Lettere |
Scritta poco dopo la precedente.
Agostino risponde a Severo, sostenendo l'infondatezza delle sue lodi, anche se sincere ( n. 1-4 ).
Chiede infine venia per non poter inviare lettere più lunghe ( n. 5-6 ).
A Severo beatissimo e dolcissimo signore, venerato e amatissimo fratello e collega d'episcopato, e ai fratelli che sono con lui, Agostino e i fratelli che sono con lui augurano salute nel Signore
La mia lettera, che ti è stata recapitata dal carissimo figlio e collega di ministero, il diacono Timoteo, era già pronta per lui al momento in cui stava per partire, quando arrivarono da noi con la tua i nostri figli Quodvultdeus e Gaudenzio.
È successo quindi che Timoteo dopo il loro arrivo si è trattenuto presso di noi solo per brevissimo tempo, dando l'impressione di essere sul punto di partire da un momento all'altro; ecco perché non poté recapitarti la mia risposta.
Ma quand'anche te l'avessi inviata per mezzo di lui, sarei rimasto ancora in debito con te.
In realtà anche adesso, pur dopo averti risposto, mi pare di essere ancora in debito, non dico della carità di cui siamo tanto più debitori quanto più la dispensiamo e di cui l'Apostolo dimostra che siamo sempre debitori, quando dice: Non rimanete verso alcuno debitori se non di amarvi a vicenda; ( Rm 13,8 ) ma a motivo della tua stessa lettera.
E quando mai sarò in grado di risponderti con la stessa dolcezza e lo stesso vivissimo desiderio del tuo animo, rivelato dalla tua lettera?
D'accordo: m'ha rivelato di te una cosa che sapevo già assai bene, ma quantunque non mi indichi nulla di nuovo, esige pur tuttavia ch'io ti dia una nuova risposta!
Forse ti stupisci che mi dichiari incapace di soddisfare un tale debito, mentre tu hai un sì alto concetto di me e mi conosci come io conosco me stesso; ma è proprio questo a procurarmi l'imbarazzo di rispondere alla tua lettera.
Poiché, quanto tu mi sembri degno di stima, m'astengo dal dirtelo, per non offendere la tua modestia; se, d'altra parte, dicessi meno di quanto sarebbe doveroso, come non rimarrei in debito dopo l'esaltazione che hai fatto di me?
Ma non mi darei pensiero di ciò, se gli elogi rivoltimi li sapessi dettati non da schiettissima carità, ma dall'adulazione, nemica dell'amicizia.
In tal caso non sarei debitore, perché non dovrei risponderti sullo stesso tono; ma quanto più conosco con quale sincerità tu parli, tanto più capisco quanto grave sia il mio debito.
Guarda poi che cosa mi è accaduto: mi sono lodato in certo qual modo da me stesso col dire d'essere stato lodato da te con sincerità.
D'altronde, però, cosa avrei dovuto dire di diverso da quello che ho già insinuato di te, che ti conosci meglio di me?
Ma con ciò mi pongo una nuova questione, da te non affacciata, di cui forse aspetti la soluzione; mi pareva sì poca cosa essere debitore, se non mi fossi addossato da me stesso un altro debito ancora più pesante!
È facile però mostrare e, anche se non lo mostrassi, ti sarebbe facile capire, come possano dirsi cose vere senza sincerità e cose non vere con sincerità.
Mi spiego: chi parla come pensa, anche se dice cose non vere, parla con sincerità; chi invece non crede a quanto dice, anche se parla di cose vere, parla senza sincerità.
Orbene, dubito forse io che tu non creda ai pregi che mi attribuisci nella tua lettera? Tutt'altro!
Siccome però io non riscontro affatto in me tali pregi, hai potuto benissimo dire con sincerità cose non vere sul mio conto.
Desidero però che tu non cada in errore neppure per l'affetto che mi porti, per il quale ti sono comunque debitore, poiché potrei dire sul tuo conto con sincero affetto cose vere, qualora, come ho detto più sopra, non avessi riguardo alla tua modestia.
Io, invece, quando ricevo lodi da una persona come te, stretto a me intimamente da affetto più che fraterno, le considero come se me le fossi rivolte io stesso.
Vedi come ciò sia molesto anche nel caso che si parlasse di pregi reali.
Quanto più dunque lo è, dal momento che tu, dato che sei come un'altra anima mia, dato anzi che le nostre anime sono una sola cosa, ti puoi ingannare immaginando ch'io abbia pregi che non ho affatto, allo stesso modo che ognuno può ingannarsi riguardo a se stesso.
Orbene, questo io non lo permetto, non solo perché una persona come te, tanto a me cara, non resti ingannata, ma perché non preghi pure di meno onde io diventi quale tu credi ch'io sia.
Io inoltre non ti sono debitore fino al punto che, oltrepassando i limiti dell'affetto, creda ed esalti pregi, che tu stesso sai di non possedere ancora: io arrivo solo, con animo altrettanto affettuoso, ad esaltare, come doni di Dio, le buone qualità che sono certo si trovino in te realmente.
Faccio così non solo per non ingannarmi a proposito di esse, ma anche perché, sentendoti lodato da me, tu non abbia l'impressione d'esserti lodato da te stesso, e inoltre anche per una norma di giustizia, in base alla quale non voglio che si agisca così.
Se per pura ipotesi si dovesse agire così preferirei essere io debitore, fino a quando non fossi convinto del contrario; se invece non si deve agire così non sono neppure debitore.
Ma so già cosa puoi rispondermi: '' Tu dici così, come se io avessi desiderato una tua lunga lettera d'elogio per me ".
Dio mi guardi dal pensare di te una cosa simile, ma la tua lettera, piena di elogi ( non voglio dire quanto veri e quanto non veri nei miei riguardi ) reclamava la mia disapprovazione, anche se ciò ti dispiace.
Infatti, se tu volevi ch'io scrivessi qualcosa di diverso, avresti desiderato che io facessi dei doni invece che saldare un debito.
Ora, la regola della giustizia esige che soddisfacciamo anzitutto il debito e poi facciamo, se ci piace, anche un dono al creditore.
D'altronde, se ben consideri i precetti del Signore, anche scrivendo come tu desideri, noi compiamo il dovere di rendere piuttosto che quello di concedere; tant'è vero che non dobbiamo avere verso gli altri nessun altro obbligo che quello d'amarci a vicenda.
Lo stesso amore infatti reclama l'obbligo di servire con carità i fratelli e di aiutare, per quanto possiamo, chi vuol essere aiutato rettamente.
Ma, caro fratello, io credo che tu pure sappia quante faccende ho tra le mani, per cui, dati i diversi impegni annessi inevitabilmente al nostro ufficio, mi rimangono solo pochissime stille di tempo; ora, se impegnassi anche queste in altre faccende, mi parrebbe di mancare al mio dovere.
Si, lo confesso: ti sono debitore di scriverti una lunga lettera, come tu desideri; ne sono debitore alla tua sì dolce, sincera e pura Benevolenza!
Siccome però tu sei un fedele amante della giustizia, t'esorto ad ascoltare da me le seguenti considerazioni sulla virtù da te amata.
Tu comprendi bene che il dovere che ho verso di te e gli altri è più importante di quello che ho verso te solo.
D'altra parte io non dispongo di tempo bastante per tutti i miei doveri, neppure per i più importanti.
Per questo motivo tutti i miei più cari ed intimi amici, tra cui tu sei uno dei primi nel nome di Cristo, farebbero un'azione veramente eccellente non solo a non impormi di scrivere altre cose, ma altresì a distogliere pure gli altri dal farlo, usando tutta l'autorità e la santa benignità possibile; così non sembrerò crudele se non soddisferò tutte le richieste dei singoli, dovendo piuttosto soddisfare i miei doveri verso tutti.
Finalmente, quando la tua Reverenza giungerà da noi ( come speriamo anche in virtù della promessa fattaci ), ti potrai rendere conto in quante opere letterarie e quanto io sia occupato.
Allora farai con molto maggior premura quanto ti ho chiesto, di distogliere cioè quanti altri potrai dallo scrivermi.
Dio, nostro Signore, riempia della sua grazia il seno del tuo cuore, da Lui creato così grande e santo!
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