Le diverse questioni a Simpliciano |
Ti sei degnato, o padre Simpliciano, di sottopormi apertamente la più gradita e delicata delle tue domande.
Se mi rifiutassi di rispondere sarei non solo maleducato ma addirittura ingrato.
Mi sono già occupato a trattare e scrivere qualcosa sulle difficoltà desunte dall'apostolo Paolo che tu mi hai proposto di chiarire.
Tuttavia, insoddisfatto dell'indagine e della spiegazione precedente, ho approfondito piú seriamente e scrupolosamente le parole stesse dell'Apostolo e il loro contenuto dottrinale.
Se la loro interpretazione fosse facile e ovvia, neppure tu ti preoccuperesti di indagarle.
La prima questione che hai voluto che io spiegassi inizia infatti dal punto in cui è scritto: Che diremo dunque?
Che la legge è peccato? No certamente!
fino al punto dove dice: La legge è quindi un bene per me quando la voglio e prosegue, credo, sino al passo: Sono uno sventurato!
Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesú Cristo nostro Signore. ( Rm 7,7-25 )
Mi sembra che l'Apostolo in questo testo abbia rappresentato in se stesso l'uomo posto sotto la legge, facendo proprie le sue parole.
E poiché poco prima aveva detto: Siamo stati liberati dalla legge sotto la quale eravamo morti incatenati, per servire nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera, ( Rm 7,6 ) per non dare l'impressione di aver biasimato la legge con queste parole, subito aggiunse: Che diremo dunque?
Che la legge è peccato? No certamente!
Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge, né avrei conosciuto la concupiscenza se la legge non avesse detto: " Non desiderare ". ( Rm 7,7 )
Qui sorge un nuovo problema.
Se la legge non è peccato ma occasione di peccato, con queste parole è certamente adombrata una critica.
Si deve pertanto intendere che la legge non è stata data per introdurre il peccato né per estirparlo ma solo per farlo conoscere e cosí accusare, mediante la stessa evidenza del peccato, l'anima umana che si riteneva sicura, per dire cosí, della propria innocenza; e poiché il peccato non si poteva vincere senza la grazia di Dio, l'anima, scossa dalla colpa, si disponesse ad accogliere la grazia.
Infatti non dice: Non ho commesso il peccato se non mediante la legge, ma: Io non ho conosciuto il peccato se non per la legge. ( Rm 7,7 )
Inoltre non ripete: Io non avrei la concupiscenza se la legge non dicesse: Non desiderare, ma dice: Non avrei conosciuto la concupiscenza, se la legge non avesse detto: " Non desiderare ". ( Rm 7,7 )
Non avendo ancora ricevuta la grazia, era di conseguenza inevitabile non poter resistere alla concupiscenza, che anzi aumentava di forza.
La concupiscenza infatti, con l'aggiunta della colpa della trasgressione, acquista maggior vigore quando va contro la legge che quando non c'è la proibizione della legge.
Proprio per questo aggiunge: Prendendo pertanto occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di desiderio. ( Rm 7,8 )
C'era anche prima della legge, ma non dispiegava tutta la forza, perché mancava ancora la colpa della trasgressione.
Per ciò altrove dice: Dove non c'è la legge, non c'è nemmeno trasgressione. ( Rm 4,15 )
Ciò che poi aggiunge: Senza la legge infatti il peccato è morto, ( Rm 7,8 ) è come se dicesse: Il peccato è nascosto, vale a dire è ritenuto come morto.
Lo spiegherà più chiaramente in seguito.
Dice: Anch'io un tempo vivevo senza legge, ( Rm 7,9 ) cioè non avevo alcun timore della morte causata dal peccato, poiché non appariva quando non c'era la legge.
Ma, sopraggiunto il comandamento, il peccato ha preso vita, ( Rm 7,9 ) cioè si è manifestato.
E io sono morto, ( Rm 7,10 ) cioè ho riconosciuto di essere morto oppure che la colpa della trasgressione provoca la sicura condanna di morte.
Certamente con le parole: Sopraggiunto il comandamento il peccato ha preso vita, ( Rm 7,9 ) ha spiegato a sufficienza che il peccato ha avuto vita una volta in questo modo, ossia è stato conosciuto, come io ritengo, nella prevaricazione del primo uomo, perché anch'egli aveva ricevuto un ordine. ( Gen 2,17 )
In un altro passo afferma infatti: Ma la donna, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. ( 1 Tm 2,14 )
E ancora: Con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire. ( Rm 5,14 )
Non può infatti rivivere se non ciò che una volta viveva.
Ma il peccato era morto, cioè stava nascosto, quando gli uomini mortali, nati senza il comandamento della legge, vivevano seguendo i desideri della carne senza alcuna conoscenza, perché non c'era alcun divieto.
Dice pertanto: Io un tempo vivevo senza legge. ( Rm 7,9 )
Dal che rivela chiaramente di parlare non in nome proprio, ma in generale in nome dell' uomo.
Ma, sopraggiunto il comandamento, il peccato ha ripreso vita.
E io sono morto; la legge, che doveva servire per la vita, è diventata per me motivo di morte. ( Rm 7,9-10 )
Se infatti si obbedisce al comando, esso è sicuramente vita.
Ma è diventato motivo di morte quando si agisce contro il comando: allora non solo si commette peccato - il che accadeva anche prima del comando -, ma si pecca in modo più grave e colpevole, perché si pecca sapendo e volendo.
1.5 Il peccato infatti - egli prosegue -, prendendo occasione dal comando, mi ha sedotto, e per suo mezzo mi ha dato la morte. ( Rm 7,11 )
Il peccato, abusando della legge e aumentando il desiderio a motivo della proibizione, si è fatto più attraente e perciò ha sedotto.
È infatti una dolcezza ingannatrice a cui seguono amarezze più numerose e peggiori.
Poiché gli uomini, che non hanno ancora ricevuto la grazia spirituale, commettono con maggior gusto ciò che è proibito, il peccato seduce con una falsa dolcezza.
E poiché si aggiunge anche la colpa della trasgressione, causa la morte.
Cosí la legge è santa, e santo, giusto e buono è il comando. ( Rm 7,12 )
Ordina infatti ciò che è da comandare e vieta ciò che è da proibire.
Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero! ( Rm 7,13 )
Il vizio è certamente in colui che abusa, non nel comandamento stesso che è buono.
Infatti la legge è buona, se uno ne usa bene. ( 1 Tm 1,8 )
Ora abusa della legge chi non si sottomette a Dio con pia umiltà al fine di poterla adempiere per mezzo della grazia.
Chi non ne fa giusto uso, la riceve all'unico scopo che il suo peccato, che prima del divieto era celato, cominci a manifestarsi per mezzo della trasgressione.
E questo oltre misura: ( Rm 7,13 ) poiché si tratta non solo di peccato ma anche di opposizione al comando.
Perciò prosegue e aggiunge: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene perché apparisse colpevole oltre misura o peccato per mezzo del comandamento. ( Rm 7,13 )
Cosí spiega il senso di quanto ha detto precedentemente: Senza la legge il peccato è morto, ( Rm 7,8 ) non perché non esisteva, ma perché non appariva; e il senso delle parole: Il peccato ha ripreso vita, ( Rm 7,9 ) non perché fosse ciò che era già prima della legge, ma perché fosse manifesto che si agiva contro la legge, giacché afferma in questo luogo: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene. ( Rm 7,13 )
Non dice infatti perché sia peccato, ma perché si riveli peccato.
Poi spiega la ragione perché sia così; dice: Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne. ( Rm 7,14 )
Qui mostra a sufficienza che la legge può essere osservata solo dagli [ uomini ] spirituali, che sono tali per grazia.
Infatti quanto più uno diventa simile alla legge spirituale, ossia quanto più si eleva all'amore spirituale, tanto più la osserva; egli allora gioisce maggiormente in essa, non essendo più oppresso dal suo peso ma irrobustito nella sua luce: perché il comando del Signore è limpido, dà luce agli occhi, e la legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; ( Sal 19,8-9 ) con la grazia, che perdona i peccati e infonde lo spirito di carità, la pratica della giustizia non è affatto penosa ma addirittura gradevole.
Avendo detto: Ma io sono di carne, ( Rm 7,14 ) ha spiegato saggiamente anche il termine " carnale". Infatti in certo modo si chiamano carnali anche coloro che sono già costituiti in grazia, già redenti dal sangue del Signore e rinati mediante la fede.
A costoro lo stesso Apostolo dice: Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come uomini spirituali, ma come ad uomini carnali, come a neonati in Cristo vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido. ( 1 Cor 3,1-2 )
Con queste parole mostra con evidenza che erano già rinati mediante la grazia coloro che erano piccoli in Cristo e dovevano essere nutriti di latte e tuttavia li chiama ancora carnali.
Chi invece non è ancora sotto la grazia, ma sotto la legge, è così carnale da non essere ancora redento dal peccato ma venduto al peccato, perché abbraccia, a prezzo di un piacere mortale, quella dolcezza ingannatrice e inoltre si compiace di andare contro la legge con tanto maggior piacere quanto meno è lecito.
Non può godere di questa dolcezza come ricompensa della sua condizione, a meno che non sia costretto a servire la passione come uno schiavo venduto.
Si sente infatti schiavo del desiderio che lo domina colui al quale è proibito e sa che gli è giustamente proibito, e tuttavia lo fa.
1.8 Io non so ciò che faccio, ( Rm 7,15 ) egli dice.
Non so qui non significa che non sa di peccare.
Altrimenti sarebbe in contraddizione con ciò che ha detto: Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene; ( Rm 7,13 ) e anche con il passo precedente: Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge. ( Rm 7,7 )
Come dunque si rivela il peccato o come egli ha conosciuto ciò che ignora?
Ora l'Apostolo ha detto così, come il Signore dirà agli empi: Non vi conosco. ( Mt 25,12 )
Nulla infatti si cela a Dio, perché il volto del Signore contro i malfattori, per cancellarne dalla terra il ricordo. ( Sal 34,17 )
Anche noi a volte diciamo d'ignorare ciò che disapproviamo.
Per questo dice: Ignoro ciò che faccio, ossia non l'approvo.
Lo dimostra dicendo quanto segue: Infatti non faccio ciò che voglio, ma quello che detesto. ( Rm 7,15 )
Detesto e ignoro hanno quindi lo stesso significato. Anche di coloro, ai quali il Signore dirà: Non vi conosco, si dice a lui: Tu detesti, Signore, chi fa il male. ( Sal 5,7 )
Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la legge è buona. ( Rm 7,16 )
Non vuole di certo ciò che neppure la legge vuole: infatti la legge lo proibisce.
Egli è dunque d'accordo con la legge, non in quanto fa ciò che essa proibisce ma in quanto non vuole ciò che fa.
Non ancora liberato dalla grazia, è vinto, anche se già sa, mediante la legge, di agire male e non lo vuole.
Quanto poi segue: Quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me, ( Rm 7,17 ) non lo dice perché non acconsente a compiere il peccato, quantunque sia d'accordo con la legge a riprovarlo.
Egli parla ancora secondo l'uomo che è sotto l'influsso della legge e non della grazia; che, dominato dalla concupiscenza e ingannato dalla dolcezza del peccato proibito, è di certo trascinato a fare il male, anche se, grazie alla conoscenza della legge, lo disapprova.
Per questo dice: Non sono più io a farlo, perché agisce da vinto.
Lo compie sicuramente la passione tiranna, alla quale si è piegato.
Ora la grazia, di cui parlerò in seguito, fa sì che egli non ceda e l'anima umana si opponga più efficacemente alla passione.
Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene. ( Rm 7,18 )
Riguardo alla conoscenza è d'accordo con la legge; riguardo all'azione soggiace al peccato.
Se qualcuno domandasse com'è che nella sua carne non abita il bene ma il peccato: da dove deriva se non dalla radice della mortalità e dalla persistenza della sensualità?
L'una è la pena del peccato originale, l'altra la punizione del peccato ripetuto.
Con quella noi entriamo in questa vita, questa l'alimentiamo vivendo.
Unite insieme, la natura e l'abitudine, rendono assai vigorosa e invincibile la concupiscenza, che egli chiama peccato e dice che abita nella sua carne, possiede cioè una specie di dominio e di tirannia.
Ecco perché nel Salmo si legge: Ho preferito essere disprezzato nella casa del Signore piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori. ( Sal 84,11 )
Come se colui, che ivi è disprezzato, in qualunque luogo si trovi, non vi abita, sebbene ci sia.
Insinua perciò che per abitazione deve intendersi un qualche dominio.
Ma se la grazia opera in noi ciò che afferma altrove: Che non regni il peccato nel nostro corpo mortale, sì da sottometterci ai suoi desideri, ( Rm 6,12 ) allora si può dire certamente che non vi abita più.
C'è in me infatti - prosegue - il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. ( Rm 7,18 )
A quanti non intendono rettamente sembra, con queste parole, quasi sopprimere il libero arbitrio.
Ma come lo elimina quando dice: Il volere è alla mia portata?
Certamente infatti lo stesso volere è in nostro potere, perché è alla nostra portata; però il non potere fare il bene è conseguenza del peccato originale.
Questa non è infatti la natura originaria dell'uomo ma la pena del peccato: da essa è derivata la stessa mortalità come una seconda natura, dalla quale ci libera la grazia del Creatore, quando ci sottomettiamo a lui mediante la fede.
Ma queste sono parole dell'uomo posto sotto la legge e non ancora sotto la grazia.
Infatti chi non è ancora sotto la grazia non compie il bene, ma fa il male che non vuole sotto la tirannia della concupiscenza, rafforzata non solo dal vincolo della mortalità ma anche dal peso dell'abitudine.
Ora se fa ciò che non vuole, non è più lui a farlo ma il peccato che abita in lui, come si è detto e spiegato precedentemente.
Io trovo dunque in me questa legge - egli dice - che quando io voglio fare il bene, il male è accanto a me; ( Rm 7,21 ) ossia io constato che la legge è bene per me quando voglio fare ciò che la legge prescrive, perché il male è accanto a me e facile a compiersi.
Quando precedentemente ha detto: Il volere è alla mia portata, si riferiva alla facilità.
Cosa è più facile all'uomo, costituito sotto la legge, che volere il bene e compiere il male?
Infatti vuole il bene senza difficoltà, quantunque non compia tanto facilmente quanto facilmente vuole; e consegue facilmente il male che odia, sebbene non lo voglia; così trascinato, scivola facilmente nell'abisso anche se non vuole e lo detesta.
Ho detto questo a proposito dell'espressione " è accanto ".
L'uomo sottoposto alla legge e non ancora liberato dalla grazia rende pertanto testimonianza alla bontà della legge; dà piena testimonianza per il fatto stesso che si rimprovera di agire contro la legge: riconosce inoltre che è bene per lui, desideroso di fare ciò che comanda ma incapace a causa della concupiscenza che lo domina.
Allora si vede così prigioniero del crimine della trasgressione da implorare per questo la grazia del Liberatore.
Continua: Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, a quella legge che dice: Non desiderare.
Ma - egli dice - nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. ( Rm 7,22-23 )
Chiama legge nelle sue membra lo stesso fardello della mortalità, il cui peso ci fa gemere. ( 2 Cor 5,4 )
Infatti il corpo che si corrompe appesantisce l'anima. ( Sap 9,15 )
Per questo molto spesso succede che il proibito attiri invincibilmente.
Chiama legge questo fardello pesante e opprimente, perché secondo il divino giudizio è stata assegnata e imposta come giusta punizione da colui che aveva preavvertito l'uomo, dicendo: Il giorno in cui mangerete [ dell'albero ], voi morirete. ( Gen 2,17 )
Questa legge si oppone alla legge dello spirito che dice: Non desiderare; in essa si allieta l'uomo, che è secondo l'uomo interiore.
E prima che qualcuno sia sotto la grazia, la legge si oppone a tal punto da renderlo schiavo della legge del peccato, cioè di se stessa.
Quando poi dice: che è nelle mie membra, mostra che è la stessa di cui ha detto prima: Vedo un'altra legge nelle mie membra. ( Rm 7,23 )
Ora tutto ciò è detto per dimostrare all'uomo incatenato che non deve presumere delle proprie forze.
Per questo rimproverava ai Giudei, che si gloriavano orgogliosamente delle opere della legge, di lasciarsi trascinare dalla concupiscenza a cose illecite, mentre la legge, di cui si gloriavano, prescrive: Non desiderare.
Deve dunque dire umilmente l'uomo vinto, condannato, incatenato e, dopo aver ricevuto la legge, più trasgressore che vincitore, deve esclamare umilmente: Sono uno sventurato!
Chi mi libererà da questo corpo di morte?
La grazia di Dio per mezzo di Gesú Cristo nostro Signore. ( Rm 7,24-25 )
Ecco infatti ciò che rimane al libero arbitrio in questa vita mortale: che l'uomo non adempia la giustizia secondo la sua volontà, ma che si volga con pietà supplicante a colui che gli dona di poterla attuare.
A proposito di tutto il contesto del discorso dell'Apostolo, di cui abbiamo trattato, qualcuno ritiene che Paolo ha considerato cattiva la legge, perché afferma: La legge sopraggiunse perché sovrabbondasse il delitto; ( Rm 5,20 ) e: Il ministero della morte inciso in lettere di pietra; ( 2 Cor 3,7 ) e: La forza del peccato è la legge; ( 1 Cor 15,56 ) e: Voi siete morti alla legge mediante il corpo di Cristo, per appartenere ad un altro che è risorto dai morti; e: Le passioni peccaminose, stimolate dalla legge, si scatenavano nelle nostre membra al fine di portare frutti per la morte; ora però siamo stati liberati dalla legge di morte, sotto la quale eravamo tenuti, per servire nella novità dello Spirito e non nella vetustà della lettera; ( Rm 7,4-6 ) e se troviamo che l'Apostolo ha detto altre cose simili, riflette dunque che sono state dette per mostrare che la legge rinvigorisce la concupiscenza con la proibizione e incatena il reo con la trasgressione, comandando ciò che gli uomini a causa della debolezza non possono compiere, a meno che non ricorrano devotamente alla grazia di Dio.
Per questo si dice che stanno sotto la legge che li domina.
Ora essa domina quelli che punisce e punisce tutti i trasgressori.
D'altra parte quelli che hanno ricevuto la legge, la trasgrediscono a meno che non ottengano per grazia di adempiere ciò che comanda.
Così ora avviene che non domina più su coloro che sono sotto la grazia e l'osservano mediante la carità, i quali, prima soggetti al suo timore, erano condannati.
Se poi le affermazioni precedenti spingono a ritenere che l'Apostolo biasima la legge, che faremo di queste parole: Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio? ( Rm 7,22 )
Cosí dicendo elogia senza dubbio la legge.
Sentendo questo, essi rispondono che l'Apostolo qui parla di un'altra legge, cioè della legge di Cristo non di quella data ai Giudei.
Chiediamo dunque loro a quale legge si riferisce: La legge poi sopraggiunse perché abbondasse il delitto. ( Rm 5,20 )
Rispondono che si tratta senza alcun dubbio di quella ricevuta dai Giudei.
Vedi dunque se è la stessa di cui si dice: Prendendo occasione dal comandamento, il peccato ha prodotto in me ogni concupiscenza. ( Rm 7,8 )
Che altro è: Ha prodotto in me ogni concupiscenza, se non ciò che si ritrova qui: perché abbondasse il peccato?
Vedi ancora se concorda anche questa affermazione: perché il peccato apparisse oltremisura peccaminoso per mezzo del comandamento. ( Rm 7,13 )
In effetti la frase: perché apparisse oltre misura peccaminoso è identica a questa: perché abbondasse il peccato.
Se avremo dunque dimostrato che è buono il comandamento da cui il peccato, prendendo occasione, ha prodotto ogni concupiscenza per oltrepassare ogni misura, dimostreremo ugualmente che è buona la legge che è sopraggiunta perché abbondasse il delitto, vale a dire perché il peccato producesse ogni concupiscenza e oltrepassasse ogni misura.
Ascoltino pertanto lo stesso Apostolo che dice: Che diremo dunque?
Che la legge è peccato? No certamente! ( Rm 7,7 )
Questo, essi affermano, si dice della legge di Cristo, cioè della legge della grazia.
Rispondano allora di quale legge intendono ciò che segue: Però io non ho conosciuto il peccato se non per la legge.
Infatti non conoscevo la concupiscenza, se la legge non avesse detto: " Non desiderare ".
Prendendo pertanto occasione dal comandamento il peccato ha prodotto in me ogni concupiscenza. ( Rm 7,7-8 )
Ecco che lo stesso contesto delle parole indica a sufficienza di quale legge ha detto: La legge è peccato? No certamente!
Evidentemente di quella per la quale il comandamento diede occasione al peccato, scatenando ogni concupiscenza.
Di quella che sopraggiunse perché abbondasse il delitto e che essi ritengono cattiva.
Ma cosa c'è di più chiaro di ciò che dice poco dopo: Così la legge è santa e santo, giusto e buono è il comandamento? ( Rm 7,12 )
Essi ripetono ancora che non si tratta della legge data ai Giudei ma del Vangelo.
La perversità dei Manichei è quindi cieca oltre ogni dire.
Non si preoccupano affatto del seguito molto chiaro ed evidente: Ciò che è bene è allora diventato morte per me? No davvero!
Ma il peccato, per rivelarsi peccato, mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché il peccato apparisse oltre misura peccaminoso per mezzo del comandamento, ( Rm 7,13 ) cioè per mezzo del comandamento santo, giusto e buono, che è sopraggiunto perché abbondasse il peccato, ossia apparisse peccato oltre misura.
Se la legge è buona, perché dunque è detta: ministero della morte? ( 2 Cor 3,7 )
Perché il peccato per rivelarsi peccato mi ha dato la morte servendosi di ciò che è bene.
Non meravigliarti, poiché della stessa predicazione del Vangelo è detto: Noi siamo davanti a Dio il buon profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; per gli uni odore di vita per la vita e per gli altri odore di morte per la morte. ( 2 Cor 2,15-16 )
La legge è stata infatti chiamata ministero di morte per i Giudei: per essi è stata scritta anche sulla pietra a significare la loro durezza, non per coloro che l'osservano con amore.
Infatti pieno compimento della legge è l'amore. ( Rm 13,10 )
La medesima legge, impressa in lettere di pietra, dice infatti: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare, ( Es 20,13-17 ) ecc.
L'Apostolo afferma che questa legge si osserva con amore, quando dice: Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge.
Infatti non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: " Amerai il prossimo tuo come te stesso "; ( Rm 13,8-9 ) perché anche questo sta scritto nella medesima legge.
Se la legge è buona, perché la forza del peccato è la legge? ( 1 Cor 15,56 )
Perché il peccato ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, per apparire oltre misura, cioè per rafforzarsi maggiormente a causa della trasgressione.
Se la legge è buona, perché siamo morti alla legge mediante il corpo di Cristo? ( Rm 7,4 )
Perché siamo morti al dominio della legge, liberati da quel desiderio che la legge punisce e condanna.
Nel modo più comune si chiama infatti legge quando minaccia, atterrisce, castiga.
Per questo lo stesso comando è legge per chi teme, è grazia per chi ama.
Di qui il detto evangelico: La legge fu data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesú Cristo. ( Gv 1,17 )
La stessa legge, che fu data per mezzo di Mosé per ispirare timore, è quindi diventata per mezzo di Gesú Cristo grazia e verità per osservarla.
Dire: Siete morti alla legge è dunque uguale a dire: Siete morti al castigo della legge mediante il corpo di Cristo, grazie al quale sono perdonati i peccati, meritevoli di giusto castigo.
Se la legge è buona, perché [ sussistono ] le passioni peccaminose stimolate dalla legge? ( Rm 7,5 )
Per quelle passioni peccaminose, di cui si è già frequentemente parlato, ha qui voluto intendere l'aumento della concupiscenza a causa del divieto e il reato della pena a causa della trasgressione; vale a dire che [ il peccato ] ha dato la morte servendosi di ciò che è bene, perché fosse oltre misura peccaminoso o peccato per mezzo del comandamento. ( Rm 7,13 )
Se la legge è buona, perché siamo stati liberati dalla legge di morte, che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello spirito e non nel regime vecchio della lettera? ( Rm 7,6 )
Perché la legge è lettera per chi non l'osserva mediante lo spirito di amore, con cui appartiene al Nuovo Testamento.
Per questo i morti al peccato sono liberati dalla lettera che tiene prigionieri coloro che non adempiono quanto sta scritto.
La legge infatti è semplice lettera per coloro che la sanno leggere e non possono osservarla.
Non è infatti sconosciuta a coloro per i quali è stata scritta; ma poiché è conosciuta soltanto in quanto si legge scritta e non in quanto si osserva con amore, per costoro non è altro che lettera: lettera che non aiuta i lettori ma accusa i peccatori.
Dalla sua condanna sono quindi immuni coloro che sono rinnovati nello spirito al fine di non essere più obbligati al castigo della lettera ma uniti allo spirito mediante la giustizia.
Di qui il detto: La lettera uccide, lo spirito invece dà vita. ( 2 Cor 3,6 )
La legge infatti, letta soltanto e non compresa o non osservata, certamente uccide: per questo si chiama lettera.
Lo Spirito invece dà vita, perché pienezza della legge è la carità, che è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. ( Rm 5,5 )
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