Omelie sulle Beatitudini |
Non siamo ancora saliti sulla cima, ma siamo appena alle pendici del monte dei pensieri.
Sebbene noi abbiamo già superato due cime, elevati attraverso le beatitudini alla beata povertà e alla mitezza, che è più in alto della povertà, il Logos ci conduce oltre verso cime più sublimi e ci mostra nelle beatitudini anche la terza, successiva altura.
Noi dobbiamo correre verso questa cima, rifuggendo da ogni lentezza e dal peccato, che è sempre in agguato con i suoi allettamenti, come dice l'Apostolo ( Eb 12,22 ), affinché, divenuti leggeri ed agili sulla vetta, ci avviciniamo, grazie all'anima, alla luce più pura della verità.
Perché dunque viene detto: « Beati coloro che piangono, perché saranno consolati »?
Riderà colui che ha una mentalità mondana e dileggerà il Logos.
Se sono chiamati beati coloro che passano la vita in ogni sorta di disgrazie, conseguentemente saranno stimati miseri coloro che conducono un'esistenza esente da dolori e da sciagure.
E così, enumerando le specie delle disgrazie, aumenterà la derisione generale, mentre costui presenta alla sguardo i mali della vedovanza, le pene dell'essere orfani, le perdite finanziarie, le sciagure navali, l'esser fatti prigionieri in guerra, le sentenze ingiuste in tribunale, l'esilio, le confische di proprietà, la perdita dell'onore.
Ricorderà le disgrazie portate dalle malattie, come mutilazioni e amputazioni ed ogni sorta di deturpamento fisico.
Esporrà dettagliatamente nel suo discorso, qualsiasi genere di male si presenti in questa vita agli uomini, colpisca esso il corpo o l'anima.
Grazie a ciò costui mostrerà, seguendo la sua opinione, quanto siano ridicole le parole che chiamano beati coloro che piangono.
Ma noi che siamo poco preoccupati di coloro che hanno una considerazione meschina e misera dei pensieri di Dio, ci occuperemo, per quanto possibile, della ricchezza profonda che giace in ciò che è stato detto, affinché sia chiaro, anche attraverso questa spiegazione, quanto è grande la differenza della mentalità carnale e mondana, da quella sublime e celeste.
É facile, in un primo momento, ritenere beato quel pianto che segue gli errori ed i peccati, secondo l'insegnamento di Paolo sulla tristezza.
Egli dice ( 2 Cor 7,10 ) che non esiste un'unica forma di tristezza, ma una è mondana, l'altra opera secondo Dio.
Il frutto della tristezza mondana è la morte; l'altra opera la salvezza negli afflitti grazie alla conversione.
Un simile dolore dell'anima non può essere considerato estraneo all'essenza stessa della beatitudine, dal momento che l'anima, avvertito il deterioramento, deplora la vita passata nel vizio.
E come nelle malattie fisiche in cui una qualche parte del corpo sia diventata inerte per un danno ricevuto: l'assenza di dolore è segno che la parte è morta, ma se, grazie ad una particolare cura medica, la sensibilità vitale è restituita di nuovo al corpo, sia il paziente, che prova pena, sia i dottori, che gli somministrano la cura, gioiscono della parte che già torna a provar dolore, ritenendo un ottimo argomento di guarigione, del mutarsi, cioè, della malattia in salute, il fatto che la parte torna ad avvertire ciò che le provoca sensazioni dolorose.
Così, come dice l'Apostolo, alcuni, dopo aver consegnato se stessi ad una vita di peccato senza più dolersene, divenuti come morti ed inerti nei confronti della vita virtuosa, non si rendono per nulla conto di ciò che fanno; se però una parola medicamentosa avesse presa su di loro, curandoli con dei rimedi come medicamenti brucianti e bollenti ( parlo delle cupe minacce del giudizio futuro ) e sconvolgesse il loro cuore profondamente con la paura di ciò che li attende ( paura della geenna, del fuoco inestinguibile, del verme che non muore, dello stridore di denti, del pianto perpetuo e delle tenebre esteriori ) e strofinando su di loro, che sono intorpiditi dai piaceri, ogni genere di medicamento, come i farmaci amari e bollenti, li riconducesse a rendersi conto della vita in cui si trovano, questa parola li renderebbe beati avendo procurato alla loro anima quella dolorosa sensazione.
Nello stesso modo anche Paolo fustiga con la parola colui che ha violato il letto nuziale del padre, fino a quando non prende coscienza del suo peccato.
Dopo che la medicina della correzione ha penetrato quell'uomo, egli inizia a consolarlo, come se fosse già divenuto beato per il pianto, « perché - egli dice - non venga assorbito da un dolore troppo forte » ( 2 Cor 2,7 ).
Anche questa riflessione, relativa alla considerazione propostaci dalla beatitudine, che passa, in un certo qual modo, attraverso la sovrabbondanza del peccato della natura umana, non ci sia inutile per una vita da condurre secondo virtù; ci è stato ora mostrato il pianto della conversione come rimedio.
Ma a me sembra che il Logos voglia significare qualche cosa di più profondo di ciò che è stato ora detto sulla durevole efficacia del pianto, consigliandoci di pensare qualche cosa d'altro a questo riguardo.
Se infatti ci volesse indicare solo il pentimento dell'errore, sarebbe più conseguente chiamare beati coloro che hanno pianto, non coloro che piangono sempre.
Come, nel paragone con la vita passata nella malattia, secondo l'esempio precedente, chiamiamo beati coloro che sono stati curati, non coloro che vengono curati sempre: il durare della cura, infatti, è segno del persistere dell'infermità.
Anche per un'altra ragione a me sembra giusto non rimanere ancorati a quell'unica considerazione, come se il Logos avesse attribuito la beatitudine solo a coloro che piangono per i peccati.
Troveremo, infatti, molti uomini che hanno condotto una vita irreprensibile e la cui virtù, secondo la testimonianza della stessa voce divina, fu lodevole in ogni cosa.
Quale avidità troviamo in Giovanni, quale idolatria in Elia?
Che peccato, piccolo o grande, la storia riconosce nella loro vita?
E che dunque? Forse il Logos riterrà estranei alla beatitudine coloro che fin da principio non si sono ammalati e non sono ricorsi all'efficacia di quel rimedio ( intendo il pianto della conversione )?
Non sarebbe assurdo credere che simili uomini siano da respingere dalla beatitudine divina perché non peccarono e non curarono il loro peccato con il pianto?
O forse sarà più pregevole peccare piuttosto che vivere senza peccato, se solo a coloro che si convertono viene attribuita la grazia del Consolatore?
« Beati coloro che piangono - Egli dice infatti - perché saranno consolati ».
Seguendo, dunque, per quanto è possibile, Colui che fa salire alle vette più alte, come dice il profeta Abacuc, mettiamoci di nuovo alla ricerca del significato delle parole dette, affinché impariamo a quale tipo di pianto viene offerta la consolazione dello Spirito Santo.
Vedremo prima di tutto, una buona volta, che cosa sia nella vita umana il pianto e per quale ragione si verifichi.
É chiaro per tutti che il pianto è una cupa disposizione dell'anima, che si verifica per una privazione di ciò che risulta desiderato.
Tale disposizione non trova spazio in coloro che trascorrono una vita lieta.
Prendiamo per esempio un uomo fortunato nella vita a cui tutto va secondo corrente, dolcemente: egli si allieta della sposa, gode dei suoi figli, è fortificato dall'aiuto dei suoi parenti; è rispettato nel foro e stimato dai potenti; è terribile per gli avversari e non disprezza quelli a lui soggetti; è disponibile con gli amici, ricco, piacevole, affabile, privo di dolori, con un fisico vigoroso: egli ha tutto quanto sembra essere apprezzato in questo mondo.
Un uomo tale esulta di gioia per ciascuna delle cose che gli offre il presente.
Se però lo colpisce un mutamento di questa prosperità ( una separazione da chi è a lui più caro o una perdita di proprietà o un danno alla salute arrecato da una qualche disgrazia ), allora, con il venir meno di ciò che lo allieta, nascerebbe la disposizione contraria che prima abbiamo chiamato pianto.
É dunque vero il discorso fatto prima a questo proposito, cioè che il pianto è la sensazione dolorosa per la privazione di quello che piace.
Se abbiamo compreso che cosa sia il pianto dell'uomo, ciò che è chiaro sia guida a ciò che non è ancora conosciuto, perché diventi manifesto che cos'è il pianto che è chiamato beato a cui consegue la consolazione.
Se infatti in questo mondo la causa del pianto è la privazione dei beni che ci appartengono, nessuno si dovrebbe lamentare della perdita di un bene sconosciuto.
Conviene prima conoscere quale sia, una volta per tutte, veramente, questo bene, in seguito conviene considerare la natura umana.
Così infatti accadrà che conseguiremo cosa sia il pianto chiamato beato.
Prendiamo ad esempio coloro che vivono in un luogo tenebroso: c'è chi è stato partorito nella tenebra e chi, invece, abituato a godere della luce esterna, è recluso in seguito ad una violenza; la disgrazia presente non ha colpito entrambi nello stesso modo.
Uno, infatti, conoscendo ciò di cui è stato privato, ritiene grave la perdita della luce, l'altro, invece, non conoscendo del tutto tale dono, continua a vivere senza affliggersi, poiché, allevato nelle tenebre, ritiene di non essere privato di nessun bene.
Perciò il desiderio di godere della luce condurrà l'uno ad escogitare ogni stratagemma per vedere di nuovo ciò di cui è stato privato con la violenza; l'altro, invece, invecchierà vivendo nelle tenebre, poiché ignora il meglio, giudicando buona per sé la situazione presente.
Così è anche nella considerazione proposta.
Colui che ha potuto contemplare il vero bene e poi ha preso coscienza della povertà della natura umana, riterrà la sua anima completamente sventurata, perché la vita presente non trascorre in quel bene.
A me, dunque, sembra che il Logos chiami beato non il dolore ma la conoscenza del bene a cui sopraggiunge l'affezione del dolore, perché nella vita non è presente ciò che si cerca.
É conseguente, dunque, ricercare quale sia mai quel bene da cui la tenebrosa caverna della natura umana in questa vita non è illuminata.
Il nostro desiderio non volge forse lo sguardo verso ciò che è indeterminabile e incomprensibile?
Quale dei nostri ragionamenti è in grado di investigare la natura di ciò che cerchiamo?
Quale significato di nomi o parole può darci un'idea adeguata alla luce superiore?
Come chiamerò ciò che non può essere contemplato?
Come esporrò ciò che è immateriale?
Come mostrerò ciò che sfugge alla vista?
Come comprenderò ciò che non ha grandezza, quantità, qualità, ciò che sfugge ad ogni raffigurazione?
Ciò che non si trova in nessun punto dello spazio e del tempo?
Ciò che non rientra in nessun confine e sfugge ad ogni tentativo di limitazione da parte dell'immaginazione?
Ciò la cui opera è vita, ed è la sostanza di tutto ciò che è pensato come bene?
Ciò in relazione a cui la contemplazione del pensiero coglie i concetti ed i nomi più elevati?
Divinità, regno, potenza, eternità, incorruttibilità, letizia ed esultanza e qualsiasi concetto o parola elevata.
In che modo, dunque, e con quali ragionamenti può offrirsi alla vista ciò che viene contemplato senza essere visto, che dona l'essere a tutti gli enti, che, essendo lui stesso ciò che sempre è, non ha bisogno di divenire?
Ma perché il nostro discorso non si sforzi invano, tendendo verso quelle realtà che sono incomprensibili, cessiamo di investigare sulla natura dei beni superiori, dal momento che è impossibile che tale realtà giunga alla nostra comprensione; dalla nostra ricerca abbiamo guadagnato solo tanto quanto è possibile dedurre dal fatto stesso di non poter vedere ciò che cerchiamo: farsi un'idea della grandezza delle realtà che sono oggetto della nostra ricerca.
Quanto più crediamo che il bene è, per sua natura, superiore alla nostra conoscenza, tanto più cresce in noi il pianto, perché il bene da cui per sorte siamo separati, è di natura così elevata e grande, che non possiamo contenere neppure la sua conoscenza.
Di questo bene, che supera ogni facoltà di comprensione, noi eravamo una volta partecipi.
La partecipazione a quel bene che supera ogni pensiero era tale nella nostra natura, che l'essere umano, formato ad immagine del prototipo, secondo una perfetta somiglianza, sembrava essere un secondo bene.
Tutti quegli aspetti che noi ora contempliamo a livello congetturale, relativamente a quel bene, riguardavano anche l'uomo in una condizione di incorruttibilità e di beatitudine: l'esser padroni di se stessi e non essere soggetti alla signoria di nessun altro; una vita libera dai dolori e dagli affanni e trascorsa nei luoghi più divini; l'uomo godeva anche di una contemplazione del bene pura e spoglia di ogni velo.
Tutto questo, in poche parole, ci indica enigmaticamente il racconto della creazione, quando dice che l'uomo è creato ad immagine di Dio, vive in paradiso e si nutre di ciò che cresce in quel luogo.
Vita e conoscenza, poi, e le realtà simili, sono frutto di quelle piante.
Se dunque tutto questo ci apparteneva, come potrebbe non dolersi della disgrazia chi confronti, contrapponendole nel paragone, la presente miseria con la beatitudine di allora?
Ciò che era stato esaltato è stato abbassato; ciò che era anche fatto secondo un'immagine celeste fu ricondotto in terra; ciò che era stato destinato a regnare, fu ridotto in schiavitù; ciò che era destinato alla creazione immortale, fu corrotto dalla morte; ciò che trascorreva la vita nella delizia del paradiso, fu trasferito in questo luogo di malattie e di fatiche; ciò che si nutriva di impassibilità ha preso in cambio la vita soggetta alle passioni e caduca; ciò che era libero da servaggio e padrone di sé, ora è tiranneggiato da tanti e tanti mali che non è neppure possibile contare il numero dei tiranni.
Ciascuna delle passioni che si agita in noi, infatti, qualora abbia preso il sopravvento, diventa padrona di chi ha reso schiavo.
Impossessatasi, infatti, dell'acropoli dell'anima, come un tiranno, la passione maltratta chi le è assoggettato tramite gli stessi sudditi, facendo uso dei nostri ragionamenti come dei servi, per ciò che le pare; così l'ira, la paura, l'ignavia, l'audacia, la passione del dolore e del piacere, l'odio, la vendetta, la mancanza di pietà, la rudezza, l'invidia, l'adulazione, la memoria delle offese e l'indolenza e tutte le passioni che pensiamo contrapposte in noi, sono l'enumerazione dei tiranni e dei padroni che asserviscono l'anima al proprio potere come un prigioniero di guerra.
Se poi si considerassero le disgrazie che colpiscono il corpo, quelle che sono intrecciate ed unite alla nostra natura ( intendo tutte le specie di malattie di cui il genere umano non aveva esperienza in origine ) le nostre lacrime aumenterebbero in gran misura, considerando, nel confronto, i dolori contro i beni, dopo aver opposto i mali alle realtà migliori.
Colui che chiama beato il pianto sembra dunque dare questo ineffabile insegnamento: l'anima volga lo sguardo verso il vero bene e non si immerga nell'inganno della vita presente.
Non è possibile, infatti, vivere senza lacrime per chi consideri attentamente la realtà e non ritenere immerso nei dolori colui che è sprofondato nei piaceri della vita.
La stessa cosa è possibile osservare negli animali; la costituzione della loro natura è degna di pietà ( che cosa c'è, infatti, di più penoso della privazione della ragione? ); essi non hanno nessuna coscienza della loro sorte sventurata e conducono la vita secondo un determinato piacere; il cavallo se ne va superbo; il toro si prepara alla lotta sollevando la polvere; il cinghiale rizza le setole; i cagnolini giocano; i vitelli saltano qui e là ed è possibile vedere ciascuno degli animali manifestare il piacere attraverso segni particolari; se essi avessero una qualche conoscenza del dono della ragione, non lascerebbero regolare la loro vana e misera vita dal piacere.
Così è anche per gli uomini che non hanno alcuna conoscenza dei beni di cui la nostra natura è stata privata; questi trascorrono la vita presente nel piacere.
É conseguente al trascorrere la vita presente nei piaceri il non ricercare le realtà migliori.
Ma se uno non cerca non troverà ciò che tocca in sorte solo a coloro che ricercano.
Il Logos chiama dunque beato il pianto, non perché lo giudichi qualche cosa di felice in se stesso, ma per ciò che segue ad esso.
Il discorso, nel suo insieme, mostra che per gli uomini è beato il pianto in relazione alla consolazione.
Dice infatti il Signore: « Beati coloro che piangono » e non termina qui il discorso, ma aggiunge: « Perché essi saranno consolati ».
Colui che preconobbe questa verità fu, a mio parere, il grande Mosè nelle mistiche osservanze della Pasqua ( o, piuttosto, fu il Logos che le predispose in lui ); egli prescrisse al suo popolo pane azzimo nei giorni festivi ( Es 12,8 ).
Per il pasto, poi, come companatico, egli stabilì le erbe amare, affinché imparassimo, attraverso simili enigmi, che non si può aver parte a quella mistica festa in altro modo, che mescolando liberamente le amarezze di questa esistenza con la vita semplice ed azzima.
Anche il grande Davide, pur vedendo il culmine della fortuna umana a cui era giunto ( intendo il regno ), aggiunse con larghezza « erbe amare » alla sua vita, languendo nel gemito e piangendo per il prolungamento del suo soggiorno nella carne; egli, venendo meno per il desiderio di realtà più grandi, esclama: « Ahimè, perché il mio soggiorno fu prolungato? » ( Sal 120,5 ).
Altrove, tenendo fisso lo sguardo ai tabernacoli divini, egli dice di esser venuto meno dal desiderio, giudicando molto più prezioso per sé essere tra gli ultimi là, piuttosto che primeggiare nel presente ( Sal 84 ).
Se uno volesse conoscere in modo più profondo la potenza di questo pianto che viene chiamato beato, consideri tra sé il racconto di Lazzaro e del ricco, in cui la dottrina ci si rivela più apertamente.
« Ricordati - dice Abramo al ricco - che tu hai già ricevuto la tua parte di beni durante la vita, similmente Lazzaro la sua parte di mali; perciò ora egli è consolato, tu, invece, soffri » ( Lc 16,25 ).
E ciò risulta giusto, poiché l'assenza di volontà, o piuttosto la cattiva volontà ci ha allontanato dal disegno buono che Dio ha stabilito per l'uomo.
Infatti, nonostante Dio avesse prescritto che il nostro godimento del bene fosse scevro di male e avesse proibito che si mescolasse al bene l'esperienza di ciò che è male, poiché noi, per la nostra voracità, ci riempimmo volontariamente del contrario ( intendo, cioè, quando gustammo della disobbedienza alla parola di Dio ), per questo la natura umana deve ora fare esperienza di entrambi, partecipare in parte al pianto e in parte alla gioia.
Poiché ci sono due dimensioni dell'esistenza e la vita viene considerata in duplice modo, proprio a ciascuna delle due dimensioni, per questo vi sono anche due tipi di gioia: una in questa esistenza, l'altra in quella che è proposta alla nostra speranza.
Dovremmo stimare cosa beata il riservarci per la vita eterna la parte di gioia relativa ai veri beni e portare a compimento l'onere del dolore in questa vita breve e fugace, stimando un danno non l'esser privati di qualcuno dei piaceri di questo mondo, ma l'essere sviati dalle realtà migliori per il godimento dei piaceri.
Se dunque è considerata cosa beata il possedere, nei secoli infiniti, la gioia senza fine, che dura per sempre, bisogna che l'umana natura abbia gustato anche le realtà contrarie.
Non è più difficile, ora, vedere il senso delle parole: « beati coloro che ora piangono »: essi, infatti, saranno consolati per i secoli infiniti, la consolazione avviene mediante la partecipazione del Consolatore.
Il dono della consolazione è infatti azione propria dello Spirito di cui anche noi possiamo essere resi degni, per grazia del Signore nostro Gesù Cristo, a cui è la gloria per i secoli dei secoli.
Amen.
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