Profeti una missione a rischio |
di Mariella Malaspina
« Noi siamo pieni di troppe cose che ci gettano fuori »: questa esclamazione di Pascal valeva per i suoi contemporanei, ma ancora più vera e globale risulta per noi che, sullo scorcio del secondo millennio di era cristiana, a furia di attendere a mille impegni, magari anche di pensare generosamente agli altri, finiamo spesso per dimenticare quali sono la nostra vocazione e il nostro fine.
Troppo frequentemente le nostre azioni si susseguono l'una all'altra e noi, spinti da una tenacissima mistica dell'impegno e del lavoro, ci sentiamo soddisfatti di aver riempito tutti i vuoti del nostro tempo.
Ci sfugge, purtroppo, che abbiamo sì riempito tutti i vuoti, ma con altrettanti buchi!
Sappiamo bene che nulla nel piano di salvezza è inutile: dal sassolino alle stelle, dal servizio domestico dell'umile donna di casa alla ricerca della bellezza inseguita dall'artista.
Però sappiamo anche che ogni atto esterno deve non essere fine a se stesso, ma scaturire da un profondo radicamento contemplativo.
Non si tratta del pensiero costante ed esplicito della presenza di Dio né del gusto e fervore sensibile nel servizio del Signore, e neppure di un intimismo che stonerebbe, oggi, persino in una carmelitana, ma della sicura consapevolezza di essere sotto lo sguardo di Dio, in perfetta docilità ai Suoi voleri, nella più intensa familiarità con Lui.
È lo Spirito che dal di dentro ci muove e ci assimila a sé, diventando nostro pensiero, nostro segreto affetto, nostra volontà.
Ecco l'immagine dell'« uomo spirituale » contrapposto all'« uomo carnale » presentataci da Paolo ( Gal 5,16-22 ).
Questo è « l'indispensabile essere » di chi vuole seguire Cristo, lasciandosi sempre più penetrare da Lui e di Lui.
Per far ciò non è necessario essere un « tipo » ben definito con un carattere senza difetti, stare in un luogo piuttosto che in un altro, compiere determinate azioni in una precisa maniera.
Occorre essere quelli che si è, stare dove si deve stare, fare quel che si deve e come lo si deve: « Le grazie sono differenti, ma lo Spirito è sempre il medesimo » ( 1 Cor 12,4 ).
Basta rimanere uniti a Lui: ne abbiamo bisogno, lo vogliamo e lo desideriamo.
Allora dobbiamo inventare tutti i modi per rimanere con Dio, per contemplarlo: in cima a una montagna o di fronte alla distesa sconfinata del mare, chiusi soli in una stanza o immersi nel traffico congestionato delle strade di una città.
Si tratta non di fare sforzi per vederlo, ma di ricordare che Egli ci guarda con amore infinito, di lasciarci condurre nel « deserto » per ristabilire il silenzio attorno e dentro di noi e far tacere il frastuono delle cose, delle persone, di noi stessi.
Contemplare significa accettare di perdere del tempo per sederci ai Suoi piedi riconoscendo la nostra povertà e permettergli di « sedurci dolcemente » ( Os 2,14 ) per essere alla Sua scuola e vivere con Lui: ciascuno di noi e Dio.
Tutto il resto viene dopo.
Senza l'ascolto attento della Sua voce, senza la ricerca trepidante della Sua volontà, senza la dimensione contemplativa della fede, ogni nostro agire diviene efficientismo cieco e vuoto.
Talvolta, immersi in una vita turbinosa, siamo tentati di fuggire lontano dagli uomini e dal loro agitarsi.
Ma la fuga non è mai una soluzione.
È nel mondo che Dio ci ha chiamati all'essere; nel mondo Egli ci cerca, da sempre, per dialogare con noi.
Noi siamo un dono di Dio e la nostra vocazione è quella di rispondere a questo Amore che ci ha dato l'esistenza.
Alla domanda del giovane ricco che chiedeva al Maestro che cosa fare « di più », Gesù risponde invitandolo a passare dalla vita secondo i Comandamenti alla vita nella consapevolezza e nella contemplazione del dono; Egli lo invita, cioè, a pensare come Lui, ad avere Lui come criterio, ad appartenere a Lui.
« Prendi, o Signore, - invocava sant'Ignazio di Loyola nella sua nota preghiera, la « contemplazione per ottenere l'amore1 - e ricevi tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza e tutta la mia volontà.
Tutto ciò che ho e possiedo, Tu me l'hai dato.
A Te lo riconsegno. Tutto è tuo ».
A noi non è chiesto di allontanarci da ciò che sembra profano: gli affari, l'economia, la politica, la stampa, la radio, la televisione.
A noi è chiesto di vegliare stando in mezzo alla massa come il lievito e di dare espressione al mondo in quanto esso ha di meglio.
Il nostro vivere non deve ridursi a un vivacchiare tiepido e fiacco o a una agitazione forsennata e insipiente.
Paolo raccomandava ai Romani di « non conformarsi alla mentalità di questo mondo », ma di imparare a « discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » ( Rm 12,2 ).
Tuttavia noi, immersi nella storia concreta di oggi, abbiamo una tremenda difficoltà a scorgere un'altra dimensione nel cuore di questa realtà terrestre, così opaca, apparentemente così pervasa dal male, dall'assurdo e dal negativo.
Siamo parte di un'umanità che, oggi, sembra incapace di scoprire qualcosa che stia al di sopra o al di sotto della sua esperienza quotidiana e costituisca il senso di ciò che fa e subisce.
Ecco il nostro dovere di laici cristiani: assoggettare, consacrare la realtà terrena affinché possa nuovamente proclamare la gloria di Dio e diventare trasparente: un mondo di segni e di voci di cui si possa cogliere non solo il rumore, ma anche il significato e « l'inquieta e abbagliante attualità, nelle sue virtù e nelle sue passioni, nella sua possibilità di bene e nella sua gravitazione verso il male, nelle sue magnifiche realizzazioni moderne e nelle sue segrete deficienze ed immancabili sofferenze », come affermava Paolo VI.
Dio vuole che la nostra fede fruttifichi traducendosi in opere, non importa se apparentemente banali e comuni.
Anch'esse rispondono ai disegni di Dio: questo mondo che Egli ha creato aspetta la nostra opera, illuminata e alimentata dalla scienza, per diventare come Dio l'ha pensato e sognato, cioè capace di significare il Suo amore.
Nella nostra vita consacrata la contemplazione è istanza primaria, fondamentale, ma poi quello che si è contemplato lo si deve donare agli altri: « contemplata aliis tradere », mantenendo però lo stato di contemplazione.
Innestati intimamente in Cristo, noi possiamo dare voce al canto muto delle creature e alla grandiosa bellezza del cosmo, e inoltre cogliere il grido del lavoro e della fatica dell'uomo, delle sue scoperte e del suo amore, delle sue sofferenze e di ogni suo anelito.
Soprattutto, a noi spetta percepire la novità perenne di Dio dentro di noi: anche quando le giornate si susseguono monotone e la vita sembra uguale, essa è sempre nuova e può suscitare stupore.
Allora il quotidiano assume il sapore della straordinarietà e le nostre scelte si attuano nella libertà: ciascuno di noi con il suo modo personale di essere, rischiando, giocando la vita contro corrente, anche da soli, col coraggio che proviene dalla fiducia certa che il rischio si basa su Dio, che è fedele, e che a ogni attimo della nostra vita corrisponde un atto del Suo infinito amore.
Da questa certezza nasce l'azione.
Agire è diverso dal semplice fare; consiste nell'operare con una intenzione che illumina e avvalora quel fare, di per se stesso neutro.
È molto facile, al giorno d'oggi apprendere qualcosa; meno lo è il com-prenderla e soprattutto il convincersene tanto da passare a decidere per poi agire coerentemente.
È il dono della scienza che ci fa capaci di discernere il vero dal falso, il divino dall'umano, il bene dal male.
San Diàdoco di Foticea in Epiro, uno dei più grandi asceti del V secolo, nella sua opera intitolata « Cento capitoli della perfezione cristiana » afferma che « è lume della vera saggezza discernere il bene e il male ».
L'esercizio di questo discernimento è stato sempre importantissimo ( ricordiamo quale attenzione sant'Ignazio inviti ad assegnare ai criteri per « il discernimento degli spiriti » ).
Tuttavia oggi, in una società complessa e frammentata, priva di punti di riferimento valoriali, esso è divenuto addirittura basilare.
Talvolta, il turbamento penetra in noi e può addirittura trasformarsi in angoscia, paura, scoraggiamento, oscurità.
In qualche circostanza, come nell'episodio notissimo della tempesta che coglie sul lago Gesù e gli apostoli, i cavalloni travolgono, quasi, la nostra barca.
E Gesù dorme, non si cura di noi, non interviene.
Ci sembra di essere soli, e il nostro terrore non ci fa neppure vedere che Gesù è lì.
Ecco, allora, la necessità di « vigilare », soprattutto « in tempi di crisi o di smarrimento, quando cioè la mancanza di prospettive storiche, unita a una certa abbondanza di beni materiali, rischia di addormentare la coscienza nel godimento egoistico di quanto si possiede, dimenticando la gravita dell'ora e il bisogno di scelte coraggiose e austere».2
È, questo, il momento della speranza.
Solo se saremo profondamente radicati in essa, riusciremo a impedire che l'inquietudine diventi il filo nascostamente sotteso al nostro muoverci e operare e, rigenerati dalla confidenza con il Signore e fiduciosi della Sua tenera cura, sapremo vivere ogni attimo del tempo nell'orizzonte dell'amore con cui Dio ci ama in Gesù, valorizzando ed amando il presente e la terra.
Ecco la vigilanza, il cui senso vero è molto bene spiegato dal card. Martini nella sua lettera pastorale Sto alla porta.
Essa non è un semplice atteggiamento etico, bensì « la tensione caratteristica verso il futuro di Dio congiunta con l'attenzione e la cura per il momento presente ».3
Vigilare è « badare con amore a qualcuno, custodire con ogni cura qualcosa di molto prezioso … prendersi il tempo necessario per aver cura della qualità della vita ».4
Solo così è possibile riconciliare « gli affetti del con la sapienza delle cose ».5
Ne scaturisce per noi, allora, un impegno discreto, continuo, appassionato, a vivere tutta la nostra vita non badando a sacrifici né fermandoci dinanzi a ostacoli, senza sicurezze spavalde, ma con la fermezza di chi sa bene « a Chi si è affidato, di Chi si è fidato, in Chi ha confidato » ( 2 Tm 1,12 ).
Mi riecheggia nell'animo l'invito del profeta Gioele ( Gl 2,12-13 ): « Convertitevi … tornate a me con tutto il vostro cuore … lacerate i vostri cuori … », dove il « lacerare il cuore » non significa togliergli ciò che esso ha di umano, renderlo insensibile, ma possederlo, dominarlo e consegnarlo all'Amore.
In questo senso va intesa la famosa indifferenza richiesta ai suoi figli da S. Ignazio, la quale null'altro è se non la disponibilità ad andare in qualunque parte, a fare e ad accettare qualunque cosa sia più gradita al Signore, continuando a credere, a sperare, ad amare: a operare cioè, nella certezza che tutto ciò che ci accade è un Suo atto d'amore, anche se spesso non riusciamo a vederlo e valutarlo e ci sentiamo come frantumati: dai problemi degli uomini, cosi numerosi, molteplici, complessi e urgenti, e dai diversi impegni della nostra vita quotidiana.
Noi avvertiamo l'inadeguatezza delle nostre giornate.
Ci sembrano corte le settimane, i mesi.
Il tempo non basta mai e resta sempre tanto da fare.
Così, corriamo il rischio di disperderci, di rompere l'armonia che deve unificare la nostra vita interiore con l'azione esterna.
Di qui l'esigenza sempre più forte di « distinguere le cose essenziali dalle accessorie, le ultime dalle penultime, le cose che passano da quelle che restano »,6 scoprendo quello che il Padre vuole da noi e considerando ogni nostra iniziativa nell'ottica della missione che Egli ci ha affidato.
L'amore di Dio per noi non ci sollecita soltanto a realizzare intimità e familiarità con Lui, ma ci spinge a impegnarci sempre di più e sempre meglio per aiutare gli uomini.
Servire il Signore, infatti, è adorarlo, camminare alla Sua presenza, prodigarsi per l'estensione del suo Regno, dimostrargli umilmente ed efficacemente la nostra fedeltà, anche nelle piccole cose di ogni giorno.
Quando si ama - e si ama veramente - non esistono realtà di scarso o nessun conto: tutto ha peso e valore.
Eppure, quanta gente intorno a noi vive di cose da niente perché non ha la vera speranza e manca di un'attesa fiduciosa e operosa, che suscita il desiderio e muove a osare.
C'è una grande differenza fra l'appiattirsi nella banalità e il « servire » Dio, compiendo anche le piccole azioni del quotidiano con animo « grande », come Egli vuole e perché lo vuole.
Se siamo strumenti nelle Sue mani, dobbiamo fare in modo che Egli possa servirsi di noi in molte maniere, sviluppando perciò al massimo le capacità e i doni che Egli ci ha elargito per l'utilità di tutti.
Di qui l'impegno continuo per lo studio e l'approfondimento della nostra formazione, umana e professionale: che si tratti di un servizio sociale o politico, nel lavoro o nella cultura, nella famiglia o nella comunità ecclesiale, noi siamo chiamati, a motivo della nostra fede, a rispondere ai bisogni che assillano gli uomini con una « presa di coscienza più viva della propria responsabilità »7 e con un'azione effettiva.
Questo è il servizio conforme a giustizia: essere, pensare, dire, fare né più né meno di quello e di come si deve; un servizio senza riduzionismi né mediocrità, senza lentezze né condizioni, senza calcoli né malinconie, senza velleitarismi né interruzioni, un servizio quindi generoso, pronto, fervoroso, effettivo e continuo.
Servire è mettere a disposizione la vita, spenderla tutta senza trattenere nulla per noi, intuendo con sensibilità i desideri e le richieste, anche non espresse, di chi ci sta a fianco e operando con delicatezza, con serena pazienza, senza clamore né chiasso.
« Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio » direbbe sant'Ignazio di Loyola coerentemente con il « Principio e Fondamento » posto alla base dei suoi Esercizi Spirituali ( n. 23 ): infatti, « siamo servi inutili » ( Lc 17,10 ).
Bisogna, però, saper guardare molto avanti per avere questa pazienza consapevole, che non si lascia incrinare da alcuna agitazione o ansia, e per mirare al futuro conservando intatto il gusto del presente.
In una società come la nostra, dove il criterio dei rapporti interpersonali è quello dell'utilità e del profitto, in cui il valere di una persona è il prevalere sull'altro, il servizio è l'unico modo di amare senza distruggere e, nel contempo, di essere se stessi.
Un simile servizio, evidentemente, non è frutto di uno sforzo umano, ma è un'attitudine che è essenzialmente dono di Dio e che va sviluppata « con l'umiltà e la generosità ».8
« Vis magnam fabricam construere celsitudinis? De fondamento prius cogita humilitatis » afferma sant'Agostino, e cioè « Vuoi fare grande e alto l'edifico della tua perfezione? Preoccupati allora, anzitutto, del fondamento che è l'umiltà ».
Deve essere un'umiltà semplice, genuina, continua, che ci fa non pretendere nulla, chiedere il meno possibile e giudicare sempre troppo quello che ci viene dato.
Una tale umiltà è povertà: la povertà di Gesù che visse trent'anni nell'anonimato, come uno qualsiasi della folla, apparentemente uomo come tanti senza storia, che non conta, che non lascia traccia, che vive senza alcun privilegio, senza alcun segno di distinzione.
Per noi cristiani tutto ciò comporterebbe innanzi tutto l'accettazione serena della condizione in cui siamo stati messi, la rinuncia alla rincorsa affannosa verso il successo, la capacità di accontentarci di ciò che abbiamo e prima ancora di ciò che siamo.
Invece, come è raro l'equilibrio nella stima di sé e degli altri!
Taluni nutrono una stima esagerata di se stessi e un desiderio smodato della stima altrui; altri, che pure non rivelano grande autostima, desiderano prepotentemente essere stimati da chi sta loro attorno; altri, infine, non si preoccupano della stima altrui, ma hanno una enorme stima di se stessi.
Sono tre forme diverse di mancanza di umiltà.
Eppure, il nostro mondo moderno è molto sensibile - forse proprio perché non si trova spesso in presenza di tali virtù - alla piccolezza, alla semplicità, alla limpidezza, alla « facilità spontanea di contentarsi e di contentare », come soleva ripetere padre Virginio Rotondi, un Gesuita assai noto come giornalista e direttore d'anime.
Molte ansie eccessive e pretese sconsiderate, parecchi affanni, impazienze e inquietudini, una certa perdurante scontentezza derivano dal non prendere atto che siamo nulla e che non abbiamo diritto a nulla.
D'altra parte, la sottomissione - quella di funzione, intendo - è un atteggiamento continuamente necessario nel corso della nostra giornata: all'usciere o al vigile urbano, al commesso o al medico noi dobbiamo sottostare.
Se riuscissimo veramente a stimare e rispettare gli altri, se sapessimo rapportarci a loro rivestendoci « di misericordia, di bontà, di dolcezza e di pazienza » ( Col 3,12 ), il malcontento o la tristezza, che talora avvertiamo dentro di noi, si dissolverebbero all'istante.
Potremmo allora « aspirare ai carismi più grandi », cioè a spalancare, quasi a dilatare, i nostri cuori e, liberi dalle pastoie delle nostre meschinità, cogliere i segreti tenuti nascosti « ai sapienti e agli intelligenti » e rivelati « ai piccoli » ( Mt 11,25 ).
Ma chi di noi può non arrossire rileggendo l'esortazione di Paolo ai fratelli di Colossi che egli definisce « eletti di Dio, santi e prediletti »?
Come loro, noi pure siamo stati scelti da Dio, da Lui chiamati alla santità e amati di amore particolarissimo.
Tuttavia le diversità esistenti non solo nella società, ma anche nella stessa comunità ecclesiale, e perfino in quella più piccola comunità di cui facciamo parte, ci creano molte angustie e problemi.
Bisogna però saper accettare queste diversità perché se così non fosse, non accetteremmo Dio, che è sempre « diverso ».
È, questa, una manifestazione di umiltà: la tolleranza cristiana, che non è una semplice virtù laica, benché anche di questa ci sia un estremo bisogno in un mondo facilmente percorso dal fanatismo.
Non è neppure un espediente diplomatico che ci permetta di eludere difficoltà maggiori.
Essa è una espressione di quella libertà inferiore donataci da Gesù, che è venuto per servire e dare la sua vita ( Mc 10,45 ).
C'è un'altra manifestazione di umiltà indispensabile: la pazienza, da esercitare verso gli altri, ma forse ancora di più con se stessi, e tanto più quanto maggiori si fanno i bisogni che insorgono in noi col procedere dell'età, col deteriorarsi delle energie e della resistenza fisica e psicologica, con l'inevitabile solitudine in cui si finisce per essere dimenticati.
La pazienza non si lascia abbattere dalle avversità, dalle contraddizioni, dalle ostilità, ma persiste nel suo proposito di bene con sempre rinnovato ardore e slancio.
C'è, infine, quella manifestazione di umiltà che è la modestia.
Essa è il contrario dell'arroganza e della prepotenza che spingono a esigere a ogni costo tutto quanto rientra nei propri diritti e a far valere davanti agli altri i propri meriti.
Lungi dal lasciarsi sopraffare, e men che meno sfruttare, chi è modesto non assume aria di importanza né un atteggiamento di ostentazione o protagonismo, ma è mite senza pretese, servizievole, contentabile.
Perfino un noto proverbio popolare afferma che chi si contenta, gode e anche un grande saggio indiano, Rabindranah Tago re, ne ebbe l'intuizione: « Dormivo / e sognavo che la vita / non era che gioia. / Mi svegliai e vidi / che la vita non era / che servizio. / Servii e compresi / che nel servire / era la gioia ».
Come appare acuta, oggi, la difficoltà di raggiungere questa gioia! « La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma difficilmente riesce a procurare la gioia ».9
La gioia ha ben altre radici: è spirituale.
Oggi il denaro, le comodità, una certa agiatezza materiale sono alquanto diffusi, tuttavia la noia, il dubbio, la tristezza, il vuoto, e perfino l'angoscia e la disperazione, sono solo apparentemente camuffati sotto una fittizia allegrezza: questa è, in realtà, fuga ed evasione, non letizia profonda che fa fiorire il sorriso.
Quanto è difficile, ma nel contempo prezioso, far penetrare il sorriso nell'intimo dell'anima, conservarlo sul volto sempre e verso tutti malgrado le inevitabili tensioni, anche quando il pianto rischia di ottenebrare il nostro spirito e il nostro sguardo.
C'è grande bisogno di gioia in un mondo come il nostro, che anela alla serenità e che ricerca un senso al proprio essere e agire.
La gioia è diffusiva e contagiosa, perché è una forma di amore di squisito e delicato amore.
Essa può incrinare anche l'indifferenza di chi vive nell'ateismo pratico, suscitando interrogativi meravigliati e stupiti.
Se, prima con la testimonianza e poi con le parole, sapremo dare le risposte che il mondo e gli uomini attendono, dai varchi che avremo aperti potrà anche entrare inquietante e rassicurante insieme - la fede in quel « Dio che allieta la nostra giovinezza ».
La gioia scaturirà spontanea quando sapremo scoprirlo là dovunque ci sia qualcuno: chiunque.
Nulla è ripetuto nella Bibbia quanto l'invito a essere gioiosi, a rallegrarci rallegrando, a cantare un « Cantico nuovo » perché assolutamente diverso dal vacuo e insulso cantare umano.
E non è un invito alla semplice gioia, ma a « sovrabbondare di gaudio in ogni tribolazione » ( 2 Cor 7,4 ).
La motivazione? Perché « forte è il suo amore per noi e la fedeltà del Signore dura in eterno », come dice il salmo 117.
Su questa luminosa certezza si fonda la nostra gioia che, certo, è « frutto dello Spirito » ( Gal 5,22 ), ma che, se è vera e profonda, non può rimanere chiusa in noi: è troppo intima per poter essere ridotta a semplici espressioni esterne e superficiali, ma è anche troppo comunicativa per rimanere nascosta, per quanto sobria e discreta.
Quando si fa sera, quando scoppiano le tempeste, quando scende il silenzio, quando insomma gli uomini si accorgono del vuoto che sta attorno a loro e si sentono insicuri, allora cercano affannosamente il segreto della felicità.
Ma felicità e gioia sono fondate sull'essere, non sull'avere; si può « essere » felici, non « possedere » la felicità come fosse un oggetto, sia pur prezioso.
La gioiate in relazione con la vita interiore e chi non "conosce la via dell'interiorità non è in grado di percepire la gioia.
Essa ci viene data dallo Spirito e non è soltanto una caratteristica personale, ma ha anche una dimensione fraterna ed ecclesiale, è un servizio ai fratelli capace di infondere in essi fiducia e speranza. « Il cristiano - dichiara il documento Educare alla legalità dell'ottobre 1991 - non può accontentarsi di enunciare l'ideale e di affermare i principi generali.
Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità,10 contribuendo a creare una cultura della vigilanza « capace di contrastare la cultura della protesta, del mugugno, dell'impotenza, della disillusione, della depressione … ».11
« Fermatevi nelle strade e guardate »: è l'invito del Signore nell'Antico Testamento ( Ger 6,16 ).
Ma questo guardare ha un senso solo se non ci si sente arrivati, ma si comunica nell'umiltà e nella contemplazione e nella vigilanza, sostenuti dall'amore del Signore.
Allora la sua gioia dimora in noi ed è « piena » ( Gv 15,11 ).
Indice |
1 | Esercizi Spirituali, n. 234 |
2 | C. M. Martini, Sto alla porta, Milano 1992, pp. 12-13 |
3 | Ibid, p. 12 |
4 | Ibid, pp. 24-25 |
5 | Ibid, p. 28 |
6 | Ibid, p. 47 |
7 | Octogesima adveniens, p. 48 |
8 | AA29 |
9 | Paolo VI, Gaudete in Domino |
10 | Educare alla legalità, nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e pace, 4 ottobre 1991, n. 5 |
11 | C. M. Martini, Sto alla porta, p. 57 |