La Verginità |
Lettera che anticipa quanto viene esposto in seguito, consistente in un'esortazione alla vita virtuosa
Lo scopo del trattato è d'infondere in coloro che lo leggeranno il desiderio della vita virtuosa.
Poiché, come dice il divino apostolo, la vita secolare è soggetta a molte distrazioni, il nostro scritto non può fare a meno di raccomandare la vita basata sulla verginità come porta d'ingresso ad una condotta più saggia: per coloro che si trovano impigliati nella vita comune non è facile, in effetti, attendere con la necessaria serenità di spirito alla vita più divina, mentre coloro che si sono totalmente staccati dal turbine della vita secolare hanno maggiori possibilità di dedicarsi ininterrottamente alle più alte occupazioni.
L'esortazione non riesce da sola a persuadere, e con il semplice discorso non è facile indurre o spronare qualcuno a fare qualcosa di utile, se prima non si fa vedere la nobiltà dello scopo a cui si esorta l'ascoltatore; per questa ragione, il nostro discorso partendo dall'encomio della verginità termina con l'esortazione.
E poiché la bellezza di una determinata cosa è in un certo senso posta maggiormente in risalto dal raffronto con il suo contrario, abbiamo dovuto ricordare anche gli aspetti sgradevoli della vita secolare.
Quindi, seguendo il metodo migliore, abbiamo dato uno schizzo della vita spirituale, e fatto vedere come colui che è assorbito dai pensieri del mondo non possa raggiungerla.
I desideri corporei sono sopiti in coloro che hanno rinunziato al mondo; di conseguenza, abbiamo cercato di dare un contorno preciso a quello che deve essere il vero oggetto dei nostri desideri: proprio in vista di quest'oggetto abbiamo ricevuto dal creatore della nostra natura la facoltà di desiderare.
Una volta che l'avremo rivelato nei limiti delle nostre possibilità, potremo anche pensare al modo di conseguire questo bene.
La vera verginità, quella che purifica da tutte le sozzure prodotte dai peccati, si rivela dunque adatta a tale intento, di modo che tutta la parte centrale del nostro discorso, anche se dà l'impressione di trattare altri argomenti, mira in realtà al suo encomio.
Per non dilungarsi troppo, il trattato ha preferito sorvolare sulle regole particolari proprie di tale tipo di vita, praticate da coloro che perseguono questo nobile ideale: introducendo le sue esortazioni con consigli più generali, esso abbraccia in un certo senso anche le questioni singole, in modo da non tralasciare quanto è necessario e da evitare una lunghezza eccessiva.
Data l'abitudine che tutti hanno di dedicarsi più volentieri a quell'occupazione da cui vedono altri acquistare fama, non abbiamo potuto non ricordare i santi che sono divenuti illustri con il celibato.
Ma poiché gli esempi riportati nella narrazione non valgono a realizzare la virtù quanto la viva voce ed i buoni esempi viventi, abbiamo dovuto ricordare verso la fine del trattato il nostro piissimo vescovo e padre come il solo che è capace di educare a tale norma di vita.
Non ne abbiamo ricordato il nome; mediante certe allusioni, il trattato fa però capire che è proprio lui la persona di cui si parla.
In tal modo, coloro che in futuro lo leggeranno non solo non giudicheranno inutile il consiglio che esorta i giovani a frequentare la compagnia di un uomo morto, ma, pensando soltanto a come deve essere il maestro di tale vita, saranno anche in grado di scegliersi come guide coloro che la grazia divina avrà mostrato degni di sovrintendere ad una condotta di vita conforme alla virtù: o troveranno la persona che cercano, o sapranno bene come bisogna essere.
Il tipo nobile di verginità, onorato da tutti coloro che fanno consistere la bellezza nella purezza, si trova soltanto in chi è benevolmente assistito dalla grazia divina nella sua lotta per la realizzazione di questo bel desiderio, e riceve quindi una lode adeguata dall'aggettivo che l'accompagna.
Il termine « incorruttibile », che molti usano abitualmente per caratterizzare la verginità, è infatti indice della sua purezza.
Grazie a tale termine equivalente è possibile comprendere la superiorità ed il pregio di questa grazia, giacché tra i tanti modi in cui la virtù si realizza, solo essa è stata onorata con l'appellativo « incorruttibile ».
Se poi bisogna glorificare con elogi questo grande dono di Dio, a garantire la sua fama basta il divino apostolo, che sotto poche parole ha nascosto tutti i più alti encomi, chiamando santa ed irreprensibile colei che se ne è adornata.
Se la nobile verginità si realizza quando si diventa irreprensibili e santi ( a ragione questi appellativi si applicano in primo luogo al Dio incorruttibile ), quale lode della verginità è più grande di quella che, servendosi proprio di tali aggettivi, la mostra nell'atto di deificare in un certo senso coloro che sono partecipi dei suoi puri misteri fino al punto di godere della gloria dell'unico Dio veramente santo ed irreprensibile e d'imparentarsi con lui grazie alla purezza ed all'incorruttibilità?
Coloro che dilungano le lodi in discorsi particolareggiati nell'intento di aggiungere qualcosa al carattere meraviglioso della verginità non si accorgono a mio giudizio di nuocere allo scopo che perseguono e di rendere sospetta la lode con le loro esaltazioni esagerate.
Le cose splendide della natura, quali il cielo, il sole o le altre meraviglie dell'universo, possiedono in se stesse il loro carattere meraviglioso e non hanno bisogno dell'apologia dei discorsi; soltanto alle occupazioni più umili il discorso fa da sostegno ed aggiunge una parvenza di grandezza, rievocando le lodi.
Per questo motivo si nutrono spesso dei sospetti nei confronti delle meraviglie approntate dai discorsi, come se si trattasse di cose sofisticate dagli uomini.
L'unica lode appropriata che si può fare della verginità consiste nel mostrare come questa virtù sia superiore agli elogi e nel provare la propria ammirazione per la purezza più con il proprio modo di vivere che con le parole.
Chi per ambizione la prende come argomento dei suoi encomi, se è convinto che è possibile magnificare con discorsi umani una grazia così grande, sembra vedere nella goccia prodotta dai suoi sudori un'aggiunta considerevole al mare infinito: o sopravvaluta la sue possibilità o non conosce ciò che loda.
Ci occorre una grande intelligenza per comprendere la sublimità di questa grazia, che è pensabile nel Padre incorruttibile; ma la cosa più straordinaria è che la verginità si trova nel Padre che pure ha un figlio che ha generato senza essere soggetto a passioni.
Parimenti la si rivede nel Dio unigenito dispensatore d'incorruttibilità, nel momento in cui risplende nella sua generazione pura e scevra da passioni.
Altro fatto ugualmente straordinario è rappresentato dal Figlio, quando si pensa che è nato dalla verginità.
Allo stesso modo si può contemplare questo stato nella purezza incorruttibile propria della natura dello Spirito Santo: quando si parla di purezza e d'incorruttibilità, con questi due termini si allude proprio alla verginità.
Essa si accompagna anche alle nature ultramondane; grazie alla mancanza di passioni, è presente nelle potenze superiori, senza mai separarsi dalle nature divine e senza mai attaccarsi a quelle opposte.
Tutti gli esseri che o per natura o per libera scelta si rivolgono alla virtù si vantano della purezza e dell'incorruttibilità; e tutti gli esseri a cui è stata assegnata una collocazione opposta sono quello che sono e vengono chiamati così come vengono chiamati proprio perché hanno perso la purezza.
Quale discorso sarà dunque così potente da eguagliare una grazia così grande?
O come non bisogna temere di nuocere con delle lodi ricercate allo splendore di una cosa così sublime, rendendo la sua gloria inferiore all'idea che se ne erano fatta gli ascoltatori?
Poiché è impossibile elevare il discorso all'altezza dell'argomento, è meglio lasciare da parte ogni encomio della verginità e, nei limiti del possibile, ricordare sempre questa grazia divina parlando del bene che, pur essendo una proprietà ed un privilegio della natura incorporea, è stato elargito dall'amore di Dio a coloro che hanno ottenuto la vita per mezzo della carne e del sangue: è proprio quest'amore di Dio che, offrendo la partecipazione alla purezza come una mano soccorritrice, corregge la natura umana abbattuta dagli atteggiamenti passionali e la guida alla contemplazione delle cose superiori.
A mio parere, nostro Signore Gesù Cristo, la fonte dell'incorruttibilità, è venuto al mondo senza aver bisogno dell'atto coniugale per mostrare, con il carattere della sua incarnazione, il grande mistero dovuto al fatto che la presenza e la venuta di Dio nel mondo possono trovare degna accoglienza solo in quella purezza che non si può realizzare in misura adeguata se non ci si estranea totalmente dalle passioni della carne.
Quello che si verificò fisicamente in Maria immacolata quando la pienezza della divinità risplendette in Cristo attraverso la verginità, si ripete anche in ogni anima che resta vergine seguendo la ragione, anche se il Signore non è più presente materialmente.
Dice infatti l'apostolo: « Non conosciamo più Cristo secondo la carne »; pur tuttavia, come ricorda un luogo del Vangelo, Egli si stabilisce spiritualmente nell'anima vergine e conduce con sé anche il Padre.
Poiché dunque la verginità è così potente da rimanere nei cieli presso il Padre degli spiriti, da danzare assieme alle potenze ultramondane e da inserirsi nello stesso tempo anche nell'economia della salvezza umana facendo scendere Dio con sé fino a renderlo partecipe della vita degli uomini, elevando l'uomo al desiderio delle cose celesti, divenendo come il legame di parentela tra l'uomo e Dio e rendendo concordi, grazie alla sua mediazione, le cose che per natura sono distanti tra loro, quale discorso risulterà mai capace di elevarsi alla sublimità di questa meraviglia?
Giacché però sarebbe del tutto fuori luogo dare l'impressione di essere come muti o insensibili e scegliere una di queste due alternative, o far mostra di non riconoscere la bellezza della verginità o apparire apatici ed inamovibili nei confronti della percezione delle cose belle, abbiamo pensato di dover dire poche cose su di essa per mostrare la nostra assoluta obbedienza verso chi ci ha ordinato di parlare su quest'argomento.
Nessuno però cerchi in noi discorsi enfatici: non avendo dimestichezza con questo modo di parlare, non potremmo farli neanche di proposito.
E se anche fossimo capaci di fare dell'enfasi, non preferiremmo acquistarci fama presso poche persone piuttosto che essere utili a tutti.
Penso che l'uomo assennato tra tutti i mezzi espressivi debba ricercare non quelli che lo rendono più ammirato rispetto alla massa, ma quelli con cui può giovare sia a se stesso che agli altri.
Potessi trarre anch'io qualche profitto da tale pratica di vita!
Con quanto maggiore entusiasmo mi sarei sobbarcato a questa fatica se, come dice la Scrittura, mi fossi impegnato nel mio discorso « animato dalla speranza di godere anch'io dei frutti dell'aratro e della trebbiatura »!
Ora invece la conoscenza della bellezza della verginità è per me in un certo senso vana ed inutile, così come lo sono « i prodotti della terra per il bue che munito di museruola rivolta il terreno dell'aia » o come lo è per l'assetato l'acqua che scorre giù da un precipizio quando non può essere raggiunta.
Beati coloro che possono scegliere liberamente le cose migliori e che non ne vengono tenuti lontani dopo essere stati catturati dalla vita comune!
Noi siamo invece separati come da un abisso dalla gloria della verginità, alla quale non può giungere chi ha cominciato ad imprimere le sue orme sul cammino della vita secolare.
Per questo noi non siamo che degli spettatori delle altrui bellezze e dei testimoni dell'altrui beatitudine: anche se ci siamo fatti una bella idea della verginità, la nostra sorte è simile a quella dei cuochi e dei servi, che fanno gustare ad altri la lussuosa tavola dei ricchi senza poter prendere nulla di ciò che è stato preparato.
Come saremmo stati felici se le cose non fossero andate così e se non avessimo conosciuto il bello in seguito ad un tardo pentimento!
Sono invece veramente invidiabili e si trovano in uno stato che non conosce preghiere e desideri coloro che non si sono preclusa la possibilità di godere di questi beni.
Come si crucciano e si addolorano per la loro condizione coloro che raffrontano il lusso della ricchezza con la propria povertà, così noi, quanto più riconosciamo la ricchezza della verginità, tanto più commiseriamo l'altro tipo di vita, e avendo in mente le cose migliori arriviamo a comprendere di quali e quanti beni esso sia privo.
Non parlo soltanto dei beni che la vita futura riserva a chi è vissuto secondo la virtù, ma anche di quelli che offre la vita presente.
Se si esaminasse con cura la differenza tra la nostra vita secolare e la verginità, si vedrebbe che tra le due vite esiste pressappoco lo stesso divario che c'è tra le cose terrene e quelle celesti; chi osserverà più da vicino i fatti potrà rendersi conto della verità delle mie parole.
Da dove si deve cominciare, per dipingere questa vita difficile con le tinte tragiche che le si addicono?
O come si possono portare sotto gli occhi i suoi mali comuni, che tutti conoscono per diretta esperienza e che tuttavia la natura riesce a nascondere non so come a coloro che pure li conoscono, data la propensione degli uomini ad ignorare i frangenti in cui si trovano?
Vuoi che cominciamo dagli aspetti più seducenti?
La prima cosa che si cerca nel matrimonio è il raggiungimento di una piacevole vita in comune.
Ammettiamo che questa si realizzi, e presentiamo pure un matrimonio felice sotto tutti i punti di vista: diamo per scontate la stirpe illustre, la ricchezza sufficiente, l'età coincidente, la bellezza fiorente, quella grande attrazione che si può supporre presente in ciascuno dei due più che nell'altro, e quella piacevole emulazione grazie alla quale ciascuno dei due vuol superare se stesso nelle manifestazioni amorose.
Aggiungiamo pure la fama, la potenza, la pompa, e tutto ciò che preferisci.
Considera però i dolori che necessariamente si accompagnano ai beni che abbiamo enumerato e che li consumano lentamente.
Non mi riferisco all'invidia di cui sono oggetto le persone illustri, né al fatto che il sembrare di essere fortunati nella vita attira le insidie degli uomini, e neppure al fatto che chiunque non gode di un bene in misura uguale è naturalmente portato ad invidiare chi sta meglio di lui, anche se per questi motivi la vita di chi sembra essere felice è insidiata dai sospetti e procura più dolori che piaceri.
Tralascio tutto ciò: ammettiamo pure che l'invidia non prenda di mira costoro, anche se è ben difficile trovare una persona a cui tocchino contemporaneamente questi due privilegi, quello di essere più felice degli altri e quello di non essere oggetto d'invidia.
Se vuoi, supponiamo priva di tutti questi mali la loro vita.
Vediamo piuttosto se può essere felice chi si trova in una simile situazione fortunata.
Tu mi chiederai: « Quale sarà mai allora questo dolore, se neanche l'invidia tocca le persone felici? ».
Io dico che è proprio l'assoluta felicità della loro vita a fare da esca al dolore.
Finché sono uomini - esseri mortali e caduchi - e guardano le tombe dei loro antenati, non possono separarsi dai dolori, tanto questi sono uniti alla loro vita: basta che abbiano un solo barlume di ragione.
L'attesa continua della morte, che non è riconoscibile con dei segni precisi e che data l'incertezza del futuro terrorizza come se fosse sempre imminente, guasta la felicità del momento e turba ogni gioia con la paura di ciò che si aspetta.
Fosse possibile sapere prima della prova quello che hanno subito coloro che sono stati provati!
Se infatti ci si potesse introdurre in questo tipo di vita con qualche sotterfugio per rendersi conto della situazione, quanti correrebbero spontaneamente ad abbracciare la verginità, abbandonando il matrimonio!
Come si starebbe attenti a non lasciarsi prendere dalle trappole che non offrono scampo!
Il dolore che esse procurano non lo si può immaginare con esattezza, se non si cade prigionieri delle loro reti.
Se fosse possibile guardare senza rischio, si vedrebbe la gran confusione prodotta dalle contrarietà, il riso mescolato alle lacrime, il dolore unito alla gioia, l'attesa della morte che è presente in tutti gli avvenimenti e che tocca ogni cosa piacevole.
Quando lo sposo vede il viso amato, subito s'insinua in lui anche la paura della separazione; e se sente la dolcissima voce della sposa, pensa al momento in cui non la sentirà più; e quando la contemplazione della bellezza lo fa gioire, allora soprattutto teme l'arrivo del dolore; se poi pensa ai pregi della giovinezza e a tutto ciò a cui ambiscono gli stolti, come lo sguardo che risplende sotto le ciglia, le sopracciglia che si stendono sopra gli occhi, la guancia dal sorriso dolce e delicato, le labbra fiorenti grazie al loro rosso naturale, i capelli folti, fermati da fili d'oro e risplendenti sul capo grazie alle trecce variegate, e tutti questi splendori caduchi, proprio allora, purché abbia un minimo d'intelligenza, comprende nel suo intimo che questa bellezza è destinata a dileguarsi, a dissolversi ed a svanire nel nulla: le sue attuali sembianze si tramutano in ossa fetide e ripugnanti, senza lasciare tracce, ricordi o resti della presente fioritura.
Se penserà a queste cose e ad altre simili, potrà forse vivere felice?
Potrà essere sicuro che i beni che gli sono a portata di mano gli rimarranno sempre?
Da quanto si è detto risulta invece chiaro che, come dopo un sogno ingannevole, si troverà nell'imbarazzo, non nutrirà più fiducia nella vita e considererà quelli che sembrano beni come cose a lui estranee: se ha un minimo di capacità di osservazione, capirà perfettamente che nessuna di quelle cose che nella vita ci appaiono come beni si rivela nella sua reale natura, giacché la vita stessa, servendosi di sembianze ingannevoli, ci mostra le cose diverse da quello che in realtà sono, inganna con vane illusioni chi crede ciecamente in lei, si nasconde sotto mentite spoglie ed infine, dopo varie vicissitudini, si rivela improvvisamente diversa dalle speranze umane, che s'introducono con l'inganno nella mente degli stolti.
Chi tiene conto di tutto questo quale valore potrà più dare ai piaceri della vita?
Quando potrà veramente godere, o gioire di quei beni che sembrano essere a sua disposizione?
Sconvolto dalla paura di eventuali cambiamenti, non rimarrà invece sempre insensibile al godimento dei beni di cui può disporre?
Tralascio i segni, i sogni e simili altre sciocchezze, cose tutte che una consuetudine insensata rende oggetto di una superstiziosa osservanza e che vengono interpretate nel senso peggiore.
Il momento del parto sorprende però la sposa; si pensa allora non alla nascita del figlio, ma alla presenza della morte, giacché il parto fa temere il decesso della madre incinta.
Molte volte gli sposi non sono stati ingannati da questi foschi presagi: prima di celebrare il genetliaco, prima di potere assaporare qualcuno dei beni in cui avevano sperato, subito vedono la loro gioia tramutarsi in pianto.
Ribollono ancora per l'incanto amoroso, sono ancora all'acme dei loro desideri, ancora non hanno potuto gustare i maggiori piaceri della vita, quando, come in un sogno, si trovano separati all'improvviso da tutti i beni che avevano a portata di mano.
E che cosa accade successivamente? La camera nuziale è saccheggiata dai familiari come da dei nemici: non è essa, ma la morte a menar vanto, grazie alla tomba.
In tale circostanza si levano invocazioni inutili, si battono invano le mani; si ricorda la vita precedente, si maledicono coloro che hanno consigliato le nozze, si rimproverano gli amici che non le hanno proibite; s'incolpano i genitori, vivi o morti che siano; ci si adira contro la vita umana, si accusa tutta la natura, la stessa provvidenza divina diventa oggetto di molti rimproveri e accuse; si combatte contro se stessi, si è in guerra con chi cerca di consigliare; non si indietreggia di fronte alle cose più strane, siano esse parole o fatti.
Spesso, quando il dolore trabocca e la ragione viene inghiottita dalla disperazione in un modo che desta sorpresa, la tragedia ha un epilogo ancora più amaro, giacché neanche il coniuge che è rimasto riesce a sopravvivere alla disgrazia.
Ma questo non si verifica.
Facciamo l'ipotesi migliore, supponendo che la sposa sia scampata ai pericoli del parto e che alla coppia sia nato un figlio, l'immagine stessa della bellezza dei genitori.
E allora? I motivi del cruccio sono forse per questo diminuiti, o non si sono piuttosto accresciuti?
I coniugi continuano ad avere le preoccupazioni di prima, ed in più hanno quelle per il figlio, nel timore che durante la crescita accada qualcosa di spiacevole, che si verifichi qualche disgrazia, o che qualche evento non desiderato sia foriero di malattie, di lesioni o di pericoli.
Queste sono le preoccupazioni comuni ad entrambi gli sposi; ma chi potrebbe enumerare quelle che affliggono in particolare la sposa?
Tralasciamo pure quelle banali e note a tutti, come il peso della gravidanza, il pericolo del parto, la fatica dell'allevamento, il fatto che un frammento del suo cuore se ne va con il figlio generato e che, se ha molti figli, la sua anima si divide in tante parti quanti sono i figli che ha avuto, di modo che essa sente nelle proprie viscere ciò che accade a ciascuno di loro.
Ma perché parlare di tutte queste cose, universalmente note?
Poiché però, come dice il divino oracolo, la sposa « non è padrona di se stessa » ma « va da colui che in virtù del matrimonio è il suo padrone », anche se si separa per poco tempo dal marito, è come se fosse separata dalla propria testa: non sopporta la solitudine, ma considera anche una breve lontananza dello sposo come un'esercitazione alla vedovanza.
La paura le fa subito dimenticare le speranze più belle.
Per questo, piena di turbamento e di spavento, rimane con l'occhio fisso sull'ingresso di casa, mentre le sue orecchie ascoltano tutte le chiacchiere che si dicono intorno; il suo cuore è come frustato dalla paura, e prima ancora che giunga qualche notizia, il solo rumore sentito dinanzi alla porta, vero o supposto che sia, le scuote improvvisamente l'animo come se fosse un annunciatore di mali.
Le notizie che vengono da fuori potrebbero forse essere buone, e non rappresentare un motivo di timore; eppure, lo svenimento precede l'annunzio e fa volgere la mente dai pensieri belli a quelli contrari.
Questa è la vita delle persone felici.
É veramente una bella vita!
Non è certo paragonabile alla libertà assicurata dalla verginità.
Eppure il nostro discorso, mentre procedeva, ha tralasciato molte cose ancora più tristi.
Spesso la sposa, ancora giovane nel corpo, ancora brillante dello splendore delle nozze, e forse ancora in preda al rossore che la sorprende all'arrivo dello sposo e alla vergogna che le fa abbassare lo sguardo, proprio quando i desideri si fanno più ardenti anche se il pudore impedisce loro di manifestarsi, rimane improvvisamente vedova, disgraziata e sola, attirando su di sé tutti gli appellativi più brutti: la disgrazia sopravvenuta tinge di nero improvvisamente e veste a lutto colei che fino a quel momento risplendeva, che aveva le vesti bianche e che era da tutti ammirata, rovinando la grazia che è propria delle giovani spose.
La tenebra si sostituisce allo splendore del talamo, mentre le donne pagate per lamentarsi prolungano i suoi pianti; chi cerca di consolarla nel suo dolore finisce con l'essere odiato; lei stessa prova disgusto per i cibi, mentre il suo corpo si consuma, il suo animo si abbatte ed il desiderio di morire si fa sentire spesso fino alla morte.
E anche se il tempo riesce a mitigare la disgrazia, ne subentra una nuova, ci siano o no i figli.
Se ci sono, essi sono dei veri e propri orfani, e per questo sono degni di commiserazione e rinnovano con la loro presenza il dolore; se non ci sono, il ricordo dello scomparso svanisce completamente ed il lutto diventa inconsolabile.
Tralascio gli altri mali propri della vedovanza.
Chi potrebbe infatti enumerarli uno per uno?
Mi riferisco ai nemici, ai familiari, a coloro che infieriscono sulla disgrazia, a coloro che gioiscono della solitudine della sposa e che con occhio cattivo assistono alla rovina della casa provandone piacere, ai servi che disprezzano ed a tutti quegli altri mali che si possono vedere in misura rilevante quando si verificano tali luttuosi eventi: per questo molte vedove, non sopportando la cattiveria dei derisori, quasi per allontanare coloro che le addolorano approfittando dei loro mali, si vedono costrette a sottoporsi per una seconda volta ad una prova analoga.
Molte invece ricordando ciò che è accaduto preferiscono sopportare qualsiasi cosa pur di non incorrere nuovamente in una disgrazia simile.
Se vuoi renderti conto dei dolori della vita secolare, ascolta ciò che dicono le donne che l'hanno conosciuta per averne fatto esperienza: senti come esaltano la vita di chi ha scelto fin dall'inizio lo stato verginale senza averne compreso la bellezza in seguito ad una disgrazia.
La verginità è in effetti immune da tutti questi mali: non piange gli orfani, non si lamenta della vedovanza; sta sempre insieme allo sposo incorruttibile; sempre mena vanto dei frutti della pietà; vede la casa - che è veramente sua - sempre adorna dei frutti più belli, giacché il suo padrone vi è sempre presente e sempre vi abita; nel suo caso, la morte determina non la separazione dalla persona amata, ma l'unione con lei, giacché, come dice l'apostolo, « quando l'anima se ne va, proprio allora viene a trovarsi insieme a Cristo ».
Ma giacché abbiamo esaminato sia pure parzialmente i mali delle persone felici, sarebbe ora di passare in rassegna nella nostra trattazione anche gli altri tipi di vita, nei quali si fissano stabilmente la povertà, le disgrazie ed i rimanenti mali propri dell'inferma natura umana, quali le mutilazioni, le malattie e tutti gl'inconvenienti analoghi che toccano in sorte agli uomini durante la vita: chi vive da solo o riesce ad evitare queste prove o sopporta più facilmente le disgrazie, giacché può agevolmente concentrare su di sé il proprio pensiero, senza permettere che venga trascinato altrove.
Chi invece ha i propri pensieri divisi tra la moglie e i figli, spesso non ha neppure il tempo di piangere sui propri mali, giacché le preoccupazioni per i suoi cari gli rimbombano nel cuore.
Forse è superfluo soffermare il nostro discorso su fatti scontati: se ai supposti beni appaiono congiunti tanti travagli e dispiaceri, che cosa si dovrebbe immaginare a proposito dei loro contrari?
Probabilmente, ogni descrizione che tentasse di porre sotto gli occhi la vita di queste altre persone rimarrebbe inferiore alla realtà.
Pur tuttavia, è forse possibile mostrare succintamente i molti dolori della loro vita, giacché essi, avendo avuto in sorte una vita opposta a quella di coloro che sembrano felici, provano dei dolori che si originano da cause opposte.
Se infatti la vita delle persone felici è sconvolta dall'attesa o anche dalla venuta della morte, per gli altri la disgrazia è invece rappresentata dal ritardo del suo arrivo; anche se la loro vita è diametralmente opposta, lo scoraggiamento giunge per entrambi ad un uguale sbocco.
Molteplici e vari sono i modi in cui il matrimonio dispensa i mali: i figli, nascano o no, vivano o muoiano, sono sempre causa di dolori.
Mentre uno ha molti figli senza avere sufficienti mezzi di sostentamento, un altro, non avendo un successore che possa ereditare la grande fortuna per la quale si è tanto affaticato, ritiene un bene ciò che per gli altri è una disgrazia; ognuno vorrebbe avere ciò per cui vede infelice l'altro.
Ad uno muore il figlio prediletto, ad un altro continua a vivere il figlio libertino; entrambi sono degni di commiserazione: l'uno piange per la morte del figlio, l'altro per la sua vita.
Lascio da parte i lutti e le disgrazie a cui portano le gelosie e le lotte prodotte da fatti veri o da semplici sospetti.
Chi potrebbe enumerarle con esattezza?
Se vuoi renderti conto di come la vita umana sia piena di tali mali, non hai bisogno di rifarti alle narrazioni antiche, che hanno fornito ai poeti gli argomenti per i loro drammi: data l'esagerazione delle loro assurdità, sono ritenuti miti quelle storie in cui i figli vengono uccisi e divorati, gli uomini uccisi, le madri ed i fratelli trucidati, in cui si verificano accoppiamenti contrari ad ogni legge ed in cui la natura è sconvolta in ogni modo; i narratori di queste storie antiche cominciano il loro racconto proprio dalle nozze per terminare con tali disgrazie.
Lascia stare tutto questo, e guarda piuttosto le tragedie che si svolgono sullo scenario della vita presente e che il matrimonio dispensa agli uomini.
Va' al tribunale, e prendi visione delle leggi matrimoniali: imparerai lì certi segreti irrivelabili del matrimonio.
Come, sentendo spiegare ai medici le varie malattie, sei in grado di renderti conto del miserando stato del corpo umano ed impari i tipi e la quantità di malattie di cui è ricettacolo, così, una volta imbattutoti nelle leggi e conosciuti i vari tipi di matrimoni illegittimi puniti da esse, potrai imparare tante cose sul conto del matrimonio.
Il medico non cura le malattie immaginarie, così come la legge non punisce i mali inesistenti.
Ma perché mai dovremmo sottoporre ad una critica meschina l'assurdità di questa vita, pur limitando l'enumerazione dei suoi mali agli adulteri, ai divorzi ed agli agguati?
Quando ragiono in modo più alto e più vero, ho l'impressione che tutti i mali visibili nei vari fatti e nelle varie occupazioni non comincino a danneggiare l'esistenza umana prima che ci si sottometta alle necessità di questo tipo di vita.
Chi con l'occhio puro della propria anima considera i suoi inganni, chi si eleva al di sopra di ciò che si cerca in essa, chi, come dice l'apostolo, disprezza tutte le cose come se fossero dei rifiuti maleodoranti e chi, rinunziando al matrimonio, si distacca in un certo senso da essa, non ha più nulla a che vedere con i mali propri dell'uomo quali l'avidità, l'invidia, l'ira, l'odio, il desiderio della vana reputazione e tutte le altre cose di questo genere.
Mancando di tutto ciò, essendo totalmente libero e conducendo una vita pacifica, non ha ragione di contendere per possedere di più, o di suscitare contro di sé l'invidia del prossimo: non tocca nessuna di quelle cose sulle quali si appunta l'invidia durante la vita.
Elevata la propria anima al di sopra di tutto il mondo, egli considera la virtù come l'unico bene prezioso, e conduce un'esistenza pacifica, priva di dolori e di lotte.
Il possesso della virtù, anche se tutti gli uomini ne fossero partecipi ciascuno secondo le proprie possibilità, rimane infatti sempre pieno per coloro che lo desiderano, e non è paragonabile al possesso dei beni terreni: nel caso di questi ultimi, coloro che li dividono in tante parti aggiungono ad una ciò che tolgono all'altra, e la ricchezza di uno implica l'impoverimento di chi vuole esserne anche lui partecipe.
Proprio perché non ci si vuole impoverire nascono tra gli uomini le lotte per il possesso di una quota maggiore di beni.
L'avidità dell'altro bene non è invece causa d'invidia, e chi se ne è presa una parte maggiore non reca alcun danno a chi desidera averne una parte uguale: al contrario, ciascuno può soddisfare questo suo buon desiderio in proporzione alle sue capacità.
La ricchezza della virtù non viene consumata da coloro che vi hanno attinto per primi.
Colui che prende come modello questo tipo di vita e che accumula in sé come un tesoro quella virtù che nessun limite umano potrà mai circoscrivere, farà mai piegare la sua anima verso le cose basse e degne di essere calpestate?
Proverà forse ammirazione per le ricchezze terrene, per la potenza umana o per qualcun'altra delle cose che la stoltezza spinge a cercare?
Chi nutre ancora dei bassi sentimenti verso queste cose se ne stia lontano dal coro delle persone virtuose e non abbia nulla a che vedere con il nostro discorso; chi invece nutre pensieri più alti e cammina assieme a Dio nelle regioni superiori, resta totalmente al di sopra di tali bassezze, non essendo sottoposto allo stimolo che spinge sempre verso tali errori: mi riferisco al matrimonio.
Il volere essere superiori agli altri - quella brutta malattia che è l'orgoglio e che sarebbe giusto chiamare seme o radice di tutte le spine dei peccati - ha infatti nel matrimonio il suo primo inizio ed il suo primo movente.
Non accade quasi mai che la persona avida non addossi sui figli la colpa della sua malattia, o che il vanaglorioso e l'ambizioso non attribuisca la causa del suo male alla stirpe, per non sembrare inferiore ai suoi antenati e per farsi ritenere grande dai suoi successori, lasciando delle storie che lo ricordino; analogamente, dipendono dalla stessa causa anche le rimanenti malattie dell'anima, quali l'invidia, il rancore, l'odio ed altre simili.
Esse si accompagnano tutte a chi si appassiona per questo genere di vita; chi invece ne resta fuori, osservando le malattie umane da lontano, come da un osservatorio elevato, compiange la cecità di chi è schiavo di tali vanità e di chi dà grande importanza al benessere corporeo.
Quando infatti vede che un uomo è tenuto in considerazione per qualcosa che è proprio di questa vita e che si vanta della propria dignità, ricchezza o potenza, deride la stoltezza di chi s'inorgoglisce per queste cose e misura la durata massima della vita umana secondo il vaticinio pronunziato dal salmista.
Paragonando all'eternità infinita quest'intervallo brevissimo, commisera la vanità di chi si esalta per cose così meschine, basse e caduche.
Che cosa è mai degno delle lodi di questo mondo? Forse l'onore, ricercato da molti?
Ma aggiunge esso qualcosa a coloro che ne godono?
L'uomo mortale resta mortale, venga onorato o no.
Oppure l'essere proprietari di molti iugeri di terra?
Ma, a parte il fatto che lo stolto ritiene suo ciò che non lo è, a quale sbocco buono questa proprietà conduce i proprietari?
A quanto sembra, per colpa della grande avidità s'ignora che la terra e ciò che la occupa appartengono in realtà al Signore.
Dio è infatti il re di tutta la terra, mentre quella passione che è la cupidigia dà agli uomini il falso nome di « signori » su cose che non sono di loro proprietà.
Come dice il saggio ecclesiaste, « la terra resta » a servire per l'eternità tutte le generazioni, nutrendo in periodi successivi coloro che vi si trovano.
Gli uomini invece, pur non essendo padroni neanche di se stessi, pur entrando nella vita quando neanche lo sanno, secondo il volere di chi ve li conduce, pur separandosene quando non lo vogliono, spinti dalla loro grande vanità pensano di essere i padroni della terra: eppure, mentre questa rimane sempre lì dove si trova, essi nascono e muoiono a seconda dei periodi.
Colui che considera tutto questo e che quindi disprezza ciò che gli uomini tengono in gran conto, che ama soltanto la vita divina e che sa che « ogni carne è erba ed ogni gloria umana è come il fiore dell'erba », quando mai riterrà degna di considerazione l'erba che oggi c'è e che domani non ci sarà più?
Chi osserva le cose divine sa bene che le cose umane non solo non sono stabili, ma non resisterebbero neanche se tutto il mondo se ne stesse quieto per sempre.
Egli disprezza quindi la vita presente come una cosa a lui estranea e caduca: come dice il Salvatore, il cielo e la terra passeranno e tutto è necessariamente soggetto alla trasformazione.
Finché si trova sotto la tenda, come dice l'apostolo mostrando la caducità delle cose terrene, si lamenta della lunghezza dell'esilio sotto il peso della vita presente: così fece anche il salmista, quando parlò nelle sue odi divine.
Vivono infatti veramente nelle tenebre coloro che soggiornano come stranieri in questa vita sotto le tende: per questo il profeta, lamentandosi della lunghezza dell'esilio, dice: « Ohimè, com'è lungo il mio esilio! ».
Egli fa risalire alla tenebra la colpa del suo abbattimento [ dai sapienti abbiamo appreso che in ebraico « tenebra » si dice « chedar » ].
Non è forse vero che gli uomini, come se fossero vittime di una cecità dovuta alla notte, non riescono a riconoscere bene l'inganno e non sanno che tutte le cose che sono ritenute pregevoli nella vita e tutte quelle a cui si attribuisce un valore contrario sono tali soltanto nell'opinione degli stolti?
In se stesse esse non significano proprio nulla: né l'oscurità dei natali, né la nobiltà della stirpe, né la fama, né la celebrità, né le narrazioni antiche, né l'orgoglio per i beni presenti, né il dominio su altri, né l'essere sottomessi riveste una qualche importanza.
Le ricchezze, il lusso, la povertà, l'indigenza, tutte le cose spiacevoli della vita sembrano avere un gran peso agl'incolti, che le valutano con il criterio del piacere.
A chi nutre pensieri più elevati tutto sembra invece dello stesso valore e nulla più prezioso di altre cose: il corso della vita si compie similmente attraverso circostanze contrarie, ed in entrambe le situazioni c'è un'uguale possibilità di vivere bene o di vivere male; come dice l'apostolo, si può vivere bene o male « sia con le armi di offesa che con quelle di difesa, sia con la fama che con il disonore ».
Chi è puro di mente e considera la verità trascendente percorre il suo cammino in modo giusto, trascorrendo il periodo di tempo che gli è stato assegnato dalla nascita alla morte senza farsi indebolire dai piaceri e senza farsi abbattere dalle avversità: secondo l'abitudine dei viandanti, bada a ciò che gli sta dinanzi e tiene poco conto di ciò che gli si presenta via via.
I viandanti sono soliti infatti dirigersi verso la meta del loro viaggio sempre allo stesso modo, sia che attraversino prati e boschi, sia che debbano superare luoghi più deserti e più aspri: non si lasciano trattenere dai piaceri, né trovano un ostacolo nei dolori.
Analogamente, l'uomo virtuoso si dirige verso la meta prefissata senza voltarsi indietro: non si mette a guardare nessuna delle cose che gli si presentano durante il cammino, ma attraversa la vita contemplando soltanto il cielo ed indirizzando la sua nave verso la meta superiore come un bravo pilota.
Chi invece nutre dei pensieri più volgari, chi guarda in giù ed abbassa la sua anima verso i piaceri corporei così come fanno le bestie con il pascolo, chi vive solo per il ventre e per ciò che viene dopo di esso allontanandosi dalla vita di Dio ed estraniandosi dai patti del messaggio divino, chi non concepisce altro bene al di fuori del piacere corporeo, proprio costui, assieme a tutti coloro che gli somigliano, è colui che, come dice la Scrittura, cammina nella tenebra e scopre i mali di questa vita: questi sono rappresentati dall'avidità, dalla sfrenatezza delle passioni, dalla mancanza di misura nel godimento dei piaceri, dal desiderio di comando, dalla vanagloria e dalla schiera di tutte le altre passioni che albergano nell'uomo.
In un certo senso i vizi sono attaccati l'uno all'altro, e nell'uomo in cui se ne trova uno entrano anche i rimanenti come se vi fossero attirati da un'ineluttabile forza naturale.
Lo stesso accadde nelle catene: se si tira un'estremità, neanche i rimanenti anelli possono star fermi, e l'anello che si trova all'altro capo della catena si muove assieme al primo, giacché il movimento si propaga attraverso tutti gli anelli contigui.
Allo stesso modo le passioni umane sono intrecciate per natura l'una all'altra, e se una di esse prende il sopravvento, anche il resto della serie entra nell'anima.
Se è proprio necessario descriverti questa catena di mali, supponi che una persona, vittima di un determinato piacere, venga sopraffatta dalla passione per la vanagloria: alla vanagloria segue il desiderio di avere di più, giacché non si può diventare insaziabili, se la vanagloria non guida verso quest'altra passione.
Il desiderio di superare e di eccellere accende quindi o l'ira verso chi gode di uguali onori, o l'arroganza verso l'inferiore o l'invidia verso il superiore, e l'invidia è seguita dall'ipocrisia; all'ipocrisia segue l'asprezza, e a quest'ultima la misantropia.
La conclusione di tutto questo è la condanna che porta alla Geenna, alla tenebra e al fuoco.
Vedi la catena dei mali, e come tutti sono allacciati ad uno solo, la passione accesa dal piacere?
Una volta che tali vizi sono entrati l'uno dopo l'altro nella vita umana, vediamo che esiste un unico modo per liberarsene, suggerito dalle Scritture ispirate da Dio: la separazione da una simile vita, che tiene legata a sé la serie di questi vizi incurabili.
Chi ama trattenersi a Sodoma non può infatti sfuggire alla pioggia di fuoco, e chi prima esce da Sodoma e poi si rivolta a guardare la sua distruzione non può non tramutarsi in una colonna di sale; parimenti, non può liberarsi dalla schiavitù dell'Egitto chi non lascia l'Egitto - parlo di questa vita sommersa dai vizi - e chi non attraversa non il Mar Rosso, ma il mare nero e tenebroso della vita.
Se, come dice il Signore, la verità non ci libera e persistiamo nella schiavitù del vizio, come potrà ritrovarsi nella verità colui che va in cerca della menzogna e che si rivolta negli errori della vita?
Come potrà sfuggire a questa schiavitù colui che sottomette la propria vita alle necessità naturali?
Il nostro discorso su quest'argomento potrà risultare più chiaro con un esempio.
Come un fiume reso più violento dalla piena invernale, quando trascina nella corrente conformemente alla propria natura i legni, le pietre e tutto ciò che gli si presenta, è insidioso e pericoloso solo per chi gli si trova vicino, mentre sembra scorrere tranquillo a chi sta attento a starsene lontano, così solo colui che si espone al turbine della vita la deve sopportare ed è vittima dei vizi che lo colpiscono: la natura, gonfia dei mali della vita, seguendo il suo corso non può non attaccarli a coloro che vi camminano.
Chi invece, come dice la Scrittura, abbandona questo torrente e l'acqua instabile, resta completamente al di fuori « della portata dei denti della vita » ( così si esprime il testo dell'ode ): come un passero, sfuggito alla trappola con le ali della virtù.
Poiché, sempre per restare nel paragone da noi fatto del torrente, la vita umana trabocca di ogni genere di travagli e di asprezze, e nel suo corso si riversa sempre lungo il pendio naturale; poiché quindi nulla di ciò che si cerca in essa rimane fermo ad aspettare l'appagamento di chi desidera, e tutto ciò in cui ci s'imbatte in un attimo si avvicina e corre via dopo averci toccato; poiché ciò che ci viene sempre dinanzi sfugge alla nostra percezione data la rapidità del suo passaggio, mentre lo sguardo resta frastornato dalla corrente che gli si presenta; per tutte queste ragioni sarebbe utile tenersi lontani da questa corrente, onde evitare di farci sommergere da ciò che è instabile e di trascurare ciò che resta fisso.
Com'è possibile che chi si è affezionato ad una delle cose di questa vita continui ad avere fino alla fine ciò che desidera?
Quale delle cose che vengono più ricercate rimane sempre la stessa?
Quale rigoglio di giovinezza? Quale felice possesso di forza e di bellezza?
Quale ricchezza? Quale gloria? Quale signoria?
Non è forse vero che tutte queste cose dopo una breve fioritura si dileguano e si risolvono nei loro contrari?
Chi è vissuto sempre nella giovinezza?
A chi la forza è durata fino alla fine?
E per quanto riguarda il fiore della bellezza, la natura non l'ha fatto forse più effimero dei fiori che appaiono in primavera?
Questi ultimi germogliano quando giunge la loro stagione, e dopo essersi appassiti per un breve periodo sono di nuovo rigogliosi; quindi scompaiono, per poi rifiorire e mostrare anche l'anno successivo la bellezza di oggi.
Nel caso invece della fioritura umana, la natura la spegne dopo averla mostrata una sola volta nella primavera della giovinezza, distruggendola nell'inverno della vecchiaia.
Allo stesso modo tutte le altre cose, dopo avere ingannato per un breve tempo i sensi corporei, scorrono via e vengono avvolte dall'oblio.
Poiché tali vicissitudini prodotte da ineluttabili leggi naturali addolorano profondamente chi si è affezionato al mondo, una sola è la via per sfuggire a questi mali: non attaccare la propria anima a nessuna delle cose che sono soggette a cambiamenti, e staccarsi il più possibile da ogni commercio con la vita passionale e carnale; per meglio dire, ci si deve liberare da ogni affezione per il proprio corpo, per non andare soggetti alle vicissitudini della carne vivendo secondo la carne.
Questo significa vivere soltanto con l'anima ed imitare per quanto è possibile il tipo di vita delle potenze incorporee, che non prendono né moglie né marito: la loro unica attività, la loro unica preoccupazione, la loro unica perfezione consiste nel contemplare il padre dell'incorruttibilità e nell'abbellire il proprio aspetto prendendo come modello la bellezza dell'archetipo, che imitano nella misura a loro consentita.
Conformandoci al pensiero della Scrittura, possiamo quindi affermare che la verginità è stata data all'uomo come una collaboratrice ed un aiuto per mettere in pratica questo modo di vedere e soddisfare questo alto desiderio.
E come nelle altre occupazioni le varie arti sono state concepite perché ciascuno degli scopi perseguiti potesse essere raggiunto, così, a mio avviso, la pratica della verginità è un'arte ed una facoltà della vita più divina, che insegna a coloro che vivono ancora nel corpo a rendersi simili alla natura incorporea.
In questo tipo di vita si deve fare di tutto perché la parte più alta dell'anima non venga avvilita dalla rivolta dei piaceri, e perché il nostro pensiero, invece di spaziare nelle regioni superiori e di guardare in alto, non venga trascinato in giù verso le passioni della carne e del sangue.
Come può infatti esso contemplare con occhi liberi la luce intelligibile che gli è affine se resta inchiodato in basso ai piaceri carnali e se indulge ai desideri propri delle passioni umane, mostrando una propensione per la materia che è il frutto di un preconcetto cattivo e privo di disciplina?
Come gli occhi dei porci che la natura fa volgere in basso ignorano le meraviglie celesti, così l'anima che è attirata dal corpo non è più in grado di contemplare il cielo e le bellezze superiori perché si volge verso la parte più bassa e bestiale della natura.
L'anima libera e sciolta, per poter contemplare nel migliore dei modi il piacere divino e beato, non deve volgersi verso nessuna delle cose terrene e non gustare nessuno di quelli che l'opinione propria della vita comune spaccia per piaceri; al contrario, essa trasferisce il suo impulso amoroso dalle cose materiali alla contemplazione intelligibile ed immateriale delle bellezze.
La verginità del corpo è stata concepita proprio perché potesse realizzarsi tale disposizione d'animo: la sua funzione precipua è quella di far dimenticare all'anima i movimenti passionali della natura e d'impedire ai bassi bisogni della carne di trovarsi in uno stato di necessità.
Una volta liberatasi da questi, l'anima non correrà più il rischio di abbandonare e d'ignorare - abituandosi a poco a poco alle cose che sembrano permesse da una legge naturale - quel piacere divino e genuino che solo la purezza dell'elemento razionale che ci guida può perseguire.
Mi sembra quindi che il grande profeta Elia e colui che visse successivamente « nello spirito e nella potenza di Elia », « il più grande dei nati dalle donne », abbiano insegnato con l'esempio della loro vita soprattutto una cosa, se si vuol prescindere da tutte le altre alle quali la loro storia allude velatamente: chi si sofferma nella contemplazione dell'invisibile deve separarsi dalla concatenazione dei fatti che è propria della vita umana, per non lasciarsi confondere e non errare nel suo giudizio sul vero bene, abituandosi agl'inganni prodotti dalle sensazioni.
Entrambi infatti fin dalla loro giovinezza si estraniarono dalla vita umana e si collocarono per così dire al di fuori della natura, sia perché disprezzarono i cibi e le bevande più abituali e più in voga sia perché si misero a vivere nel deserto: poterono così conservare il loro udito al riparo dai rumori e la loro vista al riparo da ogni divagazione, mentre il loro gusto rimase semplice e non sofisticato, giacché entrambi soddisfacevano i propri bisogni con ciò che si presentava loro.
Riuscirono in tal modo a realizzare un'effettiva tranquillità e serenità che non conosceva disturbi esterni ed elevarsi a quell'alto livello di grazia divina che la Scrittura ricorda a proposito di entrambi.
Elia, divenuto una specie di amministratore dei beni divini, era padrone di chiudere ai peccatori e di aprire ai penitenti a sua discrezione i doni del cielo; per quanto riguarda Giovanni, il divino racconto non parla di nessuna di queste meraviglie, ma « chi guarda le cose in segreto » ha testimoniato che in lui la grazia era presente più che in qualsiasi altro profeta.
Ciò avvenne forse perché essi dall'inizio alla fine consacrarono al Signore i loro desideri, che seppero mantenere puri e scevri da ogni affezione materiale, e non indulsero né all'amore per i figli, né alle preoccupazioni per la moglie né ad altri pensieri umani; giacché non ritenevano di doversi preoccupare del necessario nutrimento quotidiano e si mostravano superiori alla dignità data dalle vesti, soddisfacevano i propri bisogni con improvvisazioni, ricorrendo a ciò che trovavano: l'uno si riparava con pelli di capra, l'altro con pelo di cammello; a mio parere, non sarebbero giunti a tanta grandezza se si fossero fatti rammollire dal matrimonio, abituandosi ai piaceri corporei.
Tutto questo, come dice l'apostolo, non è stato scritto senza scopo, ma perché venissimo spronati a regolare la nostra vita secondo la loro.
Qual è dunque l'insegnamento che possiamo ricavarne?
Chi vuole unirsi a Dio imitando i santi non deve soffermare il proprio pensiero su nessuna occupazione materiale, giacché se lo lascia disperdere in varie direzioni non è più in grado di dirigere verso Dio la propria mente ed i propri desideri.
Penso di poter spiegare quest'insegnamento più chiaramente con un esempio.
Supponiamo che dell'acqua sgorgata da una sorgente si disperda a caso in vari rivoli.
Finché scorre così, essa non si rivela adatta a soddisfare nessun bisogno dell'agricoltura, giacché la sua dispersione in molti rigagnoli fa sì che ciascuno di questi sia povero, poco efficiente, lento e senza forza.
Se invece questi rivoli confusi fossero riuniti insieme e ciò che era disperso in molte direzioni venisse raccolto in modo da formare un unico corso, quest'acqua resa abbondante e vigorosa potrebbe essere usata per molti scopi utili.
Allo stesso modo mi sembra che si comporti l'intelligenza umana: se si diffonde dappertutto, disperdendosi nel suo corso in ciò che piace sempre agli organi sensoriali, non possiede una forza sufficiente per dirigersi verso il vero bene; se invece venisse richiamata indietro, e riunita e tenuta insieme senza potersi più disperdere, in modo da muoversi secondo l'energia che le è propria e che la natura le ha dato, nulla più le impedirebbe di elevarsi e di toccare le verità degli esseri.
Come l'acqua stretta in un condotto viene spinta spesso verso l'alto da una pressione proveniente dal basso senza potersi disperdere, benché il suo movimento naturale la porti ad andare piuttosto verso il basso, così anche la mente umana, quando è serrata da ogni parte dalla continenza come da uno stretto condotto, è portata dal suo movimento naturale verso il desiderio delle realtà più alte e non può più disperdersi.
Ciò che è in perenne movimento e che ha ricevuto dal creatore tale proprietà naturale non può mai stare fermo, e non avendo più la possibilità di muoversi verso le cose vane non può non dirigersi tutto verso la verità: le vie che portano alla futilità gli sono sbarrate da ogni parte.
Analogamente, vediamo anche che nei crocicchi i viandanti non si sbagliano sulla giusta via da percorrere quando evitano di andare vagando per altre strade che hanno in precedenza imparato.
Come colui che viaggia riesce a mantenersi sul giusto cammino se si tiene lontano dai sentieri che lo fanno smarrire, così il nostro pensiero può riconoscere le verità degli esseri se abbandona ogni vanità.
Il ricordo di questi grandi profeti sembra dunque insegnarci proprio a non farci prendere prigionieri dalle cose che vengono ricercate nel mondo.
Il matrimonio è proprio una di queste: piuttosto, esso è l'inizio e la radice della ricerca della vanità.
Nessuno pensi con questo che noi intendiamo disconoscere la funzione del matrimonio: non ignoriamo che esso non è privo della benedizione di Dio.
Poiché però ha un difensore sufficiente nella comune natura umana che infonde un'inclinazione naturale verso tale genere di cose in tutti coloro che sono venuti alla luce tramite l'atto coniugale, mentre la verginità va contro la natura, sarebbe superfluo scrivere una diligente esortazione al matrimonio mettendo in evidenza il piacere, il suo difensore contro cui difficilmente si combatte, a meno che non ci obbligassero a fare un discorso simile coloro che sfigurano gl'insegnamenti della Chiesa e che l'apostolo chiama « marchiati nella propria coscienza »: queste persone, lasciata la strada dello spirito per l'insegnamento dei demoni, imprimono nei loro cuori come delle piaghe e delle bruciature, provando ribrezzo per le creature di Dio come se fossero cose nefande e chiamandole incoraggiamento ai mali, causa dei mali e così via.
« Ma perché devo giudicare chi sta fuori? », dice colui che ha parlato sinora.
Essi si trovano veramente fuori del palazzo della dottrina misterica: « alloggiano » non « nel riparo di Dio » ma nella mandria del maligno, « prigionieri del suo volere » come dice l'apostolo; per questo non comprendono che, se ogni virtù si trova nel mezzo, la deviazione verso gli estremi opposti è un male: solo chi riesce a trovare sempre un punto intermedio tra il rilassamento e la tensione riesce a distinguere la verità dal vizio.
Il mio discorso diverrà forse più chiaro se lo spiegherò con degli esempi concreti.
La viltà e la temerarietà sono ritenuti due mali opposti, l'una per difetto di sicurezza, l'altra per eccesso, e comprendono al centro il coraggio.
Analogamente, l'uomo pio non è né ateo né superstizioso: in questi due casi è un'uguale empietà non credere in nessun dio o credere in molti dèi.
Vuoi capire meglio questa dottrina con altri esempi?
Chi evita la parsimonia e la prodigalità, proprio rifiutando i vizi contrari riesce a realizzare la libertà morale: la libertà consiste infatti proprio nel non restare indifferenti di fronte alle spese smodate ed inutili e nel non mostrarsi gretti nei confronti dei bisogni.
Così anche a proposito di tutte le altre cose - per non esaminarle una per una - la ragione riconosce la virtù nel punto di mezzo tra i contrari.
Anche la temperanza è un punto di mezzo, e mostra chiaramente le deviazioni verso i vizi opposti: chi non è più forte d'animo, divenendo facile preda della passione edonistica ed allontanandosi quindi dalla strada della vita pura e temperante, scivola verso « le passioni dell'ignominia »; chi invece va al di là della parte praticabile della temperanza e supera il punto intermedio rappresentato dalla virtù, viene trascinato in basso dall'« insegnamento dei demoni » come in un precipizio, « marchiando » la propria coscienza, come dice l'apostolo.
Nel momento in cui definisce il matrimonio una cosa abominevole, gl'insulti che lancia contro di esso lo marchiano: se, come dice un passo del Vangelo, l'albero è cattivo, anche il frutto sarà del tutto degno dell'albero.
Se l'uomo è il germoglio ed il frutto della pianta del matrimonio, le offese recate a quest'ultimo ricadono tutte su chi le fa.
Costoro, bollati nella coscienza e ricoperti di lividi dall'assurdità della loro dottrina, possono essere confutati con questi argomenti.
Noi invece diciamo questo a proposito del matrimonio: anche se la ricerca ed il desiderio delle cose divine devono stare al primo posto, colui che sa fare un uso temperante e misurato del matrimonio non deve disprezzare i servizi che esso può rendere.
Così si comportò il patriarca Isacco: non nel fiore della giovinezza, affinché il matrimonio non diventasse un veicolo di passione, ma quando essa si era già consumata, accettò di vivere con Rebecca perché il suo seme fosse benedetto da Dio; assolti i suoi obblighi nei confronti del matrimonio fino al primo parto, tornò a dedicarsi interamente alle cose invisibili chiudendo i sensi corporei; a questo mi sembra che voglia alludere la storia sacra, quando parla della pesantezza degli occhi del patriarca.
Ma ammettiamo pure che l'opinione di quelli che sono versati su quest'argomento sia quella giusta; quanto a noi, continuiamo il nostro discorso.
Di che cosa parlavamo? Se è possibile, dobbiamo fare in modo da non allontanarci dal desiderio più divino e da non evitare il matrimonio.
Nessun ragionamento può cancellare l'economia naturale e calunniare ciò che è prezioso come se fosse una cosa abominevole.
Ricorrendo all'esempio che abbiamo su riportato dell'acqua e della fonte, vediamo che un contadino che vuole far venire dell'acqua su di un terreno per irrigarlo, se nel frattempo ha bisogno di una piccola quantità, ne fa scorrere soltanto una quantità proporzionata al bisogno impellente, che poi fa tornare di nuovo in modo appropriato nel suo corso principale; se invece facesse scorrere l'acqua senza criterio e parsimonia, questa, abbandonata la via maestra, correrebbe il rischio di disperdersi tutta per vie oblique nei canali scavati.
Allo stesso modo, poiché nella vita gli uomini devono succedersi gli uni agli altri, chi in tale congiuntura si comporta in modo da lasciare il primo posto alle cose spirituali e da soddisfare in misura moderata e contenuta i suoi desideri « perché il tempo stringe », è veramente il saggio coltivatore, « colui che coltiva se stesso nella sapienza », come dice il precetto dell'apostolo: egli non pensa in modo meschino al pagamento dei suoi tristi debiti, ma sceglie d'accordo con la congiunta la purezza per attendere di più alla preghiera, nel timore di diventare, per colpa della passione, tutto carne e sangue, « in cui non rimane lo spirito di Dio ».
Chi invece è così debole da non potersi opporre virilmente al corso della natura, farebbe meglio a tenersi lontano dal matrimonio piuttosto che cimentarsi in una lotta superiore alle sue forze.
C'è infatti il pericolo che, ingannato dal piacere che prova, egli consideri come unico bene quello che si ottiene tramite la carne con la passione, e che, allontanato dalla mente ogni desiderio dei beni incorporei, diventi interamente carnale, e persegua in tutti i modi questo piacere, sì da rendersi « amico più del piacere che di Dio ».
Poiché a causa della debolezza della natura non tutti possono trovare la giusta misura in queste cose e chi oltrepassa la misura corre il rischio d'imprigionarsi « nel fango profondo », come dice il salmista, sarebbe meglio per lui trascorrere la vita senza fare tali esperienze, così come consiglia il nostro discorso, in modo da evitare che le passioni assalgano la sua anima sotto il pretesto della liceità.
Generalmente, contro l'abitudine non si può combattere: essa possiede in effetti una grande forza capace di attirare a sé l'anima umana e di presentarle una sembianza di bellezza alla quale l'anima stessa finisce con l'affezionarsi ed assuefarsi; nulla è per natura così repellente da non essere ritenuto desiderabile e preferibile in seguito all'assuefazione.
La verità di ciò che dico è dimostrata dalla vita umana: fra tanti popoli, nessuno esercita le stesse occupazioni; al contrario, le cose belle ed onorate sono diverse da popolo a popolo, in quanto in ciascun popolo è proprio l'abitudine a fare di una cosa l'oggetto di un'occupazione e di un desiderio.
Non solo presso i popoli si può constatare questa mutata disposizione nei confronti delle stesse occupazioni che sono da alcuni ammirate, e da altri vilipese: anche in una stessa città ed in una stessa famiglia si possono osservare grandi differenze tra i singoli componenti, dovute all'abitudine.
I fratelli nati da un unico parto si differenziano per lo più nella vita per le loro occupazioni; ciò non deve destare meraviglia, giacché la stessa cosa non è giudicata allo stesso modo da tutti gli uomini: ciascuno fa dipendere i propri giudizi dalla propria disposizione d'animo determinata dalle abitudini.
Per non parlare di cose troppo lontane dall'argomento del mio discorso, dirò che conosciamo molte persone che sembrano particolarmente amanti della temperanza nella loro prima giovinezza e che poi cominciano a condurre una vita corrotta quando si convincono che il godimento dei piaceri è legittimo e consentito.
Per restare nel paragone da noi fatto del corso d'acqua, una volta che hanno provato i piaceri fanno volgere verso di essi tutta la loro facoltà concupiscibile: spostato l'impulso della loro intelligenza dalle cose più divine a quelle più vili e materiali, lasciano aperto un grande varco alle passioni, sulle quali si riversano tutti i loro desideri, mentre ogni spinta verso l'alto si esaurisce e s'inaridisce.
Per questo pensiamo che le persone più deboli facciano bene a rifugiarsi nella verginità come in una cittadella sicura, senza attirare su di sé le tentazioni scendendo nell'ingranaggio della vita e senza cadere prigionieri di coloro che, servendosi delle passioni carnali, « combattono la legge della nostra intelligenza »: in tal modo, si metteranno a pensare non ai confini dei terreni o alla perdita delle ricchezze o a qualcun'altra delle cose che vengono cercate in questa vita, ma a quella speranza che viene prima di tutto il resto.
Chi rivolge il proprio pensiero a questo mondo, chi si preoccupa delle cose di quaggiù, chi passa il proprio tempo a piacere agli uomini, non può obbedire al primo e più grande comandamento del Signore, che prescrive di amare Dio con tutto il cuore e con tutta la forza.
Come può infatti costui amare Dio con tutto il cuore, se divide il proprio cuore tra Dio ed il mondo, sottraendogli in un certo senso e lasciando consumare dalle passioni umane l'amore che solo a Lui è dovuto?
« L'uomo non sposato si preoccupa infatti delle cose del Signore, l'uomo sposato di quelle del mondo ».
Se la battaglia contro i piaceri sembra dura, ci si faccia coraggio; va ricordato a tal proposito che l'abitudine non è di piccolo aiuto nel produrre mediante la perseveranza un nuovo piacere anche in quelli che sembrano i frangenti più difficili: si tratta del piacere più bello e più puro, di cui può degnamente cingersi l'uomo assennato, piuttosto che immeschinirsi nelle cose vili e perdere quei beni che sono veramente i più grandi e che « superano ogni intelligenza ».
Quale discorso potrebbe mai descrivere il danno rappresentato dalla perdita della vera bellezza?
A quali straordinari pensieri si dovrebbe far ricorso?
Come si potrebbe far vedere e delineare ciò che è ineffabile per qualsiasi discorso ed incomprensibile per qualsiasi pensiero?
Se l'occhio della mente si purificasse al punto da poter vedere in qualche modo ciò che il Signore annunzia nelle beatitudini, si giungerebbe a disconoscere ogni voce umana, come assolutamente incapace di presentare quest'oggetto di pensiero.
Se invece ci si trova ancora in mezzo alle passioni materiali e se la disposizione passionale chiude come una cispa la facoltà visiva dell'anima, neanche in questo caso la potenza del discorso può servire; per chi è insensibile, è indifferente che il discorso diminuisca o esalti le meraviglie, così come nel caso del raggio solare colui che fin dalla nascita non è in grado di vedere la luce ritiene ozioso ed inutile qualsiasi discorso che tenti di spiegarla: non è possibile far brillare attraverso l'udito lo splendore del raggio.
Analogamente, anche per quanto riguarda la luce intelligibile e vera, ciascuno ha bisogno dei propri occhi per poter contemplare questa bellezza: chi l'ha vista per effetto di una grazia ed ispirazione divina conserva nell'intimo della propria coscienza uno stupore inesprimibile; chi invece non l'ha vista, non può neppure rendersi conto del danno rappresentato da questa privazione.
Come gli si potrebbe infatti presentare il bene che gli è sfuggito?
Come gli si potrebbe porre sotto gli occhi l'inesprimibile?
Non conosciamo parole capaci di esprimere questa bellezza, e fra gli esseri non esiste nessun esempio che possa dare un'idea di ciò che si cerca; parimenti impossibile è mostrarlo con un paragone.
Chi potrebbe paragonare il sole ad una piccola scintilla o mettere una piccola goccia di fronte all'immensità degli abissi marini?
Il rapporto che c'è tra la piccola goccia e gli abissi o tra la piccola scintilla e la grande luce del sole esiste anche tra tutte le cose che gli uomini ammirano come belle e quella bellezza che si contempla attorno al primo bene ed a ciò che è al di là di ogni bene.
Quale accorgimento potrebbe mostrare la gravità della perdita a chi la subisce?
Mi sembra che il grande David abbia fatto capire bene quest'impossibilità: quando una volta il suo pensiero venne sollevato dalla potenza dello spirito ed egli, uscito come fuori di sé, vide nell'estasi beata quella bellezza straordinaria ed inconcepibile; quando, abbandonati i velami della carne e raggiunta con il solo pensiero la contemplazione delle realtà incorporee ed intelligibili, fu in grado di vedere quello che un uomo riesce a vedere; quando provò il desiderio di dire qualcosa che fosse degno della visione, allora profferì quella frase che tutti cantano: « Ogni uomo è un mentitore ».
Secondo me, essa significa che ogni uomo che voglia affidare alla voce la spiegazione di quella luce ineffabile è veramente un mentitore, non per odio della verità, ma per l'inefficacia del suo racconto.
Ad ammirare, a percepire e a rendere note tutte le bellezze sensibili presenti nella nostra vita, appaiano esse con i loro bei colori o nella materia inanimata o nei corpi animati, basta la forza delle nostre facoltà sensitive: grazie alla descrizione fatta dalle parole, tale bellezza è riprodotta nel discorso come in un'immagine.
Ma se il modello sfugge al pensiero, come può il discorso farlo vedere, non trovando alcun mezzo per descriverlo?
Non può ricorrere a nessun colore, a nessuna forma, a nessuna grandezza, a nessuna simmetria di parti, e per dirla in breve a nessuna di queste vuote parole.
Ciò che è assolutamente privo di forma e di aspetto e che si trova lontano, al di fuori di ogni quantità e di ciò che si contempla nei corpi e che ricade nel dominio dei sensi come può essere conosciuto tramite ciò che si percepisce soltanto con le sensazioni?
Non bisogna però ripudiare questo desiderio solo perché il suo soddisfacimento sembra superiore alla nostra comprensione: al contrario, quanto più il nostro discorso mostra la grandezza dell'oggetto ambito, tanto più dobbiamo elevare il pensiero ed innalzarlo fino alla sublimità di ciò che cerchiamo, in modo da non essere esclusi del tutto dalla partecipazione al bene.
Data la sua eccessiva altezza ed ineffabilità, è assai facile scivolare al di fuori della sua contemplazione, senza avere modo di appoggiare il pensiero a qualcuna delle cose conosciute.
A causa di questa nostra insufficienza dobbiamo in qualche modo guidare il nostro pensiero verso l'invisibile servendoci di ciò che è conosciuto alle sensazioni.
Potremmo arrivare a concepirlo nel modo seguente.
Coloro che considerano le cose in maniera superficiale e prescindendo dall'intelligenza, quando vedono presentarsi un uomo o un qualsiasi altro oggetto, si danno pensiero solo di ciò che vedono: la sola vista della mole del corpo basta a far credere loro di conoscere l'uomo in modo completo.
Chi invece guarda con l'anima ed ha imparato a non affidare ai soli occhi l'osservazione delle cose, non si ferma alle apparenze né considera come non esistente ciò che non vede, ma pensa alla natura dell'anima dell'uomo ed esamina sia nel loro insieme che singolarmente le qualità che appaiono nel suo corpo; con il suo ragionamento le separa le une dalle altre e considera quindi il modo in cui esse concorrono e contribuiscono insieme alla formazione del soggetto.
Lo stesso accade nella ricerca del bello: chi è meno intelligente, alla vista di una cosa che ha un'apparenza di bellezza è portato dalla propria natura a pensare che sia bello ciò che attira le sensazioni tramite il piacere, e non si preoccupa d'altro; chi ha invece l'occhio dell'anima più puro ed è in grado di guardare le realtà più alte, lascia andare la materia che si trova sotto l'idea del bello e si serve di ciò che vede come di un punto di partenza per giungere alla contemplazione della bellezza intelligibile, partecipando della quale ogni altra cosa diventa ed è chiamata bella.
Poiché quasi tutti gli uomini viventi nutrono dei pensieri così grossolani, a mio parere riesce loro difficile pensare alla natura del bello assoluto separando con un taglio netto, mediante il loro ragionamento, la materia dalla bellezza che contemplano.
Se poi si vuole esaminare con attenzione la causa delle supposizioni errate e perverse, non credo di poterne trovare una diversa dal fatto che « le facoltà sensoriali della nostra anima non sono ben esercitate nel riconoscimento del bello e del brutto ».
Per questo gli uomini si allontanano dalla ricerca del vero bene: alcuni scivolano verso l'amore carnale, altri rivolgono i loro desideri verso le ricchezze inanimate ed immateriali, altri fanno consistere il bello negli onori, nella fama e nella potenza, altri si stupiscono di fronte alle arti ed alle scienze; altri infine, più abietti di costoro adottano la gola ed il ventre come criteri per giudicare il bene.
Se, lasciati i pensieri materiali e le affezioni per le apparenze, cercassero la natura semplice, immateriale e senza forma del bello, non commetterebbero errori nella scelta delle cose desiderabili né si lascerebbero fuorviare da quest'inganno fino al punto da non giungere a disprezzare tali cose considerando il carattere effimero dei loro piaceri.
Questa dovrebbe essere dunque per noi la strada che conduce alla scoperta del bello: lasciate da parte come vili ed effimere le cose che attirano i desideri degli uomini in quanto sono ritenute belle e di conseguenza anche degne di essere ambite ed accettate, non dobbiamo disperdere in nessuna di esse la nostra facoltà concupiscibile, né tenerla chiusa in noi e costringerla a restare inerte ed immobile; al contrario, una volta che l'abbiamo purificata dall'affezione per le cose meschine, dobbiamo condurla là dove non giungono le sensazioni.
In tal modo essa non ammirerà più né la bellezza del cielo né gli splendori degli astri né alcun'altra delle cose che sembrano belle, ma si lascerà guidare dalla bellezza che si contempla in esse fino al desiderio di quella bellezza « la cui gloria è celebrata dai cieli e la cui conoscenza è annunziata dal firmamento e da ogni creatura ».
Così l'anima, salendo in alto e lasciando dietro di sé in quanto inferiore all'oggetto cercato tutto ciò che è percepibile, può giungere a concepire « quella sublimità che si eleva al di sopra dei cieli ».
Ma chi si preoccupa delle cose meschine, come può raggiungere quelle più alte?
Come si può volare verso il cielo se non si è muniti delle ali celesti e se non ci si solleva verso le regioni superiori con l'aiuto di una condotta di vita più elevata?
Chi sta così al di fuori dei misteri evangelici da ignorare che esiste per l'anima umana un solo veicolo capace di farla viaggiare verso i cieli, il rendersi simili nell'aspetto alla colomba che scese giù, e le cui ali furono desiderate anche dal profeta David?
In questo modo enigmatico la Scrittura è solita alludere alla potenza dello Spirito, o perché quest'uccello non ha bile, o perché è nemico dei cattivi odori, come dicono coloro che l'hanno osservato.
Chi dunque abbandona ogni amarezza ed ogni lezzo carnale e si eleva al di sopra di tutte le cose meschine e basse; chi, per meglio dire, s'innalza al disopra di tutto il mondo grazie all'ala di cui si è parlato, è in grado di trovare l'unico oggetto degno di desiderio e di diventare anch'egli bello una volta che si è avvicinato al bello: divenuto risplendente e luminoso in questa bellezza, continuerà a rimanere partecipe della vera luce.
Dicono gli esperti che gli splendori che spesso appaiono di notte nell'aria e che alcuni chiamano stelle cadenti altro non sono che dell'aria che si riversa nelle regioni eteree sotto la spinta di certi venti: secondo loro, quest'impulso igneo si imprime nel cielo allorché il vento s'infiamma nell'etere.
Come l'aria che si trova attorno alla terra sollevata dalla forza del vento diventa luminosa, giacché è trasformata dalla purezza dell'etere, così anche la mente umana, abbandonata questa vita sudicia e squallida, diventa pura e luminosa grazie alla potenza dello spirito, si unisce alla purezza vera e sublime, risplende in un certo senso in essa, si riempie di raggi e diventa luce secondo la promessa del Signore che annunziò che i giusti sarebbero stati splendenti come il sole.
Vediamo che ciò si verifica anche sulla terra in presenza di uno specchio d'acqua o di altra superficie capace di risplendere per la sua levigatezza.
Una superficie di tal genere, quando riceve il raggio solare, produce e fa uscire da sé un altro raggio; non potrebbe farlo, se la sua purezza ed il suo splendore fossero offuscati dalla sporcizia.
Se noi ci eleviamo lasciando la tenebra terrestre e ci avviciniamo alla vera luce di Cristo, possiamo diventare luminosi in queste regioni superiori; e se « la vera luce che risplende anche nelle tenebre » giunge anche a noi, anche noi siamo luce, come dice il Signore ai suoi discepoli in un passo del Vangelo; c'è solo il rischio che la sporcizia prodotta dal vizio, crescendo nel cuore, indebolisca la grazia della nostra luce.
Mediante questi esempi il nostro discorso ci ha forse messo in grado piano piano di pensare a come trasformarci in ciò che è superiore a noi; abbiamo mostrato che non si può unire l'anima al Dio incorruttibile se essa non diventa il più possibile pura mediante l'incorruttibilità in modo da comprendere il simile con il simile, se non si offre come uno specchio riflettente alla purezza di Dio e se non forma la propria bellezza partecipando della bellezza originaria e riflettendola.
Chi è capace di abbandonare tutte le cose umane, siano esse i corpi, le ricchezze, le occupazioni che si riferiscono alla scienza o alle arti o tutto ciò che i costumi e le leggi ritengono buono ( il giudizio sul bello erra infatti proprio quando si adotta come criterio la sensazione ), prova amore e desiderio solo nei confronti di quell'oggetto che non ha ricevuto da altri la propria bellezza e che è bello non in rapporto ad un'altra cosa ma di per sé, grazie a sé ed in sé, in quanto è costantemente bello: esso non diventa bello in un certo momento per non esserlo più in un altro, ma rimane sempre nello stesso stato, al di sopra qualsiasi aggiunta ed accrescimento, senza essere oggetto ad alcun cambiamento ed alterazione.
Oso dunque dire che a colui che ha purificato « da ogni specie di vizio » tutte le facoltà della propria anima si rivela l'oggetto che è bello unicamente grazie alla sua natura e che è la causa di ogni bellezza e di ogni bene.
Come l'occhio liberato dalla cispa vede splendere ciò che si trova nell'aria, così l'anima, grazie alla purezza, possiede la facoltà di pensare quella luce: la vera verginità e la ricerca dell'incorruttibilità perseguono lo scopo della visione di Dio, che è resa possibile proprio da esse.
Nessuno ha la mente così cieca, da non capire da sé che l'oggetto che è bello, buono e puro in modo vero, originario unico è il Dio di tutte le cose.
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