Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano |
di Isabella Conca
La parola di Gesù, consegnataci da Luca nel suo Vangelo, è molto chiara, non permette equivoci.
Se essere discepolo di un maestro è mettere i nostri piedi nelle sue orme, quando il maestro è Cristo conoscere le sue orme significa « rivestirci » di Lui, « avere gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù » che « da ricco che era si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » ( 2 Cor 8,9 ).
A commento di questo passo di Paolo così scrive Giovanni Moioli in « Beati i poveri »: « Dalla sua capacità di impoverirsi, fondata sul non essere auto - affermazione, deriva la nostra ricchezza, la quale, a misura che è quella che noi riceviamo da Lui, ci conduce nella medesima direzione.
Quando abbiamo gli stessi sentimenti di Gesù e siamo dunque così interamente aperti a Dio e a Lui, quando siamo poveri davanti a Dio, allora siamo arricchiti dalla povertà di Dio in Cristo Gesù.
Ma quando siamo ricchi della povertà di Dio in Cristo Gesù, vuoi dire che non soltanto non ci affermiamo più davanti a Dio, ma ci lasciamo prendere dalla medesima logica, dal medesimo movimento: è il movimento della carità, è il movimento dell'impoverirci a nostra volta per arricchire gli altri mediante la nostra povertà ».
Questo significa mettere i nostri piedi nelle sue orme.
Così per il discepolo, per il cristiano, vivere la sequela di Cristo significa affermare con la vita che la verità dell'uomo non sta nelle realtà create, non sta neppure nell'uomo stesso, sta solo in Gesù Cristo così solo Lui da senso, da significato alla vita; significa che la ricchezza di Dio, ossia la sua misericordia, è dono gratuito, è la salvezza che ci viene da Lui.
È, allora, proprio nella misura in cui ci apriamo a ricevere la salvezza offertaci, donataci dal Signore che ci facciamo suoi discepoli: solo Lui, infatti, può farci cogliere la motivazione profonda del nostro metterci a disposizione, del nostro non considerare « privato » ciò di cui Lui ci ha fatto dono.
Si entra così nella logica del mettere a disposizione ciò che si è, ciò che si ha, ciò che si è ricevuto.
Questa è la logica del Regno, lasciarsi prendere totalmente da tale logica significa lasciarsi rinnovare da essa, entrare in un cammino di conversione, di metanoia.
Allora tutto ciò che non è il Regno, che non è Gesù Cristo viene relativizzato.
Tutto, la vita e la morte, la povertà e la ricchezza, i beni, gli affetti, i desideri … tutto viene interpretato a partire da Cristo e solo da Lui.
Ciò si manifesta in particolare in due momenti che consistono nel mettersi in verità davanti a Dio e nel « vedere » nell'appello alla sequela un dono, una grazia.
Il primo momento consiste nel riconoscere la povertà di essere creature.
La ricchezza offerta da Dio fa l'uomo ricco nella misura che lo trova povero, disarmato, cosciente della sua pochezza e, perciò, aperto, disponibile, attento al suo Signore.
Infatti, essere discepolo è accettare di essere salvato.
Diceva santa Teresa del Bambin Gesù alla sorella Celina: « più sarai povera, più Gesù ti amerà ».
È una prospettiva che va continuamente riconquistata, è facile perderla, considerarla secondaria.
Non dovremmo, invece, mai dimenticarla anche se forse non ci porta immediatamente a riflettere sulla povertà intesa come « non avere », come « essere liberi per il Regno »; sulla verginità come il vivere nella fiducia che Lui può sorreggere, può « essere » il senso del tutto dell'uomo perché se Lui non manca, nulla mi manca; sulla obbedienza come capacità di dire il nostro « amen » alla storia tracciata per noi …
Ci conduce però certamente al nucleo centrale del discorso perché ci rimanda immediatamente a Cristo: è Lui il Maestro, è Lui la chiave di lettura per tutti e per tutto nel cristianesimo.
Solo assumendo Gesù Cristo come unica chiave di lettura della storia della nostra vita, di ogni problema potremo averne l'interpretazione autenticamente cristiana, l'interpretazione vera, piena, che trascende ogni nostra possibilità di lettura della situazione.
Mettersi in verità davanti a Dio, lasciare che sia Lui la nostra Verità.
È un atteggiamento globale della vita che ci fa prendere coscienza di ciò che siamo: non autosufficienti anche quando gestiamo in modo creativo la vostra vita, la nostra intelligenza, le nostre doti … e sentiamo tutto questo - e altro ancora - come cosa nostra, come proprietà privata.
Ci riconosciamo cioè come peccatori, bisognosi continuamente della sua misericordia, certi che, come dice Madelaine Deibrel « Tutto è grazia, tutto porta alla speranza, tutto è salvato per chi si sa peccatore e sa che Gesù è Salvatore … » ( Madelaine Deibrel, Indivisibile amore ).
Ma capire questo, capirlo nella concretezza della vita, nella quotidianità della vita è certo una grazia, un dono.
Quanto più si ha coscienza del proprio peccato tanto più ci si apre, si fa esperienza della misericordia del Signore, e, quindi, si fa esperienza della povertà più profonda, dell'abbandono più fiducioso, del mistero più penetrante della comunione con il Santo.
Allora si capisce che il non possedere - su qualunque fronte lo si viva - è solo un aspetto della sequela, aspetto importante certo, ma non esaustivo.
Allora si capisce che la radicalità evangelica va considerata come prospettiva di valore, si tratta di quella radicalità appunto che non è descrivibile solo in termini di atteggiamenti esteriori, non è configurabile solo in un programma, in cose da fare o da non fare, da avere o da non avere …
Piuttosto è una disponibilità, una consapevolezza che, certo, informa tutta la vita e genera un atteggiamento di abbandono vero, di affidamento autentico, di fiducia in ogni prova, in ogni esperienza, da quella della oscurità della fede, a quella del peccato, a quella dei nostri limiti.
Affrontare così il tema della radicalità evangelica aiuta a porsi nell'atteggiamento più vero e profondo per l'uomo, quello che fa dire « sono solo un uomo, un uomo che deve essere salvato ».
È l'abbandono della fede, dell'adorazione, della preghiera.
È l'atteggiamento che ci fa guardare ai consigli evangelici non come un valore in sé, un assoluto che permette di interpretare tutto il messaggio cristiano, ma piuttosto come grazia e dono che rimandano continuamente al Cristo dal quale vorremmo imparare qualcosa sui poveri, sui vergini, sugli obbedienti.
Tutti sappiamo che la libertà consiste nella possibilità di scelta, ossia nella capacità, che l'uomo ha, di decidersi in un senso piuttosto che in un altro.
Ma libertà è anche qualcosa di più profondo, di più radicale, di più significativo per l'uomo: l'uomo libero è l'uomo autentico, l'uomo che ritrova realmente se stesso.
Perciò l'uomo libero è l'uomo che ritrova la comunione con il Dio dell'alleanza e la ritrova in Cristo Gesù.
È questa comunione, questo vivere e dimorare nell'alleanza che fonda la libertà dell'uomo.
È, quindi, assolutamente fondamentale riferirsi continuamente alla nostra dimensione più autentica che sta nella nostra vicinanza a Dio, in Cristo.
Si è così liberi di preferire Dio.
L'uomo libero dice di essere libero con il modo con cui vive il rapporto con la natura, con le cose, con le persone, con se stesso: va senza portare nulla nelle mani, va con cuore aperto, va leggero, senza possesso, va ponendo la sua speranza in Lui …
Chi è evangelicamente libero apprezza i beni creati, li usa nel loro valore, ma sempre con distacco.
Vive cioè una tensione: apprezzare ma insieme rinunciare, usare ma insieme non possedere, « avere come non avendo ».
Viviamo in una società ricca, una società del benessere, una società nella quale le sollecitazioni a possedere, a ritenere positivo solo ciò che è appariscente, ciò che dà potere sono molte, quasi senza accorgercene ci si trova coinvolti in questa mentalità e, quindi, quasi confusi nelle valutazioni, nelle scelte.
Ed allora non è facile avere sempre quel rapporto di stima, di apprezzamento, di ammirazione verso ogni bene, che tuttavia va colto nella sua relatività: sempre e comunque in funzione del Regno; non è facile avere la capacità di guardare le cose come opera di Dio, ordinate ad essere « incessante lode di gloria » ( Ef 1,12-14 ).
Contraddice la logica di chi fa del possesso dei beni l'assoluto della propria vita, di chi si fa servo delle cose piuttosto che servirsene.
Ma questo scontro è un richiamo a tendere, in libertà, verso l'unico Bene, è vivere la vera libertà.
I beni, ma anche i talenti che ciascuno si trova ad avere: sono doni ricevuti per essere donati non per essere sepolti.
Allora sarebbe non vivere la libertà evangelica, non esercitare la propria intelligenza, non mettere a frutto la propria creatività …
Essere evangelicamente liberi davanti agli altri.
Il discepolo, al contrario di chi si sente maestro, non usa gli altri, non li possiede, è aperto a tutti pur se sempre dalla parte dei più poveri: indigenti, sofferenti, emarginati, oppressi, soli, poveri di cultura, di fede, di amore, di sicurezza, di identità, di patria …, sempre nel rispetto, come stando sulla soglia della loro vita, con amore, cosciente che non si riesce a capire se non molto poco degli altri per proibirsi ogni atteggiamento di giudizio, ogni arroganza.
Il povero va amato, senza preclusioni, perché il Signore l'ha amato: il Signore ha amato e continua ad amare tutti e ciascuno, senza esclusioni.
Questa povertà, quasi paradossalmente, ci rende liberi della libertà della franchezza del Vangelo: chi non è legato alla carriera, al successo, al potere … è più libero di dire la novità del Vangelo.
Libertà dalle cose, libertà dal desiderio di dominio, di potere sui fratelli, libertà da sé che esige un cammino di espropriazione e di spogliamente interiore alla sequela di Cristo povero, casto, obbediente.
Ciò comporta di imparare ad amare e donare da poveri, cioè con l'atteggiamento di chi sa che è più quello che riceve di quello che dà, che sa che dona cose non sue, che sa di aver bisogno lui stesso di ricevere.
Ciò rende liberi di dentro, rende capaci di dare con discrezione, magari nell'anonimato, nella ricerca non di gratificazioni per sé ma della gioia dell'altro, nel rispetto del suo cammino, nella logica del Regno.
È la consapevolezza di essere soltanto « servo inutile » che « pianta e irriga » sapendo che l'unico a « dare incremento » è il Signore.
È un cammino sempre meglio compreso « in un cammino di fede che va ripreso ogni giorno e sempre di nuovo stimolato.
Il problema della povertà, infatti, trova una giusta impostazione e una soluzione di volta in volta appropriata, solo partendo dalla conversione della persona … » ( Card. C. M. Martini, Cammino di povertà, 1982 ).
Paolo VI, rivolgendosi ai responsabili degli I.S. nel settembre 1972, diceva:
« La vostra povertà dice al mondo che si può vivere tra i beni temporali e si può usare dei mezzi della civiltà e del progresso, senza farsi schiavi di nessuno di essi;
la vostra castità dice al mondo che si può amare con il disinteresse e l'inesauribilità che attinge al cuore di Dio, e ci si può dedicare gioiosamente a tutti senza legarsi a nessuno …;
la vostra obbedienza dice al mondo che si può essere felici … restando pienamente disponibili alla volontà di Dio, come appare dalla vita quotidiana, dai segni dei tempi e dalle esigenze di salvezza del mondo d'oggi ».
È chiara quindi la connotazione apostolica che assume la radicalità evangelica vissuta nella secolarità:
- la povertà rende creativi nel far fruttificare i beni di cui si dispone per un'autentica promozione dell'uomo.
Questa è la destinazione provvidenziale: i beni sono per l'uomo, per tutti gli uomini.
Ciò richiede, tra l'altro, capacità di lettura, di attenzione alle istanze della storia, della chiesa per capire, dialogare con l'uomo di oggi, per assumere la giusta sensibilità verso i suoi problemi, per testimoniare la speranza cristiana, per annunciare la certezza che il Signore è dalla parte dell'uomo per salvarlo, per renderlo autentico, libero;
- la verginità conduce a vivere nella prospettiva profonda dell'alleanza, conduce ad annunciare che ogni uomo è chiamato alla comunione con Dio, conduce a testimoniare l'amore misericordioso di Dio.
Si tratta di rendersi concretamente disponibili a lasciarsi portare da Lui dove va Lui: verso ogni uomo.
Allora la carità diventa il criterio, la misura, il sostegno di ogni decisione, di ogni azione, anche dell'azione del pregare.
La sequela di Cristo nella verginità rende capaci di amare gli uomini in modo nuovo dilatando il proprio cuore nella carità, facendo esperienza di un'autentica comunione, rendendo più autentici e più veri i sentimenti di amicizia, di condivisione, di vicinanza con chi cammina accanto a noi;
- l'obbedienza fa camminare nella fedeltà quotidiana verso una maturità piena, libera, responsabile: solo chi è maturo è capace di fare dono al Signore della propria capacità di autonomia per aderire alla sua volontà salvifica.
Così, in un mondo che sempre più proclama l'autonomia assoluta dell'uomo, diventa testimone che solo Gesù Cristo è l'Assoluto dell'uomo: infatti non abdica alla propria capacità di giudizio, alla propria intelligenza, alla propria capacità di volere …, ma assume la prospettiva della fede quale unico criterio di discernimento.
Vivere la radicalità evangelica da secolari sollecita, dunque, a testimoniare quei valori ispirati al Vangelo oggi generalmente disattesi ma, forse inconsapevolmente, anche ricercati: il valore della gratuità ove domina la logica dell'interesse e dell'efficientismo ad ogni costo, i valori della giustizia e della carità ove domina l'egoismo, la difesa ad oltranza del proprio benessere e dei propri diritti, il valore della gioia e della speranza …
Questo è distacco, è libertà, è poter seguire il Signore, è essere segno nella chiesa e nel mondo; anche quando il segno non è visibile, o almeno non lo è sempre ed immediatamente, come non sempre né immediatamente è percepito e accolto.
Il discepolo può richiamare che ciò che conta davvero è il Signore.
Può, quindi, porsi come coscienza critica nel mondo d'oggi.
Vivendo tutto questo nella gioia, con letizia, dicendo, a chi vuole capire, che le beatitudini del Vangelo sono ancora possibili, che non portano alla tristezza ma alla gioia, che non limitano l'uomo ma lo aprono a prospettive più ampie …
E questo si può dire segno profetico.
« Allora quelli che c'incontreranno sul loro cammino tenderanno le mani avide al tesoro che zampilla da noi: un tesoro liberato dai nostri vasi di terra, dai nostri panieri variopinti dalle nostre valigie dai nostri bagagli, un tesoro semplicemente divino che sarà secondo il modo di tutti perché avrà cessato d'essere secondo il nostro modo.
Allora noi saremo agili, e diventati a nostra volta delle parabole: parabola della perla unica minuscola tonda preziosa per la quale tutto si è venduto ».
( Madelaine Deibrél, Che gioia credere )
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