Il libero arbitrio |
EVODIO - Dimmi, ti prego, se Dio non è principio del male.
AGOSTINO - Te lo dirò se mi precisi di quale male intendi chiedere.
Di solito si considera il male sotto due aspetti: uno, quando si dice che un individuo ha agito male; l'altro, quando lo ha sofferto.
E. - Dell'uno e dell'altro vorrei sapere.
A. - Ma se tu hai scienza o fede che Dio è buono, e non è lecito pensare diversamente, Dio non agisce male.
Ancora, se ammettiamo che è giusto, ed è sacrilego negarlo, come distribuisce il premio ai buoni, così anche la pena ai malvagi.
Certamente tali pene sono un male per coloro che le subiscono.
Ora la pena non si subisce ingiustamente.
Bisogna crederlo perché crediamo anche che l'universo è governato dalla divina provvidenza.
Dunque Dio non è principio della prima categoria di male, ma della seconda ne è principio.
E. - V'è dunque un altro principio di quel male se è evidente che Dio non lo è?
A. - Certamente. Sarebbe assurdo che si faccia da solo.
Se poi insisti nel chiedere chi ne è l'autore, è impossibile risponderti.
Non è un essere determinato, ma ciascun malvagio è principio della propria azione malvagia.
Se ne dubiti, rifletti sul motivo or ora detto, che le azioni malvagie sono punite dalla giustizia di Dio.
Non sarebbero punite giustamente se non fossero compiute con atto di volontà.
E. - Non so se si pecca senza averlo appreso.
E se è vero, chiedo chi è l'essere, da cui si apprende a peccare.
A. - Pensi che l'apprendimento sia un determinato bene?
E. - E chi oserebbe dire che l'apprendimento è un male?
A. - E se non fosse né bene né male?
E. - A me sembra un bene.
A. - Certamente. Per la sua mediazione si genera o si fa rivivere il sapere e non si apprende se non mediante l'apprendimento.
La pensi diversamente?
E. - Io ritengo che con l'apprendimento si apprende soltanto il bene.
A. - Bada bene dunque di non dire che si apprende il male poiché l'apprendimento è denominato dall'apprendere.
E. - Come dunque si commette il male dall'uomo se non è appreso?
A. - Forse perché si estrania totalmente dall'apprendimento, cioè dall'apprendere.
Ma sia questa la ragione o un'altra, è certamente evidente l'impossibilità che si apprenda il male perché l'apprendimento è un bene e l'apprendimento è denominato dall'apprendere.
Se al contrario il male si apprende, è oggetto dell'apprendimento e così l'apprendimento non sarebbe un bene.
Ma, anche per tuo consenso, è un bene.
Quindi il male non si apprende e tu cerchi invano un essere da cui si apprende ad agir male.
Oppure se il male si apprende, si apprende per evitarlo, non per farlo.
Dunque agir male è esclusivamente deviare dall'apprendimento.
E. - Io penso addirittura che esistano due apprendimento: uno per cui si apprende ad agir bene e un altro per cui si apprende ad agir male.
Ma mentre mi chiedevi se l'apprendimento è un bene, l'amore del bene in sé ha mosso il mio interesse.
Ho dunque tenuto presente l'apprendimento relativo all'agir bene e per questo ho risposto che esso è un bene.
Ed ora rifletto che ve n'è un altro, ritengo fermamente che è un male e ne chiedo il principio.
A. - Ma, secondo te, almeno l'intelligenza è un bene in senso assoluto?
E. - La ritengo tanto buona da non sembrarmi che nell'uomo vi possa essere qualche cosa di più nobile e non direi proprio che una qualche intelligenza possa esser cattiva.
A. - E quando un individuo viene istruito, se non usa l'intelligenza, secondo te viene istruito?
E. - Assolutamente impossibile.
A. - Dunque se l'intelligenza è in sé buona e non si apprende se non si compie un atto d'intelligenza, nell'apprendere si agisce bene perché nell'apprendere si compie un atto d'intelligenza e nel compierlo si agisce bene.
Quindi nell'indagare sul principio per cui un qualche cosa si apprende, s'indaga indiscutibilmente sul principio per cui si agisce bene.
Smettila dunque di investigare su non saprei quale cattivo educatore.
Se è cattivo, non educa, se educa non è cattivo.
E. - Allora, giacché mi costringi proprio a confessare che non si apprende ad agire male, dimmelo tu il principio per cui si agisce male.
A. - Poni appunto il problema che mi ha fortemente inquietato nella prima gioventù e che sfiduciato mi ha costretto a cadere nell'eresia.
Sono rimasto così fortemente abbattuto dalla mia caduta e sotterrato da mucchi di vuote favole che, se il desiderio di trovare il vero non mi avesse ottenuto l'aiuto divino, non avrei potuto uscirne fuori e tornare a respirare nell'originaria libertà della ricerca.
E poiché ho riflettuto diligentemente per risolvere il problema, userò con te il metodo con cui io stesso mi sono reso libero.
Dio ci aiuterà e ci farà conseguire con l'intelletto quanto abbiamo accettato per fede.
Abbiamo piena coscienza di seguire il procedimento stabilito dal Profeta che ha detto: Se non crederete, non conseguirete con l'intelletto. ( Sal 14,1; Sal 53,1 )
Ora per fede ammettiamo che tutte le cose che sono, sono da Dio e che egli tuttavia non è principio del male.
Una difficoltà però turba il pensiero, e cioè perché non si debbano quasi immediatamente attribuire a Dio i peccati, se i peccati derivano dalle anime create da Dio e le anime da Dio.
E. - Hai espresso con chiarezza ciò che turba assai il mio pensiero e mi ha costretto e spinto alla presente ricerca.
A. - Sii forte e continua a credere ciò che credi.
È il migliore atto di fede, anche se la spiegazione è al di sopra della nostra esperienza.
Avere di Dio un altissimo concetto è il più vero inizio di religiosità.
E non se ne ha un concetto altissimo, se non si crede che è totalità del possibile e assolutamente immutabile, creatore inoltre di tutti i beni, ai quali è superiore, ordinatore di tutte le cose che ha creato, non aiutato nel creare da altra natura, quasi non fosse l'assoluto.
Ne consegue che dal nulla ha creato l'universo e che da sé non ha creato, ma ha generato un principio che gli è eguale.
Noi lo diciamo unico Figlio di Dio e lo denominiamo Virtù di Dio e Sapienza di Dio, quando tentiamo di farcene un concetto più accessibile.
In lui ha creato tutte le cose che dal nulla sono state create.
Su questo fondamento, con l'aiuto di Dio, portiamoci nella seguente maniera all'intelligenza dell'argomento da te proposto.
Tu chiedi appunto il principio per cui si agisce male.
Dunque prima si deve discutere che cosa significa agir male.
Di' quel che ne pensi.
Se non ne puoi esporre in breve a parole una teoria, per lo meno citando alcune cattive azioni in particolare, fammi comprendere la tua opinione.
E. - Ma a chi non sembrano cattive azioni gli adulteri, gli omicidi e i sacrilegi, per tacere di altre?
Per enumerarle non sono disponibili né tempo né memoria.
A. - Dimmi prima di tutto perché ritieni cattiva azione l'adulterio.
Perché lo vieta la legge?
E.- Non è male perché è vietato dalla legge, ma è vietato dalla legge perché è male.
A. - Ma supponi che un tizio ci importuni esagerando il piacere dell'adulterio e chiedendoci perché lo giudichiamo un male e degno di biasimo.
Pensi davvero che individui, i quali intendono accettare per fede ma anche giustificare con la ragione, debbano ricorrere all'autorità della legge?
Ma anche io accetto con te, e fermamente accetto, e grido che i cittadini di tutte le nazioni debbono accettare che l'adulterio è un male.
Ma ora intendiamo avere, con atto di ragione, scienza innegabile di quanto abbiamo accettato con la fede.
Rifletti dunque, per quanto ne sei capace, e dimmi per quale ragione hai ritenuto l'adulterio un male.
E. - So che è un male perché non lo sopporterei in mia moglie.
Agisce male infatti chi fa agli altri ciò che non vuole gli sia fatto.
A. - E se un tizio fosse tanto libertino da offrire la propria moglie ad un altro e tollerasse che sia da lui violata perché desidera avere eguale soddisfazione sulla donna dell'altro, ti sembra che non faccia nulla di male?
E. - Anzi moltissimo.
A. - Ma egli pecca fuori della tua norma, che non fa ciò che non vorrebbe ricevere.
Devi dunque cercare un altro motivo per dimostrare che l'adulterio è un male.
E. - Mi sembra male perché spesso ho visto individui condannati per questo delitto.
A. - Ma non si danno parecchi casi di individui condannati per azioni buone?
Per non rimandarti ad altri libri, consulta la storia stessa che si fregia della inspirazione divina.
Vi troverai quanto male dovremmo giudicare gli Apostoli e tutti i martiri se ritenessimo che la condanna è certo criterio di azione malvagia.
Eppure essi furono giudicati degni di condanna per aver dato testimonianza della propria fede.
Pertanto se è malvagia l'azione di chi subisce condanna, era male in quel tempo credere in Cristo e professare la fede.
Se poi non è male ogni azione che subisce condanna, cerca di trovare un altro principio, da cui dedurre che l'adulterio è un male.
E. - Non so che rispondere.
A. - Dunque forse nell'adulterio è male la passione.
Ma tu ne restringi il concetto se cerchi il male nell'atto esteriore già visibile.
E per comprendere che nell'adulterio è male la passione, pensa che se un tizio non ha possibilità di dormire con la donna di altri, ma appare che lo desidera e che, data la possibilità, lo farà, non è meno reo che se fosse sorpreso in flagrante.
E. - È del tutto evidente e veggo ormai che non v'è bisogno di un lungo discorso per persuadermi sull'omicidio, il sacrilegio e in definitiva su tutti i peccati.
È chiaro che soltanto la passione è determinante del generale concetto di azione malvagia.
A. - Sai anche che la passione con altro termine si chiama anche desiderio immoderato?
E. - Sì.
A. - E secondo te, fra esso e il timore non v'è alcuna differenza o sì?
E. - Secondo me, differiscono moltissimo.
A. - Lo supponi, penso, perché il desiderio è tendenza, il timore fuga.
E. - Sì, come tu dici.
A. - Dunque se un tale uccide un uomo non per il desiderio immoderato di conseguire un intento, ma perché teme che gli avvenga un male, è omicida?
E. - Certamente; ma non per questo il fatto cessa di essere nella categoria del desiderio immoderato.
Chi uccide un uomo perché lo teme desidera vivere senza timore.
A. - E ti sembra un bene da poco vivere senza timore?
E. - È un grande bene, ma non può essere conseguito dall'omicida in virtù del suo delitto.
A. - Non chiedo che cosa gli possa avvenire, ma che cosa desidera.
Ovviamente desidera un bene chi desidera la vita libera dal timore.
Pertanto questo desiderio in sé è immune da colpa, altrimenti dovremmo considerare colpevoli tutti quelli che vogliono un bene.
Siamo dunque costretti ad ammettere che v'è omicidio, nel quale non si può reperire come determinante il desiderio malvagio e sarà falso il principio che la passione è determinante in tutti i peccati perché siano un male; oppure vi sarà un determinato omicidio che potrebbe non esser peccato.
E. - Certo se l'omicidio è uccidere un uomo, può esser commesso in qualche caso senza peccato; ad esempio, il soldato uccide il nemico, il giudice o il suo esecutore il delinquente, quegli a cui per involontaria imprudenza sfugge un dardo di mano.
Secondo me, costoro non peccano quando uccidono un uomo.
A. - D'accordo; ma non è costume considerare costoro omicidi.
Rispondi dunque se colui che ha ucciso il padrone, da cui temeva per sé gravi pene, sia, a tuo giudizio, da porsi fra coloro che uccidono un uomo con tale titolo che non sono degni neanche del nome di omicidi.
E. - Per me è evidente che differisce molto da loro.
Coloro lo fanno in virtù delle leggi o per lo meno non contro di esse, ma nessuna legge può legittimare il misfatto di costui.
A. - Mi richiami ancora all'autorità.
Dovresti ricordare che or ora ci siamo impegnati a giustificare con la ragione ciò che riteniamo opinabile.
Ora le leggi le riteniamo opinabili.
Ci dobbiamo dunque impegnare, se comunque ne siamo capaci, a giustificare razionalmente il medesimo tema, se la legge che punisce il fatto, lo punisce secondo ragione.
E. - Non lo punisce certamente contro ragione perché punisce chi volontariamente e coscientemente uccide il padrone.
Non è il caso degli altri.
A. - Ma non hai detto poco fa che la passione è determinante di ogni cattiva azione e che per questo è male?
E. - Certo che lo ricordo.
A. - E non hai ammesso ugualmente che chi desidera vivere senza timore non ha un desiderio cattivo?
E. - Anche questo ricordo.
A. - Quando dunque lo schiavo uccide il padrone con questo desiderio, non lo uccide per colpevole desiderio.
Dunque non abbiamo ancora risolto perché questo delitto è un male.
È emerso infatti dal nostro dialogo che le cattive azioni sono cattive perché sono commesse per passione, cioè per desiderio riprovevole.
E. - A questo punto mi sembra che il tizio sia condannato ingiustamente.
Non oserei dirlo se trovassi altro da dire.
A. - È così allora? Ti sei fatto la convinzione che un misfatto così grosso doveva rimanere impunito prima di considerare che lo schiavo poteva avere il desiderio illecito di liberarsi dal timore del padrone per soddisfare le proprie passioni.
Desiderare di vivere senza timore non è soltanto dei buoni, ma anche dei malvagi di ogni categoria.
La differenza consiste in questo, che i buoni lo conseguono distogliendo la volontà dalle cose che non si possono avere senza pericolo di perderle, al contrario i cattivi tentano di rimuovere gli ostacoli per sdraiarsi con tranquillità nel goderle.
Conducono quindi una vita piena di misfatti.
Sarebbe meglio chiamarla morte.
E. - Mi ravvedo e godo assai di aver compreso tanto facilmente che cosa sia quel colpevole desiderio che si dice passione.
Ed evidentemente è l'amore di cose che l'uomo può perdere anche se non vuole.
Ora dunque, se vuoi, esaminiamo se la passione è determinante anche nel sacrilegio.
Osserviamo invece che molti se ne commettono per superstizione.
A. - Rifletti se non sia prematuro.
Mi parrebbe che prima si debba discutere se un nemico che assale o un sicario che insidia possano essere uccisi indipendentemente dalla passione per difendere la vita, la libertà o l'onore.
E. - E come posso giudicare liberi da passione costoro che con le armi difendono beni che possono perdere anche se non vogliono?
E se non possono perderli che bisogno c'è di giungere per essi fino all'omicidio?
A. - Dunque non sarebbe giusta la legge che dà facoltà al viandante di uccidere il ladro per non rimanere ucciso lui stesso o anche a un uomo o a una donna, se è possibile, di far fuori, prima della violenza, un tizio che attentasse con la forza al loro onore.
Anche al soldato si ordina dalla legge di uccidere il nemico e, se si astiene dall'uccidere, viene punito dal comandante.
Oseremo dunque dire che queste leggi sono ingiuste o piuttosto che non sono leggi?
Già, perché secondo me è legge soltanto quella giusta.
E. - Mi pare però che la legge sia abbastanza difesa contro tale accusa perché ha concesso ai cittadini amministrati il permesso di commettere delitti più piccoli affinché ne siano evitati dei maggiori.
È molto più sopportabile che sia ucciso l'individuo che attenta alla vita altrui anziché quello che difende la propria ed è assai più grave che un individuo subisca violenza carnale contro il proprio volere anziché colui che la commette sia ucciso da chi è costretto a subirla.
Il soldato poi, nell'uccidere il nemico, è esecutore della legge.
Dunque è facile che possa compiere il proprio dovere indipendentemente dalla passione.
Inoltre non è possibile che la legge, promulgata per difendere i cittadini, sia imputata di passione.
Chi l'ha promulgata infatti, se lo ha fatto per ordine di Dio, cioè perché lo ha disposto l'eterna giustizia, può averla promulgata libero da ogni passione.
Se poi ha stabilito la legge perché mosso da qualche passione, non ne consegue che sia necessario con la passione obbedire alla legge.
Una buona legge può esser promulgata anche da un individuo non buono.
Ad esempio un tale, che esercita il potere tirannicamente, riceve denaro da un cittadino, che a sua volta ne trae vantaggio, perché stabilisca che a nessuno è lecito rapire una donna, sia pure a scopo di nozze.
La legge non sarà cattiva per il fatto che l'ha promulgata un individuo ingiusto e corrotto.
È possibile dunque obbedire senza passione alla legge, la quale ordina, per la difesa dei cittadini, che la violenza di un nemico sia respinta ugualmente con la violenza.
Il principio si applica a tutti gli esecutori che per ordinamento giuridico obbediscono a un determinato potere.
Ma non veggo come gli altri, pur essendo senza colpa la legge, possano essere senza colpa.
La legge non li costringe ad uccidere, ma concede loro la facoltà.
Essi dunque rimangono liberi di non uccidere per la difesa di beni che possono perdere contro il loro volere e che per questo non debbono amare.
Può rimanere a qualcuno un dubbio circa la vita nell'ipotesi che non venga sottratta all'anima con la corruzione del corpo.
Ma se può essere tolta, si deve disprezzare, se non lo può, nulla da temere.
Circa il pudore poi non si può dubitare che è nella coscienza perché è virtù.
Pertanto non può essere sottratto dall'individuo che usa violenza.
Dunque ogni bene, che stava per toglierci l'uccisore, non è in nostro potere.
Non capisco pertanto come si possa considerarlo nostro.
Non riprovo quindi la legge che permette l'uccisione degli aggressori, ma non trovo con quale criterio giustificare coloro che li uccidono.
A. - A più forte ragione io non riesco a trovare il motivo per cui cerchi una difesa per individui che nessuna legge considera rei.
E. - Nessuna forse, ma delle leggi positive e che possono esser raccolte dagli uomini.
Non saprei se non siamo soggetti a un'altra legge più potente e occultissima, supposto che non vi sia cosa che non sia governata dalla divina provvidenza.
Come sarebbero infatti liberi davanti a lei dal peccato se si sono macchiati di omicidio per difendere beni che si devono disprezzare?
Mi pare dunque che la legge, promulgata per governare il popolo, ragionevolmente permette questi atti e che la divina provvidenza li proibisce.
Alla legge civile infatti compete punire determinati atti per stabilire il rapporto sociale fra la massa, e nei limiti possibili alla umana legislazione.
Al contrario le colpe, di cui sopra, hanno pene congruenti, dalle quali, secondo me, soltanto la sapienza ci può liberare.
A. - Lodo e accetto questa tua distinzione, sebbene appena abbozzata e meno perfetta, comunque fiduciosa e implicante un ordine superiore.
A te sembra infatti che questa legge, la quale si promulga per l'amministrazione dello stato, non contempli e lasci impunite molte colpe che saranno comunque punite, e giustamente, dalla divina provvidenza.
La legge non fa tutto, ma non per questo si deve riprovare quel che fa.
Ma esaminiamo diligentemente, se lo desideri, fino a qual punto si devono punire le azioni malvagie dalla legge che unisce i cittadini nella vita terrena e poi cosa rimane che sia inevitabilmente e occultamente punito dalla divina provvidenza.
E. - Lo desidero assai purché sia possibile arrivare ai confini di un argomento tanto esteso.
Io personalmente, lo credo senza confini.
A. - Anzi abbi coraggio e sorretto dalla pietà mettiti sul cammino della ragione.
Non ve n'è alcuno infatti tanto erto e malagevole che con l'aiuto di Dio non diventi piano e molto agevole.
Fissi in lui e chiedendogli aiuto esaminiamo il tema iniziato.
E prima di tutto dimmi se la legge promulgata in un codice provvede agli uomini che vivono la vita terrena.
E. - È chiaro. I popoli e gli stati sono formati da individui in tale condizione.
A. - E gli uomini e i popoli sono della medesima durata del mondo sicché non possono perire o mutare e sono addirittura eterni, ovvero sono mutevoli e soggetti al divenire?
E. - E chi dubiterebbe che le cose umane sono mutevoli e soggette al tempo?
A. - Ma supponi che un popolo sia formato alla moderazione e alla saggezza e sia custode diligente del comune benessere sicché ciascuno stima di meno il proprio interesse che quello pubblico.
In tal caso non è ragionevolmente costituita la legge che consente al popolo di eleggere i propri magistrati, dai quali sia curato il suo interesse, cioè quello pubblico?
E. - Sì certo, ragionevolmente.
A. - Ma supponiamo ancora che il medesimo popolo, gradualmente depravatosi, anteponga l'interesse privato al pubblico, permetta il broglio elettorale e, corrotto dagli ambiziosi, affidi il governo di se stesso a disonesti e delinquenti.
In tal caso, se v'è una persona onesta che abbia molto prestigio, non dovrebbe, egualmente secondo ragione, togliere al popolo il potere di conferire le cariche e ridurlo al potere illimitato di pochi onesti o anche di uno solo?.
E. - Anche in tal caso secondo ragione.
A. - Dunque queste due leggi sembrano tanto opposte che una contempla il potere nel popolo di conferire le cariche, l'altra glielo toglie.
Questa seconda poi è così concepita che è assolutamente impossibile la loro consistenza nel medesimo stato.
Dovremmo dunque dire che una delle due è ingiusta e che non doveva essere promulgata?
E. - No certamente.
A. - Possiamo dunque chiamare, se ti va, temporale questa legge poiché, quantunque giusta, può giustamente esser cambiata secondo i tempi.
E. - Sì.
A. - E la legge che si considera come suprema ragione, alla quale sempre si deve obbedire, secondo cui i cattivi meritano l'infelicità e i buoni la felicità, per cui la legge, che abbiamo stabilito di chiamar temporale, secondo ragione si stabilisce e secondo ragione si muta, può sembrare a chiunque usa l'intelligenza non eternamente immutabile?
Ovvero può in un qualche tempo essere ingiusto che i cattivi siano infelici, i buoni felici, che un popolo moderato e prudente si elegga i magistrati ed uno disonesto e iniquo sia privo di questo diritto?
E. - Mi è evidente che questa è legge eternamente immutabile.
A. - Ti è evidente anche, suppongo, che nella legge temporale non v'è alcuna disposizione giusta che gli uomini non abbiano derivato dalla legge eterna.
Un popolo, in un determinato periodo giustamente conferisce le cariche, in un altro giustamente non le conferisce.
Ora questo avvicendamento nel tempo, perché sia giusto, è derivato dall'ordinamento eterno, da cui è sempre giusto che un popolo ben ordinato conferisca le cariche, un popolo male ordinato non le conferisca.
La pensi diversamente?
E. - No.
A. - Debbo dunque esporre brevemente, per quanto mi è possibile a parole, la nozione di legge eterna che è stata impressa in noi.
È la legge per cui è giusto che tutte le cose siano in un ordinamento perfetto.
Se la pensi diversamente, dillo.
E. - È vero quel che dici, quindi non ho da obiettare.
A. - Essa è una sola e da essa derivano nella loro varietà le leggi temporali per ordinare gli uomini al fine.
È possibile dunque che anche essa sia variabile?
E. - Capisco che è assolutamente impossibile.
Nessun potere, nessun accadimento, nessuna mutazione del reale potranno mai avere come effetto che non sia giusto il perfetto ordinamento del tutto.
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