt'altra: sia verso gli uni che verso gli altri egli sentiva un debito di carità sgorgante da un cuore puro, da una coscienza retta e da una fede senza simulazione. ( 1 Tm 1,5 )
Ecco in qual modo poté farsi tutto a tutti per salvare tutti, ( 1 Cor 9,22 ) non con la scaltrezza di chi mentisce, ma con l'affetto di chi compatisce, non facendo cioè finta di commettere tutti i mali degli uomini, ma procurando con premura una medicina di misericordia ai mali di tutti gli altri come se quei mali fossero suoi.
Quando perciò non rifiutava di praticare pure lui i riti sacri del Vecchio Testamento, non ingannava mosso dall'amore misericordioso; il suo non era affatto un inganno; egli al contrario si comportava in quel modo al fine di mettere in risalto la santità di quei riti - ch'erano stati dati e ordinati dal Signore Iddio per un tempo determinato - e li distingueva dai riti sacrileghi dei pagani.
Paolo inoltre si faceva giudeo coi Giudei non con la scaltrezza di chi mentisce, ma con l'amore di chi compatisce; e quando lo faceva?
Quando voleva liberarli dall'errore per cui si rifiutavano di credere in Cristo o pensavano di potersi purificare dai loro peccati e ottenere la salvezza per mezzo dei sacrifici compiuti dai loro sacerdoti o con l'osservanza delle antiche cerimonie: e lo faceva come se lui stesso si trovasse prigioniero di quell'errore.
In tal modo egli amava davvero il prossimo come se stesso e faceva agli altri quel che avrebbe voluto fosse fatto a lui, se si fosse trovato nella stessa necessità.
Proprio dopo avere inculcato questo precetto, il Signore aveva aggiunto: Poiché questa è tutta la Legge e i Profeti. ( Mt 22,40 )
Questo amore di compassione Paolo lo comanda nella stessa lettera ai Galati, quando dice: Anche se uno fosse sorpreso in qualche mancanza, voi che siete spirituali correggetelo con spirito di dolcezza, badando bene a te stesso perché tu pure non sia tentato. ( Gal 6,1 )
Lo vedi dunque se non ha detto: " Diventa come lui per salvarlo "?
Ma non certo facendo finta di commettere lo stesso peccato o facendogli credere falsamente d'averlo commesso, ma per capire - nel considerare la colpa dell'altro - che cosa potrebbe accadere a uno.
In tal modo si può misericordiosamente venire in aiuto d'un altro, come si vorrebbe essere aiutati dagli altri, usando cioè non la scaltrezza di chi mentisce, ma l'amore di chi compatisce.
Ecco in qual modo Paolo, per salvare tutti, si fece tutto a tutti ( 1 Cor 9,22 ) col giudeo, col pagano, con qualunque altro che si trovasse in qualche errore o peccato, non fingendo quello che non era, ma usando compassione, perché anch'egli si sarebbe potuto trovare in quella condizione, considerando che anch'egli era un uomo.
Se non ti dispiace, considera, per favore, te stesso solo per un poco; te stesso, dico, nei miei confronti.
Ricorda o rileggi - se ancora ne conservi la copia - le parole della tua lettera più breve, di quella cioè fattami recapitare per mezzo di Cipriano, nostro fratello e ora pure mio collega; considera con quanto sincero e fraterno affetto pieno di carità, dopo avermi rimproverato per qualche torto commesso verso la tua persona, soggiungevi: " Ciò significa offendere l'amicizia, violarne le leggi.
Cerchiamo di non dar l'impressione di stare a bisticciare come dei ragazzi, fornendo così motivo alle chiacchiere dei nostri rispettivi fautori o detrattori ".
Ho la sensazione che queste parole le hai dettate non solo con l'anima, ma pure mosso dalla bontà, con l'intenzione di rendermi un servizio.
Aggiungi infine un'espressione che si sarebbe capita anche se fosse rimasta sottintesa: " Ti scrivo ciò - dici - perché desidero nutrire per te un affetto veramente schietto e cristiano e non coltivare nell'animo sentimenti diversi da quelli ch'esprimo con le labbra ".
O uomo santo! Anch'io ti amo ( Dio mi vede nell'anima ) con sincero affetto.
I sentimenti che hai scritto a chiare note e che non dubito tu abbia voluto esternarmi nella tua lettera, sono gli stessi che l'apostolo Paolo - ne sono convinto - ha manifestato certamente non per una persona particolare, ma per i Giudei, per i Greci, per tutti i pagani, suoi figli, da lui generati nel Vangelo, che continuava a generare soffrendo come una madre che dà alla luce la sua creatura; ( Gal 4,19 ) penso altresì che tali sentimenti li abbia espressi pure per tante migliaia di fedeli Cristiani che sarebbero venuti in seguito.
Per tutti questi egli scrisse quella lettera, affinché ritenessero bene in mente i suoi ammonimenti, senza provare nel suo animo sentimenti per nulla diversi da quelli ch'esprimevano le sue labbra.
Sono certo che tu pure, come avrei fatto io stesso, hai agito non già con la scaltrezza di chi mentisce, ma con l'affetto di chi compatisce, quando hai pensato di non lasciarmi nella colpa in cui, secondo te, io ero caduto, come non avresti voluto esserci lasciato nemmeno tu, se vi fossi caduto tu stesso.
Mentre perciò ti esprimo la mia gratitudine per la benevolenza dimostratami, ti prego pure di non adirarti con me, se ti ho messo al corrente della cattiva impressione che mi hanno suscitato alcune idee espresse in certi tuoi scritti.
Ti spiego: vorrei che tutti agissero con me allo stesso modo che ho agito io con te, in modo cioè che qualunque cosa fosse, a loro modo di vedere, riprovevole nei miei scritti, non se la tenessero nascosta malignamente in cuore né la criticassero parlando con altri, senza farne cenno a me; poiché sono senz'altro convinto che proprio così si offende l'amicizia e si violano le norme dei buoni rapporti tra due persone.
Non so infatti come si possano considerare amicizie cristiane quelle, nelle quali si dimostra più valido il proverbio popolare che dice: La condiscendenza procura amici, la sincerità genera odio1 anziché il detto dell'Ecclesiastico: Sono indizio di maggior fedeltà le ferite di chi ti vuol bene, che i falsi baci di chi ti vuol male. ( Pr 27,6 )
Ebbene, ai nostri cari amici, che seguono con grande e sincero interesse i nostri lavori, cerchiamo piuttosto di far capire con la maggior premura possibile - e lo sappiano - che pure tra le persone più care può avvenire che, nel discutere insieme le nostre opinioni su qualche argomento, si manifestino delle disparità di vedute senza tuttavia che ne soffra la carità, anzi senza che la sincerità, uno dei requisiti dell'amicizia, generi odio sia quando è vera l'opinione opposta, sia quando un'altra opinione venga esposta ( qualunque valore essa abbia ) con sincerità d'animo senza nascondere nella mente il contrario di quello che si esprime con le labbra.
Pertanto i nostri fratelli, che vivono con te e che tu attesti essere " vasi " di Cristo, si convincano di ciò: non è dipeso per nulla dalla mia volontà che la mia lettera sia capitata nelle mani di molti altri prima di giungere nelle tue essendone tu il destinatario e di ciò sono veramente costernato.
Sarebbe troppo lungo e, se non m'inganno, anche superfluo raccontare come ciò sia potuto accadere, poiché basterebbe credere, seppure mi si dà un po' di credito, che il fatto è accaduto senza la minima intenzione che si suppone; il disguido è avvenuto in modo del tutto estraneo alla mia volontà o disposizione o complicità, anzi perfino alla mia immaginazione.
Se poi non si crede quanto affermo al cospetto di Dio, non so più cosa fare.
Per parte mia, comunque, non penso minimamente che siano essi a insinuare malignamente tali sospetti alla tua Santità per fomentare inimicizia tra noi due - la misericordia del Signore nostro Dio la tenga lontana da noi! - ma, anche senza intenzione di nuocere, è facile sospettare in un altro dei vizi propri dell'umana natura!
È giusto ad ogni modo ch'io la pensi così sul conto di essi, se sono " vasi " di Cristo destinati a usi non ignobili, ma nobili, disposti da Dio nella sua grande casa per ogni opera buona. ( 2 Tm 2,20s )
Se poi, anche dopo questa mia dichiarazione, ammesso pure che la verranno a conoscere, volessero continuare a fare come prima, tu pure comprendi quanto agirebbero scorrettamente.
Riguardo a quanto ti scrissi, di non avere cioè inviato a Roma alcuno scritto contro di te, è vero.
Te lo scrissi, perché non potevo identificare il termine " libro " con quello di " lettera " e pensavo di conseguenza che tu avessi sentito non so quali chiacchiere non rispondenti affatto alla realtà; tanto più che quella lettera l'avevo mandata non già a Roma, sebbene a te né pensavo che fosse contro di te, sapendo d'averla scritta con la sincerità propria dell'amicizia, sia per darti un'ammonizione sia per ricevere una correzione da te.
Orbene, a parte le persone che convivono con te, ti scongiuro, in nome della grazia da cui siamo stati redenti; non pensare che tutte le buone doti a te concesse dalla bontà del Signore io le abbia ricordate nella mia lettera per prenderti nei lacci dell'adulazione.
Se però t'ho fatto qualche torto, perdonami.
Riguardo alla leggenda di non so quale poeta, che t'avevo menzionato più da sventato che per darmi arie di letterato, non applicarla a te più di quanto intendevo dire.
Avevo soggiunto subito dopo che dicevo così non perché tu recuperassi la vista spirituale, dicevo anzi: " Sono ben lontano dal pensare che tu l'abbia perduta, ma perché faccia attenzione a conservarla sana e vigilante ".
Pensavo insomma di accennare a quella leggenda solo per via della palinw/divan [ ritrattazione ] che dovremmo cantare come quel poeta, qualora avessimo scritto qualcosa da distruggere successivamente con un altro scritto; non perché attribuissi o temessi per il tuo spirito la cecità di Stesicoro!
È proprio di questo che ti voglio pregare: non aver paura di correggermi quando t'accorgi che ne avessi bisogno.
Sebbene, infatti, a causa dei diversi titoli delle dignità ecclesiastiche, ormai introdotti nell'usanza della Chiesa, l'episcopato sia un grado maggiore del presbiterato, è pure vero tuttavia che, sotto molti aspetti, Agostino è inferiore a Girolamo, come è pur vero, d'altra parte, che una correzione fatta da uno qualsiasi, anche inferiore, non si deve né schivare né disdegnare!
Riguardo poi alla tua traduzione, mi hai ormai convinto dell'utilità che ti sei proposto di raggiungere nel tradurre le Sacre Scritture dal testo ebraico, ch'era quello di mettere in risalto le parole saltate o alterate dai Giudei.
Ti chiedo tuttavia d'indicarmi di quali Giudei si tratta.
Sono forse quelli che avevano fatto la versione prima della venuta del Signore?
In tal caso chi sono stati o chi di essi è stato?
O sono stati forse solo quelli della generazione posteriore, che si può pensare abbiano tolto o alterato qualche passo nei manoscritti greci allo scopo di non vedersi confutati senza scampo da quelle prove riguardanti la verità della fede cristiana?
Non riesco a immaginare per qual motivo avrebbero dovuto fare una simile cosa i traduttori della generazione precedente!
Mandami inoltre la tua versione dei Settanta; non sapevo ancora che tu l'avessi già pubblicata.
Desidero pure leggere il tuo libro "il metodo ideale per tradurre ", a cui tu stesso accennavi.
Vorrei poi sapere un'altra cosa: com'è possibile a un traduttore mettere d'accordo le sue conoscenze delle lingue originali con le opinioni congetturali degli espositori sistematici delle Scritture.
È infatti inevitabile che costoro, anche se tutti professano la retta e unica fede, tirino fuori opinioni diverse, data l'oscurità di molti passi, sebbene tale varietà d'opinioni non sia in contrasto con l'unità della fede; così pure uno stesso commentatore, pur restando nell'ambito della medesima fede, può dare spiegazioni diverse d'un identico passo, cosa questa consentita dalla stessa oscurità del testo.
Desidero inoltre la versione del testo dei Settanta, allo scopo di sbarazzarmi, per quanto è possibile, di tutte le traduzioni difettose dei Latini, chiunque siano coloro che hanno tentato quest'impresa.
Quanti poi pensano ch'io sia geloso dei tuoi utili lavori, capiscano una buona volta ( se pur sarà possibile ) perché non voglio che venga letta nelle chiese la tua versione dall'ebraico: non voglio ch'essa venga introdotta come una novità contro l'autorità dei Settanta e si vengano in tal modo a turbare con un grave scandalo i fedeli Cristiani.
Le loro orecchie e la loro mente sono infatti abituate a sentire quella versione già approvata dagli Apostoli.
Ecco anche perché preferirei che quel virgulto di cui si parla in Giona, ( Gn 4,6 ) anche se il termine ebraico non corrisponde né ad " edera " né a " zucca " o non so cos'altro che si tiene diritto sul tuo stelo senza bisogno d'appoggiarsi ad altro sostegno, preferirei, ripeto, che in tutte le versioni latine si leggesse " zucca".
Poiché penso che non senza motivo i Settanta abbiano usato questo termine, ma perché si trattava di qualcosa di simile.
Penso d'aver dato una risposta esauriente, anzi più che esauriente alle tue lettere, due delle quali recapitatemi da Cipriano e una da Fermo.
Fammi sapere in una tua risposta che cosa te ne pare perché sia d'insegnamento sia a me che ad altri.
Io poi da parte mia starò più attento, con l'aiuto di Dio, affinché la lettera che ti sto scrivendo arrivi a te prima che ad altre persone, dalle quali poi potrebbe esser fatta circolare in un raggio troppo largo.
T'assicuro che nemmeno io vorrei che accadesse anche a me, per le lettere che tu mi scrivi, quanto è accaduto delle mie che t'ho scritto e di cui hai avuto pienamente ragione di lamentarti con me.
Vorrei comunque che nelle nostre relazioni non ci accontentassimo soltanto della carità ma cercassimo pure la franchezza dell'amicizia; tu da parte tua e io da parte mia non dobbiamo tacerci quello che nelle nostre lettere può causarci turbamento, ma facciamolo con l'intenzione ispirata dall'amore fraterno, che non dispiace agli occhi di Dio.
Se però tu pensi che tra noi ciò non possa avverarsi senza che venga offeso con grave danno il Suo amore, lasciamo andare.
La carità che vorrei mi stringesse a te è certamente di grado superiore, ma è meglio la carità di grado inferiore piuttosto che non averne per nulla!
Indice |
1 | Terenzio, Andr. 68 |