Teologia dei Padri |
Chi è ben disposto interiormente e si dà cura della sua anima, da nulla mai può essere contristato, ma gode di una gioia incessante.
E che questo sia vero, uditelo da Paolo che oggi ci ripete la sua esortazione: Rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto ancora, rallegratevi ( Fil 4,4 ).
So bene che a molti ciò sembra impossibile: Ma come può avvenire - si dice - che un uomo possa rallegrarsi incessantemente?
Rallegrarsi non è difficile, ma rallegrarsi incessantemente mi sembra impossibile - forse dirà qualcuno -: sono tante le occasioni di tristezza che necessariamente ci circondano.
O si perde un figlio, o la moglie, o un amico carissimo, più amato dei propri parenti; o si subisce qualche disastro finanziario, o si cade malati, o si soggiace a qualche altro disastro o si subisce qualche oltraggio indegno; e poi la carestia, la fame, o una tassa gravosissima, o una preoccupazione in famiglia.
Non ci è possibile elencare tutti i malanni pubblici e privati che dobbiamo incessantemente sopportare.
Com'è dunque possibile - si dice - gioire incessantemente?
É possibile, o uomo; e se non fosse possibile, Paolo non ce l'avrebbe imposto; anzi, nemmeno ce lo avrebbe consigliato, poiché era un uomo ricco di sapienza spirituale.
Per questo ve l'ho detto continuamente e non cesserò mai di dirvelo: qui potrete ricercare una saggezza che nessun altro può insegnarvi mai.
Tutti bramano il piacere e la gioia, e a questo scopo tutto intraprendono, dicono o fanno.
Per questo il mercante affronta la navigazione: per accumulare beni; e accumula beni per godere del loro possesso; per questo il soldato combatte, per questo il contadino coltiva la terra e per questo ciascuno si dedica alla sua arte; quelli che bramano il potere lo bramano per ottenere la gloria; e vogliono ottenere la gloria per goderne.
Ciascuno può vedere che questo è il fine cui miriamo in ogni nostra azione, e ciascuno, che ciò osserva, cerca anche lui di raggiungerlo con tutti i mezzi.
Tutti dunque, come ho detto, amano la gioia, ma non tutti possono conseguirla in quanto non conoscono la strada che conduce ad essa.
Molti pensano che consista nell'essere ricchi.
Ma se consistesse veramente in ciò, chi possiede molti beni non sarebbe mai triste; ora, invece, molti ricchi stimano la vita indegna di essere vissuta e desiderano mille volte la morte quando esperimentano qualche avversità: anzi, proprio loro più di tutti gli altri si lasciano prendere dalla tristezza.
Cos'altro mai può dunque rendere felice la vita?
Nessuna cosa umana; solo questa parola di Paolo, semplice e breve, può schiuderci tanto tesoro.
Non c'è bisogno infatti di molte parole o di lunghe frasi, ma riflettendo solamente su quel detto troveremo la strada che ci porta alla felicità.
Paolo non dice semplicemente: « Rallegratevi sempre », ma pone anche la causa di questa letizia incessante, dicendo: « Rallegratevi sempre nel Signore »: chi gode nel Signore non può decadere da tanta felicità per nessun evento.
Ma tutti gli altri motivi per cui godiamo sono mutevoli e volubili, e facilmente si alterano; né questo solo è il loro guaio, perché anche se permanessero non ci recano un piacere che non possa essere allontanato o oscurato dalla tristezza sorta per altri motivi.
Ma il timore di Dio ha tutt'e due queste caratteristiche: è sicuro e incrollabile e trabocca di tanta letizia da renderci impossibile la percezione di null'altro.
Chi dunque teme Dio come si deve e in lui confida, ha raggiunto la radice della felicità, si è impossessato della fonte di ogni letizia.
E come una piccola scintilla caduta nel mare immenso facilmente si spegne, così qualsiasi evento, che cade addosso a chi teme Dio, che è come un mare di felicità incessante, si spegne e si perde.
Il meraviglioso, dunque, è proprio questo: che alla presenza delle sofferenze egli resta lieto.
Se infatti non avesse dolore alcuno, non sarebbe un granché per lui poter gioire sempre; ma se gli sopraggiungono molti guai che ordinariamente conducono alla tristezza, essere superiore a tutto e giubilare in mezzo alle sofferenze: ecco la meraviglia.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, 18,1-2
« Una festa », come dice bene un sapiente greco [ Tucidide ], « non è altro che compiere il proprio dovere ( verso la divinità ) ».
E davvero celebra una festa colui che compie questo suo dovere: pregando sempre, offrendo incessantemente alla divinità nelle proprie preci, vittime incruente.
Per questo mi sembra magnifico ciò che dice Paolo: Voi osservate i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni! Temo di aver lavorato invano fra di voi ( Gal 4,10-11 ).
Se poi qualcuno obietta a ciò che anche noi abbiamo i nostri giorni del Signore e di vigilia, e Pasqua e Pentecoste, gli si deve rispondere che il perfetto cristiano, il quale nelle parole, nelle opere e nei pensieri è sempre unito al Logos di Dio, per sua natura Signore, vive sempre nei suoi giorni, celebra quotidianamente il giorno del Signore.
Chi poi si prepara incessantemente alla vita vera, si astiene dai piaceri della vita che ingannano i più, e non alimenta le mire della carne, ma castiga il suo corpo e lo tiene in schiavitù ( 1 Cor 9,27 ), celebra incessantemente vigilia.
E anche chi ha riconosciuto che Cristo, nostra Pasqua, si è immolato ( 1 Cor 5,7 ) e che deve celebrarne la festa mangiando la carne del Logos, costui non cessa mai di celebrare la Pasqua, che significa passaggio: passa incessantemente, infatti, in tutti i pensieri, in tutte le parole e in tutte le opere, dalle faccende di questa vita a Dio, affrettandosi verso la sua città.
Oltre a ciò chi può dire in verità: Insieme con Cristo siamo risorti ( Col 3,1 ), e anche: Insieme ci ha risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo ( Ef 2,6 ), vive incessantemente nei giorni di Pentecoste; e tanto più se, entrando nel cenacolo come gli apostoli di Gesù, si dedica alla preghiera e all'orazione, per rendersi degno del soffio potente che viene dal cielo, soffio che annienta col suo vigore la malizia degli uomini e ciò che ne deriva; e degno anche di partecipare alle lingue di fuoco che scendono da Dio.
Ma la massa di coloro che sembrano aver la fede e che non vogliono o non possono celebrare in questo modo tutti i giorni, hanno bisogno, per tener viva la memoria, di commemorazioni sensibili, per non scadere del tutto.
Ritengo che a ciò pensasse Paolo, chiamando « parte della festa » ( Col 2,16 ) la celebrazione ricorrente in giorni stabiliti diversi dagli altri: alludeva, esprimendosi in questo modo, che la vita condotta sempre secondo il Logos divino non è parte di una festa, ma è una festa completa e incessante.
Considera dunque nuovamente da ciò che abbiamo detto sulle nostre feste e paragonandole con le feste celebrate dai pagani e da Celso, se non siano molto più sante delle pubbliche celebrazioni, in cui sono le mire della carne che fanno festa e insolentiscono, volgendosi all'ubriachezza e alla licenziosità.
Sarebbe ora lungo dire perché le feste, celebrate secondo la legge di Dio, ci insegnano a mangiare il pane di afflizione ( Dt 16,3 ), o a cibarci di pani azzimi con erbe selvatiche ( Es 12,8 ), o perché sia detto: Umiliate le vostre anime ( Lv 16,29 ), e altre espressioni simili.
Non è possibile infatti che tutto quanto l'uomo, in cui la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne ( Gal 5,17 ), possa far festa con tutto il suo essere.
Se qualcuno fa festa nello spirito affligge il corpo che, per natura sua e le sue mire carnali, non può far festa insieme con lo spirito; e chi fa festa secondo la carne non può celebrare certo la festa dello spirito.
Origene, Contro Celso, 8,21-24
Avete udito le parole che l'Apostolo rivolge ai Tessalonicesi, dettando una legge per tutto il vivere umano.
Dava questo insegnamento, infatti, anzitutto a quelli che si trovavano a lui d'intorno; ma l'utilità che ne deriva trapassa in tutta la vita degli uomini.
Siate sempre allegri, dice, non cessate di pregare, in ogni occasione rendete grazie ( 1 Ts 5,16 ).
Che significa quest'allegria e qual è l'utilità che ne deriva, come sia possibile dedicarsi a una preghiera incessante e in ogni circostanza ringraziare Dio, lo spiegheremo tra un po', come ci sarà possibile.
É necessario infatti premettere ciò che ci obiettano i nostri avversari, cioè che è impossibile osservare quest'imposizione.
Che sorta di virtù è trascorrere la notte e il giorno effondendo l'animo nella letizia e nell'ilarità?
E anche se ciò risultasse possibile, ci circondano mille mali imprevedibili che gettano necessariamente l'anima nella tristezza.
Per questi, rallegrarsi e esser lieti è impossibile, più ancora che non sentire dolore se si viene arsi e non soffrire se si viene trafitti.
Come mi è possibile stare sempre allegro, si dice, dato che la causa della gioia non è in mia mano?
Ciò che dà la gioia, viene dall'esterno, non è in noi: per esempio l'arrivo di un amico, un lungo soggiorno con i genitori, la scoperta di tesori, l'onore presso gli uomini, la guarigione da una grave malattia e tutto ciò che rende la vita felice: una casa cui nulla manchi, una tavola riccamente imbandita, una lieta compagnia nel godimento, dolci melodie e spettacoli, la salute dei propri intimi e in genere un corso felice della loro vita.
Ci fanno infatti soffrire non solo i dolori nostri, ma anche quelli che colpiscono gli amici e i parenti.
Da tutto ciò risulta la gioia e l'allegria dell'anima.
Oltre a ciò, si deve vedere il crollo dei nemici, la sconfitta dei persecutori, la ricompensa delle nostre beneficenze, e, in breve, quando proprio nulla ci crea dispiacere o inquietudine nella vita né per il presente né per il futuro, solo allora nell'anima vi può essere l'allegria.
Perché dunque ci è stato dato un comando, la cui attuazione non dipende dalla nostra libera volontà, ma è il risultato di tutte queste circostanze?
E mi è imposto perfino di essere riconoscente in ogni circostanza.
Devo ringraziare quando mi martirizzano, mi flagellano, mi stendono sulla ruota, mi cavano gli occhi?
E devo ringraziare se uno schiaffo di chi mi odia m'oltraggia e disonora?
Se sono intirizzito per il freddo, esausto per la fame, se vengo legato al cavalletto per la tortura, o in un momento solo vengo privato di tutti i figli e perfino della moglie?
E ringraziare se un naufragio mi priva improvvisamente di tutte le mie sostanze, se cado in mano dei pirati, in mare, o dei ladroni, in terra?
E ringraziare se vengo ferito, se vengo calunniato, se sono costretto a vagabondare in miseria, o a languire in carcere?
Questo e più ancora mettono insieme gli accusatori del Legislatore e si illudono di poter scusare i loro peccati dichiarando che la sua legge è qualcosa di impossibile. Che risponderemo?
L'Apostolo ha qualcosa di diverso davanti agli occhi: egli cerca di innalzare la nostra anima dalla terra al cielo, di convertirla a una vita celestiale.
Per questo egli non invita chiunque ad essere sempre allegro, ma solamente colui che gli è simile: che cioè non vive più nella carne, ma ha in sé Cristo vivente; infatti l'unione al sommo Bene rende completamente insensibile alle molestie della carne.
Un'anima che è tutta presa dal desiderio del Creatore, che ha trovato la propria gioia nella sua beltà, non cambierà mai questa letizia e questa allegrezza con mille piaceri sensibili; piuttosto, ciò che rende tristi gli altri aumenterà la sua letizia.
Ne è un esempio vivente l'Apostolo, che si è compiaciuto della sua debolezza, dei suoi disagi, persecuzioni, bisogni e che si è gloriato della sua povertà.
Nella fame e nella sete, nel freddo e nella nudità, nelle persecuzioni e nelle angosce, quando gli altri sospirano e sono disgustati della vita, egli si rallegrava.
Quelli che non conoscono il suo animo e non comprendono come egli inviti a una vita evangelica, hanno il coraggio di accusarlo come se ci imponesse obblighi impossibili.
Ma si lascino dire! Quante occasioni di giusta allegria ci dona la liberalità di Dio! Siamo stati chiamati all'essere quando non eravamo; e lo siamo stati a immagine del Creatore.
Abbiamo la mente, la ragione, che costituiscono la nostra essenza e ci permettono di conoscere Dio.
E se consideriamo con attenzione la bellezza del creato, vi leggiamo quasi scolpite in lettere la somma provvidenza di Dio riguardo a tutto, e la sua sapienza.
Sappiamo distinguere il bene e il male; abbiamo appreso dalla natura stessa a scegliere ciò che ci giova e a scartare ciò che ci nuoce.
Allontanatici da Dio per i nostri peccati, siamo stati nuovamente chiamati alla sua intimità, redenti, per il sangue dell'Unigenito, da una vergognosa schiavitù.
E poi la speranza della risurrezione, il possesso dei beni angelici, il regno dei cieli, i beni promessi, che superano ogni possibilità della parola e dello stesso pensiero.
Non sono questi, come giusto, da ritenere motivi generatori di una gioia incessante e di una allegrezza ininterrotta?
O è da credere piuttosto che chi serve al ventre, chi si allieta dei suoni delicati, chi giace e russa in un letto molle conduca una vita degna di gioia?
Direi piuttosto che costui dovrebbe esser commiserato da quelli che hanno intelletto, e che invece giustamente dovrebbero venire stimati fortunati quelli che trascorrono la vita presente nella speranza di una vita futura, e cambiano i beni di quaggiù con quelli eterni.
Sia che si trovino tra le fiamme coloro che stanno sempre uniti a Dio, come i tre fanciulli a Babilonia, sia che vengano rinchiusi tra i leoni o ingoiati dalla balena, li dobbiamo tuttavia ritenere beati, ammettendo che trascorrono la vita nella gioia, perché non si rattristano dei mali presenti, ma si allietano nella speranza di ciò che ci è stato riservato per il futuro.
Credo infatti che l'atleta valoroso, che già si è prodigato per la lotta della vita di pietà, deve sostenere con coraggio i colpi dell'oppositore, nella speranza della gloria e della vittoria.
Anche nelle gare ginniche quelli che sono allenati alle fatiche della palestra, infatti, non si scoraggiano per un colpo, ma subito attaccano l'avversario per desiderio di celebrità e disprezzano le sofferenze.
Così, se qualche evento colpisce l'uomo fervoroso, non ne offusca l'allegrezza e precisamente per questo motivo: La tribolazione produce la pazienza; la pazienza porta all'approvazione e l'approvazione alla speranza: e la speranza non fa arrossire ( Rm 5,3 ).
E così anche in un altro passo Paolo ci impone di essere pazienti nella tribolazione e rallegrarci nella speranza ( Rm 12,12 ).
É la speranza dunque che fa della gioia la compagna inseparabile dell'uomo fervoroso.
Basilio il Grande, Omelia sul ringraziamento, 1-3
Si inebrieranno nell'abbondanza della tua casa ( Sal 36,9 ).
Intravedo che il salmista ci promette qualcosa di grande.
Vuol dirlo, e non lo dice; non può, oppure siamo noi che non comprendiamo?
Oso dire, fratelli miei, anche riguardo alle sante lingue e ai cuori, per mezzo dei quali ci è stata annunziata la verità, che non può essere detto e neppure pensato ciò che essi annunziavano.
É infatti una realtà grande e ineffabile, ed essi stessi la videro in parte e in enigma, come dice l'Apostolo: Ora vediamo in parte e in enigma, ma allora vedremo faccia a faccia ( 1 Cor 13,12 ).
Ecco, effondevano con le labbra quel che vedevano in enigma.
Quali saremo noi, quando avremo visto faccia a faccia ciò che essi concepivano nel cuore e non potevano generare con parole comprensibili agli uomini?
Infatti, quale necessità c'era di dire: « Si inebrieranno nell'abbondanza della tua casa »?
Il salmista ha cercato tra le cose umane una parola con cui esprimere ciò che doveva dire, e poiché ha visto gli uomini bere fino all'ubriachezza, prendere smoderatamente il vino e perdere la mente, ha compreso che espressione usare: perché, una volta ricevuta quell'ineffabile letizia, viene meno in un certo modo la mente umana, e diventa divina, e si inebria nell'abbondanza della casa di Dio.
Per questo in un altro salmo è detto: La tua coppa inebriante quanto è eccellente! ( Sal 23,5 ).
Da questo calice erano inebriati martiri, quando, andando al martirio, non riconoscevano i loro parenti.
Quale altro effetto è così proprio dell'ebbrezza quanto il non riconoscere la sposa che piange, i figli, i parenti?
Non li riconoscevano, non credevano di averli dinanzi agli occhi; non stupitevi: erano ebbri.
E di che cosa erano ebbri? Osservate: avevano ricevuto la coppa con cui inebriarsi.
Per questo anche il salmista ringrazia Dio dicendo: Che renderò al Signore per tutte le cose che mi ha dato?
Prenderò il calice della salute e invocherò il nome del Signore ( Sal 116,12-13 ).
Agostino, Esposizioni sui Salmi, 36,14
Se dunque desideri la letizia, non inseguire la ricchezza né la salute del corpo né la gloria né la potenza né il piacere e neppure le tavole imbandite o i vestiti di seta o i campi rigogliosi o una casa splendida e sfarzosa né qualsiasi altra cosa del genere: persegui la scienza secondo Dio, acquista la virtù: e nulla di ciò che si presenta o si aspetta potrà affliggerti; e perché dico affliggerti?
Sarà per te nuova occasione di letizia ciò che rattrista gli altri: financo i flagelli, la morte, le perdite, le accuse, e ogni male simile, allorché li dobbiamo subire per Dio o in lui hanno la loro radice.
Nessuno, perciò, può renderci infelici se non siamo noi stessi a farlo; come neppure beati, oltre alla grazia di Dio, se non siamo noi a sforzarvici.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, 18,4
Di nuovo vi vedrò e gioirete, e la vostra gioia nessuno ve la toglierà ( Gv 16,22 ).
Sono parole brevi, ma ricche d'immensa consolazione.
Ma che significa: « La vostra gioia nessuno ve la toglierà »?
Se possiedi delle ricchezze, molti possono toglierti la gioia che ne deriva: il ladro che fora la parete, lo schiavo che si impossessa di ciò che gli hai affidato, il re che te le confisca, l'invidioso che tenta di danneggiarti.
Se hai autorità, molti possono toglierti la gioia che ne deriva; finito il potere, è finito il piacere; anzi, durante l'esercizio stesso del potere succedono molti fatti che creano difficoltà e preoccupazioni che limitano la tua gioia.
Se hai la salute del corpo, una malattia che sopraggiunge ti toglie la gioia che ne deriva; se hai bellezza e avvenenza, viene la vecchiaia che ti appassisce e te ne toglie la gioia; se godi di una tavola riccamente imbandita, viene la sera e fa cessare la gioia del convito.
Ogni bene di questa vita è estremamente vulnerabile, e non può procurarci una gioia duratura.
Ma la pietà, le virtù interiori, operano precisamente il contrario.
Se fai dell'elemosina, nessuno può togliertene il merito: anche se un esercito, se un re, se mille delatori o insidiatori ti circondassero ovunque, non possono privarti della ricchezza che tu hai riposto nei cieli, e la gioia che ne deriva dura in eterno.
É scritto infatti: Ha fatto elargizioni e ha fatto doni ai poveri: la sua giustizia resta nei secoli ( Sal 112,9 ).
Ed è ovvio: il suo tesoro è stato rinchiuso nei forzieri del cielo, dove il ladro non scava, il predone non rapisce, la tignola non corrode.
Se innalzi una preghiera incessante e intensa, nessuno può strappartene il frutto: anche in questo caso esso ha le sue radici nel cielo, è sicuro contro ogni danno e resta inespugnabile.
Se subisci il male e ricambi con il bene, se sei biasimato e lo sopporti con pazienza, se sei maledetto e benedici, sono meriti che restano per sempre, e la gioia che ne deriva nessuno te la toglierà; anzi, ogni volta che te ne ricorderai, te ne rallegrerai e ne raccoglierai una grande letizia.
Giovanni Crisostomo, Omelie sulle statue, 16,6
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