L'apologetico |
Non i Cristiani sono la causa delle disgrazie e dei disastri che incolgono i Pagani.
Quanti di questi non si contano prima ancora che i Cristiani esistessero!
Se mai, ora i disastri sono più rari e meno gravi, in quanto i Cristiani il vero Dio pregano e presso lui intercedono, mentre voi fate ricorso agli dei falsi.
1. Per contro a quelli si deve attribuire il nome di fazione, i quali, per suscitare l'odio contro persone buone e oneste cospirano, che contro il sangue d'innocenti gridano, a giustificazione del loro odio pretestando, invero, anche quella futile opinione, per cui stimano che per ogni pubblica calamità, per ogni disgrazia popolare siano in causa i Cristiani.
2. Se il Tevere fino alle mura sale, se il Nilo fino ai campi non cresce, se il cielo si arresta, se la terra si scuote, se c'è la fame, la peste, subito « I Cristiani al leone! » - si grida.
Tanta gente a un solo leone?
3. Io vi domando: prima di Tiberio, vale a dire, prima della venuta di Cristo, quante calamità le città del mondo non devastarono!
Si legge che le isole di Iera, Anafe e Delo e Rodi e Cos scomparvero negli abissi con molte migliaia di uomini.
4. Anche Platone ricorda che una terra, maggiore dell'Asia e dell'Africa, fu dal mare Atlantico strappata.
Ma anche il mare di Corinto fu da un terremoto assorbito; e la violenza delle onde la Lucania distaccò e rimosse col nome di Sicilia.
Tutto ciò accadere senza danno degli abitanti certo non poté.
5. Ma dov'erano allora, non dirò i Cristiani, dei vostri dei spregiatori, ma gli stessi vostri dei, quando il diluvio il mondo tutto distrusse, oppure, come credette Platone, soltanto il piano?
6. E invero, che quegli dei al disastro del diluvio posteriori siano, le città stesse lo attestano, in cui nacquero e morirono, quelle anche ch'essi fondarono; né infatti altrimenti sarebbero fino al dì d'oggi durate, se esse pure non fossero a quel disastro posteriori.
7. Non ancora la Palestina aveva lo sciame dei Giudei accolto, usciti dall'Egitto; né ancora si era colà il popolo stanziato, che fu della setta cristiana l'origine, quando le regioni a lui confinanti, Sodoma e Gomorra, il fuoco distrusse.
Tuttora quella terra di bruciato odora; e se pur colà qualche frutto di piante appare, è un tentativo che non va oltre gli occhi: toccato, si riduce in cenere.
8. Ma nemmeno la Toscana, allora, e la Campania dei Cristiani si lagnavano, quando Volsinio il fuoco caduto dal cielo, Pompei quello disceso dal proprio monte ricoperse.
Nessuno ancora in Roma il Dio vero adorava, quando Annibale a Canne la sua strage misurava, col moggio gli anelli romani raccogliendo.
9. Tutti gli dei vostri da tutti erano adorati, quando il Campidoglio stesso i Senoni avevano occupato.
Per fortuna che, se avversità le città incolsero, i disastri ugualmente gli edifici e i templi colpirono: talché pure da ciò io concludo che non da essi dei i disastri derivano, perché capitarono anche ad essi.
10. Sempre il genere umano male meritò della divinità: prima, invero, come non riguardoso di essa, che pur intendendola in parte, non ricercò, ma altri dei da adorare per di più si foggiò; poi perché, il maestro dell'innocenza e il giudice e l'inquisitore della colpevolezza non ricercando, di tutti i vizi e misfatti si ricoperse.
11. Invero, se Dio ricercato avesse, ne seguiva che, una volta ricercato, l'avrebbe riconosciuto e, riconosciutolo, l'avrebbe venerato e, venerandolo, propizio più che adirato sperimentato lo avrebbe.
Deve dunque sapere che il Dio anche presentemente adirato, è il medesimo che per l'addietro, sempre, prima che il nome dei Cristiani si facesse.
12. Se dei benefici di lui godeva, operati prima, che egli si foggiasse i suoi dei, perché non dovrebbe comprendere che anche i mali da Colui gli derivano, al quale non comprese appartenere quei beni?
Colpevole è esso verso Colui, verso il quale è ingrato.
13. E tuttavia, se i precedenti disastri compariamo, più lievi sono quelli che accadono ora, da che il mondo da Dio i Cristiani ha ricevuto.
Da allora, infatti, e persone innocenti hanno le iniquità del mondo temperato, e ad esservi cominciarono degli intercessori davanti a Dio.
14. In fine quando d'estate le nuvole le piogge sospendono e l'annata è causa di preoccupazioni, voi, pur ogni giorno ben pasciuti e pronti a rimettervi a tavola, mentre i bagni e le osterie e i postriboli sono pur sempre in attività, aquilici, vittime immolando a Giove, celebrate, al popolo processioni a piedi nudi ordinate, il cielo cercate sul Campidoglio, le nuvole attendete dai soffitti, proprio a Dio e al cielo le spalle voltando.
15. Noi, invece, disseccati per i digiuni e da ogni specie di continenza estenuati, da ogni piacere della vita allontanati, di sacco e di cenere avvolti, al cielo bussiamo con la fame, commoviamo Dio: e quando noi gli abbiamo strappata la pietà, da voi vengono resi onori a Giove.
Vostra è la colpa, se disgrazie vi colpiscono, non nostra.
Le quali per noi sono, in ogni caso, un salutare ammonimento.
1. Voi, dunque, di dànno siete all'umanità, voi colpevoli, delle pubbliche calamità provocatori sempre, tra i quali il Dio vero è disprezzato e si adorano delle statue.
E invero deve ritenersi più credibile esser Lui che si adira, il quale viene disprezzato, che coloro, i quali sono venerati.
Oppure sono ben ingiusti quelli, se, per cagione dei Cristiani, anche i loro cultori danneggiano, che dovrebbero dai demeriti dei Cristiani separare.
2. « Codesto - dite - si può anche contro il vostro Dio ritorcere, se egli pure permette che, per cagione degli empi, anche i suoi adoratori siano danneggiati ».
Ascoltate prima le sue disposizioni, e non ritorcerete.
3. Egli invero, che il giudizio eterno una volta per sempre ha fissato dopo la fine del mondo, non anticipa la separazione, che è condizione del giudizio, prima della fine del mondo.
Nel frattempo egli uguale si mostra nei riguardi di tutto il genere umano: benigno e severo.
Ha voluto che comuni fossero i benefici agli empi, e i danni ai suoi, affinché in pari consorzio tutti e la sua bontà sperimentassero e la sua severità.
4. Poiché codesto essere così proprio da lui abbiamo appreso, ne amiamo la bontà, ne paventiamo la severità; voi, al contrario, l'una e l'altra disprezzate; e ne segue che tutti i flagelli del mondo per noi, se mai, da Dio provengono in ammonimento, per voi in castigo.
5. Sennonché noi in nessun modo n'abbiamo danno: in primo luogo perché nulla c'interessa in questo mondo, se non codesto, andarcene al più presto; in secondo luogo, perché, se qualche avversità ci viene inflitta, alle vostre colpe va attribuita.
Ma se pur qualcuna ci tocca, come vostri coabitatori, ci rallegriamo piuttosto, i divini ammonimenti riconoscendovi, confermanti, è chiaro, la fiducia e la fede nel compimento della nostra attesa.
6. Che se, invece, tutti i mali capitano a voi da quelli che venerate, per causa nostra, perché a venerare persistete dei tanto ingrati, tanto ingiusti, che aiutarvi e difendervi avrebbero piuttosto dovuto in mezzo al dolore dei Cristiani?
Nemmeno meritano i Cristiani la taccia di gente inutile: essi partecipano a tutte le forme della vostra vita.
Non alle festività pagane, si capisce. Ma di ciò nessun danno proviene a voi.
1. Ma anche per un altro titolo accusati siamo di farvi torto: anche ci si dice inutili agli affari.
Come mai si dice questo di uomini, che insieme con voi vivono, a parte della stessa vita, dello stesso vestito, della stessa suppellettile, delle stesse necessità dell'esistenza?
Chénon siamo i Bramani o i Gimnosofisti degli Indiani, delle selve abitatori, fuori della vita.
2. Ci ricordiamo di dover riconoscenza a Dio, Signore, Creatore; nessun frutto dell'opera sua rifiutiamo; certo ci moderiamo, per non usarne oltre misura o malamente.
Perciò non senza usare del foro, del macello, dei bagni, delle botteghe, delle officine, delle stalle, dei vostri mercati e degli altri commerci, con voi coabitiamo in questo mondo.
3. Navighiamo noi pure insieme con voi e della milizia facciamo parte e la terra coltiviamo e ugualmente le mercanzie scambiamo e i prodotti delle arti e il nostro lavoro mettiamo in vendita per l'utile vostro.
Come si possa sembrare inutili ai vostri affari, con i quali e dei quali viviamo, non comprendo.
4. Ma se le tue cerimonie non frequento, sono tuttavia anche in quel giorno un uomo.
Non faccio il bagno al primo albore nei Saturnali, per non perdere la notte e il giorno: tuttavia faccio il bagno a un'ora conveniente e salubre, che il calore mi conservi e il sangue.
Di intirizzire e di diventar pallido dopo il bagno ho la possibilità dopo morto.
5. Non banchetto in pubblico nelle feste Liberali, poiché di farlo hanno costume i bestiarii, quando compiono l'ultimo pranzo: tuttavia pranzo dove che sia, della roba tua usando.
6. Non compro una corona da pormi sul capo: che importa a te com'io dei fiori usi, che nondimeno compro?
Penso che più gradito torni usarne liberi e disciolti e per ogni verso disordinati: ma pur intrecciati in corona, noi conosciamo la corona per uso delle nari; quelli che annusano per mezzo dei capelli, se la vedano loro.
7. Non conveniamo agli spettacoli: tuttavia le cose, che in quelle accolte di gente si vendono, se n'ho desiderio, più liberamente le posso comperare nei luoghi loro propri. Incenso certo non comperiamo: se le Arabie se ne lagnano, sappiano i Sabei che in maggior copia e a più caro prezzo le loro merci vengono consumate per seppellire i Cristiani, che per affumicare gli dei.
8. « Certo - dite - ogni giorno le entrate dei templi si assottigliano: quanto pochi sono coloro che gittano ormai delle monete! »
Gli è che noi non bastiamo a dar soccorso agli uomini e agli dei vostri mendicanti, né crediamo che elargire si debba ad altri, che a quelli che domandano.
In somma, stenda Giove la mano e riceva: mentre, intanto, la nostra pietà più impiega distribuendo per i vicoli, che la vostra religione nei templi.
9. Ma le altre rendite renderanno grazie ai Cristiani, che il loro debito fedelmente pagano, in quanto dal frodare l'altrui ci asteniamo: talché, se il conto si facesse di quanto va per le entrate perduto a causa della frode e delle menzogne delle vostre dichiarazioni, il conto potrebbe tornare facilmente, riscontrandosi il danno deplorato per un solo titolo, compensato dal vantaggio degli altri computi.
Coloro che in verità possono lagnarsi di non ricevere nessun utile da noi, sono i seduttori, i mezzani, i sicari eccetera; e del pari gl'indovini e gli aruspici.
1. Confesserò francamente chi sono coloro che, se mai, con verità lagnarsi potrebbero del nessun lucro procurato loro dai Cristiani.
Primi verranno i lenoni, i seduttori, i mezzani; indi i sicari, gli avvelenatori, i fattucchieri; del pari gli aruspici, gl'indovini, gli astrologhi.
2. Non procurar lucro a costoro è grande lucro.
E tuttavia, qualunque sia il pregiudizio che al vostro interesse da questa setta deriva, da qualche vantaggio può essere compensato.
Quanto non stimate, non dico già persone che da voi i demonii cacciano, non dico già persone che anche per voi preghiere al vero Dio umiliano, perché forse non ci credete: ma persone, da cui nulla temere potete?
Danno verace per voi è la condanna che pronunciate di tanti innocenti: tra i quali mai non riscontrate un criminale.
1. Ma in verità quello è un danno per lo Stato, danno tanto grande quanto reale, cui nessuno pone mente; quella è un'offesa alla città, che nessuno considera: il fatto che tanti giusti fra noi siano tolti di mezzo, che tanti innocenti siano fatti morire.
2. Chiamiamo infatti in testimonio senz'altro i vostri atti, voi che ogni giorno presiedete al processo dei prigionieri, voi che con le vostre sentenze le accuse specificate.
Tanti colpevoli sono da voi passati in rassegna sotto varie imputazioni di delitti: quale sicario in quelle, quale borsaiolo, quale sacrilego o seduttore o ladro di bagnanti, chi tra quelli è al tempo stesso come cristiano annoverato?
Oppure, allorché dei Cristiani vi sono a proprio titolo deferiti, chi fra essi è nello stesso tempo tale, quali sono tanti colpevoli?
3. Dei vostri sempre rigurgita il carcere, dei vostri sempre i sospiri nelle miniere, dei vostri sempre s'ingrassano le belve, dai vostri sempre gl'imprenditori di spettacoli traggono le mandre di malfattori, che essi nutrono.
Nessun Cristiano colà, se non proprio soltanto Cristiano: o, se altra cosa, non più Cristiano.
Noi soli possediamo la vera innocenza: perché nostro maestro è Dio, non, come per voi, un uomo; e la punizione della colpa sarà per noi eterna, non, come per voi, temporanea.
1. E allora noi soli siamo innocenti.
Qua! meraviglia, se è inevitabile? E in verità è inevitabile.
Avendo appresa l'innocenza da Dio, e la conosciamo perfettamente, come rivelataci da un maestro perfetto, e la custodiamo fedelmente, come impostaci da un giudice che non si può disprezzare.
2. A voi, invece, un apprezzamento umano l'innocenza ha insegnato e, del pari, un dominio umano l'ha imposta: perciò né così completa, né tale da farsi altrettanto temere è la vostra disciplina, nei riguardi della innocenza vera.
Quanta è la sapienza di un uomo a dimostrare un bene, tanta è la sua autorità a esigerlo: quanto è facile che la prima s'inganni, tanto è facile che la seconda venga disprezzata.
3. E in verità, che è più completo, dire: « Non ucciderai », - oppure insegnare: « Nemmeno devi adirarti »?
Che è più perfetto, proibire l'adulterio, oppure rimuovere perfino dalla solitaria concupiscenza dello sguardo?
Che è più evoluto, interdire il maleficio, oppure anche la maldicenza?
Che è più sapiente, non permettere l'offesa, oppure nemmeno il contraccambio dell'offesa consentire?
4. E dovete tuttavia sapere che anche le stesse vostre leggi, che aver di mira sembrano l'innocenza, la loro forma hanno derivato dalla legge divina, come più antica.
Abbiamo parlato già dell'età di Mosè.
5. Ma quanto scarsa è mai delle leggi umane l'autorità, se all'uomo spesso di eluderle capita, riuscendo a tener nascoste le sue colpe e, qualche volta, a non farne caso, rendendosi colpevole o volontariamente o costretto?
6. Consideratela anche riguardo alla brevità del castigo, che, qualunque sia, tuttavia oltre la morte non durerà.
Così anche Epicuro ogni tormento e dolore disprezza, dichiarandolo, se lieve, in verità, da non curarsene, se forte, di non lunga durata.
7. E invero noi, che giudicati siamo sotto un Dio, che tutto scruta, e un castigo eterno da lui prevediamo, meritamente i soli siamo che l'innocenza raggiungiamo, e per la pienezza della sapienza e per la difficoltà del rimanere nascosti e per la grandezza del tormento, non di lunga durata, ma eterno; noi, che uno temiamo, cui dovrà temere anche colui che giudica, Dio, non un proconsole.
Voi dite che nulla di diverso insegniamo da quello che insegnano i filosofi.
O perché, allora, non ci trattate come loro?
Del resto non è vero che noi si sia uguali ai filosofi. Non abbiamo nulla di comune con loro.
1. Abbiamo fronteggiato, come credo, gl'intentatori di tutte le accuse, che dei Cristiani il sangue reclamano.
Abbiamo dimostrato tutta la nostra condizione, e in qual modo possiamo provare che è così come abbiamo dimostrato: vale a dire, in base all'autorità e antichità delle Scritture divine e, del pari, in base alla confessione delle potenze spirituali.
Chi smentirci oserà, non con l'arte della parola, ma nella stessa forma con cui abbiamo stabilita la nostra dimostrazione, in base alla verità?
2. Ma mentre a ognuno manifesta si rende la nostra verità, l'incredulità intanto, se ad ammettere la bontà s'induce di questa setta, resa ormai palese dall'esperienza e dai rapporti sociali, una cosa divina assolutamente non lo stima, ma, piuttosto, una specie di filosofia.
« Lo stesso - dicono - consigliano e professano anche i filosofi: innocenza, giustizia, tolleranza, moderazione, pudicizia ».
3. O allora, se con quelli ci si compara circa la dottrina, perché del pari a loro non ci si uguaglia nella libertà e impunità della dottrina?
Oppure, perché essi pure, come nostri pari, costretti non vengono a prestazioni, che noi con nostro pericolo di compiere omettiamo?
4. Chi infatti un filosofo forza a sacrificare o a giurare o ad esporre delle lampade inutili a mezzodì?
Che anzi essi, i filosofi, i vostri dei pubblicamente tentano di distruggere, e le vostre superstizioni nei loro memoriali anche accusano, e voi li lodate.
Parecchi pure contro i principi abbaiano, e voi li tollerate; e piuttosto con statue e salari sono ricompensati, che non alle belve condannati.
5. Ma è giusto: si chiamano filosofi, non Cristiani.
Davanti a codesto nome di filosofi non fuggono i demoni.
Qual meraviglia, dal momento che i filosofi i demoni considerano subito dopo gli dei?
É parola di Socrate: « Qualora il demone lo permetta ».
Egli anche, che pur qualche parte della verità mostrava di conoscere, degli dei l'esistenza negando, già presso alla fine, di sgozzare tuttavia un gallo ordinava in onore di Esculapio, credo, per rendere onore al di lui padre, in quanto Apollo Socrate dichiarò il più sapiente di tutti.
6. O Apollo sconsiderato! Testimonianza rese di sapiente a quell'uomo, che degli dei l'esistenza negava.
In quanto la verità di odio ardente è circondata, in tanto colui, che sinceramente la professa, offende; chi, invece, la adultera e la simula, proprio a questo titolo il favore si accaparra presso i persecutori della verità.
7. La verità, che i filosofi ingannatori e corruttori, alla maniera degli istrioni, simulano, e col simularla corrompono, come quelli che di guadagnarsi gloria cercano, i Cristiani per necessita la bramano e integralmente la professano, come quelli che della propria salvezza si preoccupano.
8. Così né sul punto della scienza, né su quello della disciplina siamo, come credete, uguali.
Che cosa di certo, infatti, rispose Talete, quel principe dei fisici, a Creso, che intorno alla divinità lo interrogava, ripetutamente le dilazioni concessegli per deliberare deludendo?
9. Dio un qualunque operaio cristiano lo trova e lo prova e, in conseguenza di ciò, tutto quanto si cerca nei riguardi di Dio, anche col fatto conferma, sebbene Platone asserisca che il fattore dell'universo non è facile scoprirlo e, scopertolo, è difficile spiegarlo alla generalità.
10. Del resto, se sul punto della pudicizia ci si sfida, leggo che in una parte della sentenza pronunziata dagli Ateniesi contro Socrate, costui fu dichiarato corruttore dei giovani: nonché il sesso, nemmeno la donna muta il Cristiano.
Conosco anche una Frine, meretrice, bruciante di passione per Diogene distesole sopra.
Sento dire che anche uno Speusippo, della scuola di Platone, però colto in adulterio: il Cristiano nasce maschio solo per la sua sposa.
11. Democrito, accecando se stesso, per non poter guardare le donne senza concupiscenza e senza soffrire, qualora non le avesse possedute, col castigo inflittosi la propria incontinenza professa:
12. il Cristiano, invece, pur conservando gli occhi, le femmine non le vede: nei riguardi della libidine il suo animo è cieco.
13. Se debbo sul punto della probità difendermi, ecco un Diogene, che con i piedi infangati con altra superbia i superbi tappeti di Platone calpesta: il Cristiano nemmeno verso un povero insuperbisce.
Se sul punto della moderazione debbo battermi, ecco un Pitagora in Turii, un Zenone in Priene, che alla tirannide aspirano: un Cristiano nemmeno alla edilità aspira.
14. Se la discussione debbo accettare su la imperturbabilità, Licurgo di morir di fame desiderò, perché i Laconi le sue leggi avevano modificato: il Cristiano, anche condannato, ringrazia.
Se sul punto della lealtà debbo fare un confronto, Anassagora il deposito agli ospiti negò: il Cristiano anche dagli estranei è chiamato fedele.
15. Se sul punto della lealtà debbo fermarmi, Aristotele fece in modo indegno dalla carica decadere l'amico suo Ermia: il Cristiano nemmeno il suo nemico danneggia.
Lo stesso Aristotele tanto vergognosamente Alessandro adula, che doveva piuttosto guidare, quanto Platone da Dionisio vendere si fa per la sua ghiottoneria.
16. Aristippo in porpora, sotto la parvenza di grande gravità, scialacqua e Ippia si fa uccidere, mentre alla città insidie prepara.
Codesto nessun Cristiano mai tentò per difendere i suoi, con ogni atrocità perseguitati.
17. Ma si dirà che anche dei nostri qualcuno dalla regola della disciplina si allontana. - è vero: però cessano di essere tra di noi considerati Cristiani.
Invece quei filosofi, pur con tali fatti, a essere denominati sapienti e onorati come tali continuano.
18. Che dunque di simile fra un filosofo e un Cristiano, fra un discepolo di Grecia e un discepolo del cielo, tra chi per la fama e chi per la vita traffica, fra un operatore di parole e un operatore di fatti, fra un edificatore e un distruttore, fra un amico e un nemico dell'errore, fra un adulteratore e un reintegratore e assertore della verità, fra chi n'è ladro e chi n'è custode?
Quello che di vero si trova detto dai filosofi, lo hanno attinto dall'antica Scrittura.
Pur troppo l'hanno spesso frainteso o adulterato.
1. Più antica di ogni cosa è la verità, se non m'inganno; or ancora mi torna utile l'antichità, sopra stabilita, della divina Scrittura, affinché facilmente si creda che essa il tesoro fu per ogni sapienza venuta dopo.
E se non volessi limitare ormai la mole di questo lavoro, farei una scorsa anche nel campo di codesta dimostrazione.
2. Qual dei poeti, qual dei filosofi, che alla fonte dei profeti non siasi per nulla abbeverato?
Di qui pertanto i filosofi la sete della loro intelligenza irrigarono; talché è quello che hanno del nostro, che simili ci fa a loro.
Perciò, penso, anche, da taluni la filosofia fu discacciata, dico da quei di Tebe e di Sparta e di Argo.
3. Mentre di arrivare alla comprensione della verità in nostro possesso uomini solo di gloria però bramosi, come ho detto, e di eloquenza, si sforzavano, se nei Libri Santi s'incontrarono in qualche cosa che il loro istinto di curiosità appagasse, lo convertirono in proprio: né abbastanza credendo che si trattasse di roba divina, così da non doverla interpolare, né sufficientemente intendendola, come tuttora alquanto velata e oscura anche per gli stessi Giudei, di cui la credevano proprietà.
4. E invero, anche se di verità semplici si trattava, tanto più l'umana sottigliezza, negandovi fede, tentennava, per cui con l'incerto mischiarono anche quello che trovato avevano di certo.
5. Avendovi trovato, così senz'altro, che esiste un Dio, non ne disputarono come l'avevano trovato: talché della sua qualità e natura e sede si mettono a discutere.
6. Altri incorporeo lo affermano, altri corporeo, come tanto i Platonici, quanto gli Stoici; altri da atomi costituito, altri da numeri, come Epicuro e Pitagora; altri da fuoco, come opinò Eraclito; e i Platonici pensoso dell'universo, gli Epicurei, invece, ozioso e inattivo e, per così dire; inesistente per il mondo degli uomini;
7. posto, poi, fuori del mondo gli Stoici, a far girare dal di fuori questa mole a mo' di vasaio; entro il mondo i Platonici, a mo' di pilota rimanendo in quello che egli guida.
8. Così variamente nei riguardi del mondo stesso concludono: se sia nato o non nato, se destinato a finire o a restare.
Così anche della condizione dell'anima: che altri divina ed eterna, altri affermano destinata a dissolversi.
Come ognuno la intese, così aggiunse o riformò.
9. Né fa meraviglia, se il vecchio strumento gl'ingegni dei filosofi snaturarono.
Anche questo nostro documento alquanto recente alcuni individui, provenienti dalla semenza di quelli, hanno con le loro opinioni adulterato secondo le opinioni dei filosofi, e da una strada unica aperto molti obliqui e inestricabili sentieri.
Il che per questo ho soggiunto, perché la nota varietà di questa nostra setta adeguarci anche in questo ai filosofi a qualcuno non paia, dalla varietà non concluda la deficienza di una verità.
10. Ma ai nostri adulteratori alla svelta eccepiamo che la regola della verità è quella che viene da Cristo, attraverso coloro trasmessa che gli furono compagni, parecchio posteriori ai quali si proverà essere codesti diversi interpreti.
11. Tutto ciò che contro la verità è stato ricostruito, è stato fatto valendosi della verità stessa; e quest'opera ostile gli spiriti dell'errore l'hanno compiuta.
Da costoro gli adulteratori di questa salutare disciplina subornati furono; da costoro anche introdotte certe favole, che su la base della somiglianza la fede nella verità infirmassero o a se stessi piuttosto l'attirassero: talché per questo si stimi non doversi credere ai Cristiani, perché nemmeno s'ha da prestar fede né ai poeti né ai filosofi; o perché piuttosto s'abbia a credere ai poeti e ai filosofi, perché prestar fede non si deve ai Cristiani.
12. Perciò veniamo derisi, quando predichiamo che Dio ci giudicherà.
Allo stesso modo, infatti, e poeti e filosofi un tribunale collocano presso gl'inferi.
E se la gehenna minacciamo, che è un ambiente sotterraneo di fuoco arcano, destinato alla punizione, ugualmente si sghignazza.
Allo stesso modo, infatti, fra i morti c'è il fiume Piriflegetonte.
13. E se il paradiso nominiamo, luogo di divina bellezza, ad accogliere destinato gli spiriti dei Santi, dalla conoscenza dell'orbe comune separato per una specie di muro costituito dalla nota zona di fuoco, troviamo le menti occupate dalla credenza nei Campi Elisi. Onde, vi prego, tante somiglianze con i poeti e i filosofi?
Non per altro se non perché derivate dai nostri misteri.
14. Se dai nostri misteri esse sono derivate, come esistiti prima, più fedeli e credibili sono dunque questi nostri, le cui imitazioni anche trovano fede.
Se sono derivate dalle fantasie di quelli, allora i nostri misteri si riterranno senz'altro immagini di cose venute dopo, ciò che la natura non comporta; che mai l'ombra la presenza del corpo precede, né l'immagine quella della realtà.
Gli uomini risorgeranno, riprendendo ciascun'anima il proprio corpo.
Nulla è impossibile a Dio, che l'universo fece dal nulla.
La risurrezione è richiesta dalla necessità che ciascuno sia retribuito secondo il suo merito.
1. Orsù, se un filosofo affermi, come Laberio dice in base al pensiero di Pitagora, che da un mulo si forma un uomo, un serpente da una donna, e, a conferma di quella opinione, tutti gli argomenti scagli con l'efficacia della sua eloquenza, non riscuoterà l'assenso, radicando di ciò la credenza, talché uno si persuada anche ad astenersi dagli animali per questo, per non cibarsi, alle volte, di una vitella proveniente da un qualche suo avo?
Ma se un Cristiano promette che da un uomo ritornerà un uomo, anzi da Gaio Gaio in persona, non solo a calci, ma piuttosto a sassate sarà dal popolo cacciato.
2. Se un qualunque motivo regge l'opinione che le anime umane passino d'uno in altro corpo, perché non dovrebbero nella medesima sostanza ritornare, codesto significando « essere richiamato in vita », « essere quello che si era stati »?
E invero, se non sono quello che erano state, vale a dire di un corpo umano, anzi di quello stesso corpo rivestite, non saranno più quelle ch'erano state.
O allora quelle che non saranno più le stesse, come si dirà che sono ritornate?
O, divenute altro, non saranno più le stesse, o perdurando le stesse, non saranno provenienti da altra parte.
3. Molti passi di scrittori anche avrei bisogno di citare con comodo, se su codesto punto divertirmi volessi, in quale bestia uno paresse doversi trasformare.
Ma più conformemente alla credenza da noi sostenuta, affermiamo - certo molto più degno di essere creduto - che da un uomo un uomo ritornerà, un uomo per ogni uomo, ma sempre uomo: talché la medesima qualità di anima nella medesima condizione venga rimessa, se non nella medesima figura.
4. Vero è che, poiché il motivo della restaurazione è la destinazione derivante dal giudizio, necessariamente proprio quello stesso si ripresenterà, che prima era stato, per riportare da Dio il giudizio delle azioni buone e delle contrarie.
Perciò anche i corpi saranno ricostituiti, perché nemmeno può patir nulla l'anima da sola, senza una materia stabile, cioè la carne; e perché quello che, per giudizio di Dio, le anime patire debbono, non lo meritarono affatto senza la carne, entro la quale ogni loro atto compirono.
5. « Ma come - dirai - una materia caduta in dissoluzione ripresentarsi potrà? »
Considera te stesso, o uomo: e la cosa credibile troverai.
A quello che eri, prima di essere, ripensa. Certo eri niente.
Te ne ricorderesti, infatti, se qualche cosa fossi stato.
Orbene, tu che nulla, prima di essere, eri stato e nulla, del pari, sei divenuto, quando hai cessato di essere, perché non potresti essere nuovamente dal nulla, per volontà proprio di quello stesso autore, che volle che tu fossi dal nulla?
6. Che ti accadrà di nuovo? Tu che non eri, sei stato fatto; quando di nuovo non sarai, sarai fatto.
Spiega, se puoi, il modo, con cui sei stato fatto; e poi ricerca in qual modo sarai fatto.
E tuttavia, certo, più facilmente quello che una volta sei stato ridiventerai, perché del pari senza difficoltà una volta sei divenuto quello che non fosti mai.
7. Si dubiterà, credo, della potenza di Dio, che codesto gran corpo del mondo da ciò che non era costituì, non altrimenti che se si fosse trattato di trarlo dalla morte del vuoto e del nulla: animato da uno spirito che tutte le cose animò, esempio anch'esso palese per testimoniare a voi la resurrezione degli uomini.
8. La luce, ogni giorno uccisa, risplende; e le tenebre con pari vicenda decedono e succedono; le stelle muoiono e ritornano in vita, le stagioni dove hanno fine cominciano, i frutti si consumano e ritornano, i semi certo solo dopo la corruzione e la dissoluzione in forma più feconda risorgono; tutte le cose col perire si conservano, tutte col morire si ricostituiscono.
9. Tu, uomo, così gran nome, se te stesso conosca apprendendolo almeno dall'iscrizione della Pithia, padrone di tutte le cose che muoiono e rinascono, per codesto fine morrai, per perire?
Dovunque in dissolvimento sarai caduto, qualunque materia ti avrà distrutto, assorbito, annientato, ridotto al nulla, ti restituirà.
A Colui si appartiene pur il nulla, a cui anche il tutto.
10. « Dunque - voi dite - si dovrà continuamente morire e continuamente risorgere? ».
Se così il Signore dell'Universo stabilito avesse, anche tuo malgrado la legge della tua condizione sperimenteresti.
Sennonché ora non altrimenti stabili da come predisse.
11. Quella Intelligenza, che dalla diversità l'università compose, così che tutte le cose da contrari elementi in unità risultassero, di vuoto e di solido, di animato e di inanimato, di afferrabile e di inafferrabile, di luce e di tenebre, della vita stessa e della morte, quella stessa Intelligenza il tempo anche collegò secondo una condizione distinta: talché questa prima parte, quella in cui dal principio del mondo noi abitiamo, con durata temporanea verso la fine defluisca, la seguente, che noi attendiamo, nell'eternità infinita si continui.
12. Quando, dunque, la fine sarà venuta e il limite, che si spalanca in mezzo alle due età, talché anche del mondo stesso si trasformi l'aspetto, ugualmente temporaneo, che, a mo' di sipario, si stende davanti a quella eternità da Dio stabilita, allora tutto il genere umano sarà restituito, per regolare il conto di quello che di bene o di male commise in questa età e, quindi, averne la retribuzione per l'immensa perpetuità dell'eternità.
13. Perciò non morte più, né di nuovo resurrezione ci sarà; ma saremo gli stessi che ora, né altri in seguito: gli adoratori di Dio presso Dio sempre, della sostanza propria dell'eternità rivestiti; gli empi, invece, quelli non irreprensibili davanti a Dio, nel castigo del fuoco ugualmente perenne, dalla natura stessa di questo divina, è chiaro, ricevendo la partecipazione dell'incorruttibilità.
14. Sanno anche i filosofi la diversità tra un fuoco arcano e quello comune.
Pertanto di gran lunga diverso è quello che all'uso comune serve, diverso quello che al giudizio di Dio obbedisce: sia che dal cielo esso fuoco i fulmini scagli, sia che dalla terra attraverso le vette dei monti erutti.
Infatti non consuma quello che brucia, ma mentre annienta, ricostituisce.
15. Pertanto i monti permangono, pur sempre ardendo; e chi dal fulmine è colpito, resta intatto, talché da nessun fuoco più in cenere è ridotto. Or questo sarà testimonio del fuoco eterno, questo, esempio del giudizio eterno che alimenta il castigo: i monti sono bruciati e permangono.
Che sarà dei colpevoli e dei nemici di Dio?
Deridete pure le nostre credenze: non potete però negare ch'esse sono utili.
In ogni caso non giustificano la vostra persecuzione.
1. Questi sono quelli che in noi soli pregiudizi si chiamano, nei filosofi e nei poeti, invece, somme verità scientifiche e frutti d'ingegni insigni.
Quelli sapienti, noi stolti; quelli degni di essere onorati, noi di essere irrisi, anzi, più ancora, di essere puniti.
2. Ora sia pur falso quello che noi difendiamo, e giustamente un pregiudizio: però necessario; sciocchezza: però utile, se è vero che a diventare migliori sono costretti coloro che vi credono, per il timore dell'eterno castigo e la speranza dell'eterna felicità.
Perciò non giova dichiarare falsità e ritenere sciocchezza quello che è utile presumere come vero.
A nessun titolo è lecito condannare in modo assoluto quello che giova.
3. Perciò siete voi che avete un pregiudizio: proprio questo, che cose condanna, le quali sono utili.
Almeno, se pur false e sciocche, a nessuno, tuttavia, sono di danno.
E invero sono esse simili a molte altre cose vane e favolose, a cui nessun castigo irrogate, senza accusa e punizione lasciandole, come inoffensive.
4. Ma pure in codesto campo, se mai, si deve giudicare la cosa meritevole di derisione, non di spada e di fuoco e di croci e di belve.
Per questa crudeltà iniqua non solo codesto volgo cieco esulta e insulta, ma anche alcuni di voi, che con l'ingiustizia di acquistare cercano il favore del volgo, si gloriano, quasi che quello che potete su di noi, non dipenda tutto dalla volontà nostra.
5. Certo, qualora io lo voglia, sono Cristiano.
Allora dunque tu mi condannerai, qualora io lo voglia.
Ora quando quello che su di me puoi, qualora, io nol voglia nol puoi, si appartiene senz'altro alla mia volontà quello che tu puoi, non alla tua potestà.
6. Allo stesso modo anche il volgo vanamente della nostra persecuzione gode.
Allo stesso modo, infatti, nostro è il godimento che egli a sé rivendica, di noi, che essere condannati preferiamo, piuttosto che incorrere nella privazione di Dio.
Al contrario coloro che ci odiano, non rallegrarsi dovrebbero, ma dolersi, avendo noi conseguito quello che abbiamo scelto.
La vittoria nel resistere alle vostre persecuzioni è nostra.
Continuate pure. Il sangue dei martiri è semenza di Cristiani.
1. « Dunque - voi dite - perché vi lamentate che noi vi si perseguiti, se patire volete, mentre amare coloro dovreste, per opera dei quali patite quello che volete? »
Certo noi patire vogliamo, ma alla maniera, in cui, anche, la guerra il soldato patisce.
Nessuno, invero, volentieri la patisce, essendo necessario trepidare e correre pericolo.
2. Tuttavia e combatte con tutte le forze e, vincendo in battaglia, gode colui che della battaglia si lamentava, perché gloria consegue e preda.
Battaglia è per noi il fatto di essere davanti ai tribunali chiamati, per combattere là, con pericolo di morte, per la verità.
Vittoria è poi conseguire quello, per cui si è combattuto.
Quella vittoria e contiene la gloria di piacere a Dio e la preda di vivere eternamente.
3. « Ma abbiamo la peggio ». Però, dopo aver conseguito.
Dunque siamo noi che abbiamo vinto, quando ci si uccide.
Finalmente ne siamo fuori, quando abbiamo la peggio.
Potete ora esseri da sarmenti chiamarci e gente da mezzo asse, perché, legate dietro le mani a un palo fatto di un asse dimezzato, veniamo circondati da sarmenti e bruciati.
Codesto è il portamento proprio della nostra vittoria, questa la veste palmata, tale il cocchio sul quale trionfiamo.
4. Giustamente, dunque, noi non si piace a dei vinti: per questo infatti dei disperati e dei perduti reputati siamo.
Ma questi atti propri di gente perduta e disperata, tra voi il vessillo innalzano del valore, quando è in causa gloria e fama.
5. Mucio la sua destra volonteroso su l'ara lasciò: o animo sublime!
Empedocle dono di sé interamente fece alle fiamme dell'Etna: o anima vigorosa!
Una fondatrice di Cartagine il secondo matrimonio sacrificò al rogo: o esaltazione della castità!
6. Regolo, per non vivere egli solo e il vantaggio fare di molti nemici, tormenti in tutto il corpo patisce: o eroe, vincitore pur nella prigionia!
Anassarco, venendo pestato a morte con un pestello da orzata, « Pesta, pesta - diceva - l'involucro di Anassarco, ché Anassarco non pesti »: o grandezza d'animo del filosofo, che su tale sua morte anche scherzava!
7. Tralascio coloro che con la propria spada o un altro genere più mite di morte la gloria patteggiarono.
Ecco, infatti, anche gare di tormento sono da voi coronate.
8. Una meretrice ateniese, dopo avere stancato ormai il carnefice, da ultimo la lingua sua troncata in faccia al tiranno inferocito sputò, per sputar fuori anche la voce, al fine di non poter rivelare i congiurati, anche se, vinta, avesse voluto farlo.
9. Zenone di Elea, da Dionisio interrogato che cosa la filosofia procurasse, rispose: « Il disprezzo della morte ».
Sottoposto dal tiranno allo staffile, impassibile la sua sentenza suggellava fino alla morte.
Certo le flagellazioni dei Laconi, rese anche più penose perché sotto gli occhi dei parenti incoraggianti a resistere, conferiscono alla casa tanto onore di resistenza, quanto è il sangue che hanno sparso.
10. O gloria lecita, perché umana, per cui né a presunzione rovinosa, né a persuasione disperata si attribuisce il disprezzo della morte e delle atrocità di ogni specie; talché per la patria, per la potenza, per l'amicizia patire lice tanto, quanto non lice per Dio!
11. E intanto a tutte quelle persone e statue profondete e su le loro immagini inscrizioni ponete e titoli incidete per procurar loro l'immortalità. è chiaro: per quanto potete farlo con i monumenti, voi pure ai morti una resurrezione in certo modo procurate.
Colui, invece, che questa resurrezione veracemente spera da Dio, qualora per Dio patisca, è un folle.
12. Ma continuate pure, o buoni governatori: ché molto migliori agli occhi del popolo diventerete, se dei Cristiani gli immolerete.
Tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità infatti della nostra innocenza è prova.
Per questo Dio tollera che noi codesto si patisca.
E invero anche recentemente col condannare una Cristiana al lenone, piuttosto che al leone, avete confessato che la macchia recata al pudore più atroce di ogni castigo e di ogni morte è tra di noi considerata.
13. Né tuttavia giova a nulla ogni vostra più raffinata crudeltà: è piuttosto un'attrattiva alla setta.
Più numerosi diventiamo, ogni volta che da voi siamo mietuti: è semenza il sangue dei Cristiani.
14. Molti tra di voi il dolore e la morte a sopportare esortano, come Cicerone nelle Tusculane, come Seneca nei Casi fortuiti, come Diogene, come Pirrone, come Callinico.
Né tuttavia le parole tanti discepoli trovano, quanti i Cristiani ne ottengono ammaestrando con i fatti.
15. Quella stessa ostinazione che ci rimproverate, fa da maestra.
Chi, infatti, considerandola, non si sente scosso a ricercare che cosa ci sia in fondo alla cosa?
E quando ha indagato, chi non vi accede?
E quando vi è acceduto, chi non brama patire, per acquistarsi la pienezza della grazia di Dio, per ottenere intero da lui il perdono a prezzo del proprio sangue?
16. Ché tutte le colpe a questo atto sono condonate.
Da ciò il fatto che lì sul posto, noi vi rendiamo grazie per la vostra sentenza.
Come v'è contrasto fra il divino e l'umano, quando da voi siamo condannati, da Dio siamo assolti.
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