Radicalità dei Consigli Evangelici nel quotidiano |
Interviste raccolte da Marisa Sfondrini ( Ha collaborato Anna Frattini )
Castità, povertà, obbedienza: non sono soltanto per monaci e monache, sono uno stile, una « forma » di vita anche per i laici e le laiche.
E non soltanto per chi è chiamato al celibato per una speciale consacrazione, ma anche per coloro che hanno per vocazione il matrimonio.
Le teorizzazioni sono interessanti, fondamentali; ma ci pare, almeno altrettanto, interessante conoscere come, nella concretezza della quotidianità, davanti agli ostacoli e alle gioie della vita, reagiscono un uomo e una donna che cercano di tradurre nella loro storia i consigli evangelici.
Abbiamo pensato che fosse di vantaggio per la vivacità, l'immediatezza e la comprensibilità dell'esposizione adottare lo strumento dell'intervista.
Abbiamo sentito Franco Monaco, sposato, due figli, laurea in scienze politiche all'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, ateneo nel quale lavora come capo ufficio stampa; è stato presidente dell'Azione cattolica ambrosiana e membro del Consiglio nazionale dell'A.C.L; attualmente presiede l'associazione « Città dell'uomo ».
Ed Errebì: psicopedagogista, di lei possiamo dire soltanto che è una laica consacrata, quindi tenuta al « segreto » sull'identità ( per questo, per lei, scarnissime indicazioni biografiche, perché qualche dettaglio potrebbe farla « scoprire » ), un « segreto » le cui ragioni lei stessa spiega nel corso dell'intervista.
I filoni di domande, posti ad entrambi, sono fondamentalmente quattro, modulati in maniera diversa per ciascuno, per rispettare la specificità delle due differenti vocazioni.
In pratica si tratta di quattro « definizioni » che, nel corso dell'intervista, con domande specifiche per i due tipi di vocazione, si tenta di verificare.
Di seguito li indichiamo, ma li ritroveremo poi ripetuti - per maggior comodità di chi legge - in cima ad ogni « batteria » di domande.
1. All'interno dell'unica vocazione cristiana ricevuta col Battesimo, si specificano differenti vocazioni per l'azione dello Spirito Santo che dona a ciascuno carismi particolari.
2. I « consigli evangelici » sono la sintesi del nuovo stile annunciato e richiesto da Cristo a tutti i suoi discepoli: castità secondo il proprio stato, povertà evangelica, obbedienza filiale al Padre sono le modalità di vita del cristiano.
3. I « consigli evangelici » nella globalità e l'unità della persona umana.
4. La persona che vive i « consigli evangelici » nella spiritualità laicale, è « segno » escatologico perché « dice al mondo » questi valori universali e trascendenti, nel trattare le realtà temporali.
Ci sembra indicativo e, per certi versi, illuminante, mettere a confronto le due esperienze, ponendo, anche graficamente, vicine le risposte alle quattro batterie di domande.
Il quadro finale - grazie anche all'intelligenza di chi risponde - risulta ricco e interessante.
Partiamo dalla vocazione che - almeno secondo una valutazione superficiale - può sembrare quella più lontana dallo stile dei « consigli »: infatti è più difficile, per la mentalità corrente, pensare ad una vita casta, povera e obbediente, vissuta nel sacramento del matrimonio.
Franco Monaco
Come definirebbe oggi il termine « laicità » in maniera sintetica e comprensibile a tutti, anche a chi non è particolarmente attento a queste ricerche?
Il fondamento della laicità ha a che fare con il rapporto tra natura e Grazia, con l'antica, classica tesi secondo la quale la Grazia risana ed eleva la natura, non la mortifica; conferisce pienezza all'esperienza umana in tutte le sue espressioni e articolazioni.
Quindi la laicità è quel principio/valore genuinamente cristiano grazie al quale si rivela la valenza universalistica del cristianesimo: vale a dire come, muovendo da una autentica esperienza cristiana, si possano testimoniare e sviluppare tutti i valori dell'umano suscettibili di essere universalmente apprezzati.
Naturalmente nel rispetto dell'altrui libertà.
La sua vita di laico credente si dipana secondo la definizione di laicità che lei stesso ha dato? Se sì, in che modo concreto?
Direi in forma precaria e in misura modesta, perché la laicità cristiana, qui intesa non come principio/valore, ma come abito di vita, è il prodotto di un equilibrio straordinariamente difficile.
La nostra vita, più o meno consapevolmente, oscilla sempre tra l'estremo del secolarismo e le pretese integriste.
È, ripeto, il prodotto di un equilibrio difficile e mai compiuto: è un ingrediente e insieme un indizio della maturità cristiana, mai definitivamente conseguita.
Gli ostacoli a questo equilibrio sono sia le pressioni esterne in una civiltà che si usa definire pregna di secolarismo, incline cioè più a divaricare che a coniugare Grazia e natura; sia la pigrizia interiore, l'ostacolo forse più robusto e spesso invincibile.
Lei ha accennato ad una oscillazione fra secolarismo e integrismo: ciò avviene anche all'interno di una stessa persona?
Sì, ciò avviene non tanto come posizioni di pensiero, ma sotto forma di estremi tra i quali oscilla un po' schizofrenicamente anche il comportamento personale.
Secolarismo vuol dire in concreto la omologazione al mondo nella sua accezione giovannea, cioè a quella porzione di umanità che resiste all'azione di Grazia.
Circa l'integrismo - che pure è una posizione che per la mia storia personale ed ecclesiale di appartenenza all'Azione cattolica, ho sempre un po' contrastato - anch'io non ne sono al riparo nella misura in cui non esperisco fino in fondo l'esigenza del rispetto della libertà dell'altro e della mediazione della sua coscienza pretendendo che la verità o il valore, quale risulta alla mia coscienza, passi senza la mediazione compiuta dell'altrui coscienza e libertà.
A questo, ripeto, è esposto anche chi, come me, è cresciuto dentro una tradizione che ha contrastato l'integrismo come posizione di pensiero: nella dialettica interna alla Chiesa italiana, convenzionalmente, noi di Azione cattolica siamo ascritti al fronte di chi si è adoperato, con la così detta « scelta religiosa »,1 per porre un argine alle spinte integriste che peraltro venivano da una lunga tradizione.
Anche il laico, dunque, realizza nella storia la missione di Cristo, è impegnato nella costruzione del Regno.
Ma questa sensazione non è generalmente condivisa: perché, secondo lei, il laico si sente « operaio di serie B » nella costruzione del Regno di Dio?
Qui mi pare occorra fare una premessa, cui farei seguire tre osservazioni.
La premessa: in linea di principio, dai pronunciamenti magisteriali e dalla teologia, risulta acquisita la consapevolezza che il fedele laico ha pari dignità battesimale e conseguentemente medesima responsabilità sull'intero arco della missione della Chiesa, il cui compimento è, appunto, nel Regno.
Dopo di che, è vero che, in linea di fatto, si registrano invece ritardi, insufficienze e anche contraddizioni.
In prima istanza perché noi stessi, fedeli laici, non abbiamo una coscienza lucida di quello che Giuseppe Lazzati2 avrebbe definito « il valore cristiano, salvifico » della secolarità: e cioè che, la secolarità in forza del principio di creazione e di redenzione e in forza del mistero dell'incarnazione, è via obbligata alla santità, è « luogo teologico », come diceva Paolo VI.
Seconda ragione è il condizionamento della cultura/ambiente: la stessa secolarità, storicamente situata dentro questa cultura/ambiente, è spesso una secolarità chiusa su se stessa, che, più che in altre stagioni storiche, è attraversata da correnti di pensiero e da stili di vita che programmaticamente cancellano l'apertura alla trascendenza, quindi la tensione verso il Regno di Dio.
Voglio dire: la secolarità dentro la nostra epoca è una secolarità che si manifesta, in concreto, sotto profili più problematici rispetto ad altre epoche; è una secolarità che inclina al secolarismo.
Questo è il dato saliente della cultura/ambiente che dà forma storica concreta alla secolarità.
La terza ragione è di ordine pastorale e pedagogico: non sempre siamo adeguatamente aiutati dalla comunità cristiana a coltivare precisamente le virtù cristiane, secondo l'inflessione caratteristica di chi vive dentro il secolo; un pochino scontiamo questo dualismo tra l'appello alle virtù cristiane comuni e di sempre e una condizione di vita che domanderebbe una loro caratteristica modulazione.
In questo, mi pare, non siamo sempre adeguatamente sostenuti dall'azione pastorale ed educativa.
Secolarità e laicità sono due concetti diversi?
Sì, forse si possono distinguere, anche se sono parole talmente incrostate dall'uso, che non sorprende il fatto che producano più fraintendimenti di quanto non aiutino a chiarire.
Di norma preferisco la parola secolarità a dire l'indole dei laici, per usare un'espressione conciliare;3 e laicità come un orizzonte di valore, e - conseguentemente - l'esercizio di una virtù, l'affinamento di un'arte che - pur dentro un orizzonte di significato cristiano - però valorizza il dato e l'indole della secolarità.
Perché, secondo lei, oggi più facilmente di un tempo si perde di vista il trascendente?
Le ragioni mi sembrano schematicamente due: la prima ha a che fare con la modernità e con quella che i filosofi e gli storici della cultura chiamano la « rottura immanentistica » introdotta dall'avvento della modernità.
Correnti di pensiero, ma anche forme di vita, all'insegna dell'orizzontalismo, cancellano e sviliscono la dimensione trascendente della persona umana.
Questa è la ragione connessa alla cultura/ambiente.
Se poi si considerano più da vicino le esperienze di vita, oggi, dentro la nostra civiltà moderna e secolarizzata, il difficile sta nelle situazioni che il card. Carlo Maria Martini4 indica nella formula delle « convivenze dirompenti »; cioè quando, in buona sostanza, afferma - fotografando bene l'attuale esperienza - che oggi è singolarmente difficile essere cristiani ed esserlo sempre, in tutte le dimensioni e in tutti gli ambiti in cui si sviluppa la nostra vita, perché, anche nell'arco della giornata, attraversiamo universi differenti, taluni posti sotto il segno del secolarismo, altri posti sotto quello della persistenza di una tradizione cristiana.
Per cui dobbiamo - anche in un breve spazio di tempo - venire a contatto con mondi e ambiti in cui volta a volta il dato prevalente è o l'ispirazione cristiana ( per esempio, nella famiglia, nella comunità locale, nella parrocchia ) o il secolarismo, eventualità che si verifica per lo più negli ambiti della vita pubblica ( dal lavoro alla cultura, all'economia, alla politica ).
Siccome la nostra giornata è fatta di tanti segmenti, in ciascuno dei quali, però, diverso è l'orizzonte di valore, ovvero, detto con formula « colta », il riferimento assiologico, il bello e il difficile sta appunto in questa esigenza - peraltro obbligata - di percorrere trasversalmente universi di valore tra loro in contrasto.
Ecco il senso delle « convivenze dirompenti ».
Pensa che le difficoltà a vivere pienamente la propria laicità siano uguali per l'uomo e per la donna?
Credo che sia difficile alla stessa stregua per entrambi.
In ragione della « cultura della differenza », sono tuttavia difficoltà diversamente modulate.
Forse si può anche abbozzare uno schema circa la forma che in concreto assumono le difficoltà per gli uomini e per le donne.
Se circoscriviamo l'attenzione a quelli che usiamo definire come i « laici impegnati », forse per l'uomo l'enfasi cade abitualmente sull''engagement, cioè su una laicità che si esprime dentro forme di impegno, talvolta anche un po' volontaristico, nella sfera pubblica; per le donne, la laicità convenzionalmente si esprime dentro l'ordinarietà della vita.
A me pare che l'una e l'altra tipologia prevalente dell'investimento della secolarità cristiana, testimoniano una mutilazione: c'è da supporre, infatti, che per entrambi si richieda un di più di armonia e di equilibrio tra una secolarità che si attua entro la trama ordinaria dell'esistenza, anche per gli uomini, e una secolarità cristiana che si dipana sulle frontiere dell'impegno civico, culturale e politico anche per le donne.
Proprio perché veniamo da una tradizione che invece un po' schizofrenicamente separava queste prospettive, credo che per la donna riesca più difficile ideare ex novo modelli di secolarità cristiana sulle frontiere civico-politiche; mentre per l'uomo riesca più difficile, per converso, sperimentare e anche proporre modelli di secolarità cristiana dentro la trama ordinaria dell'esistenza.
Secondo lei, siamo avviati verso questo riequilibrio ( pensando anche al movimento delle donne sviluppatesi specialmente negli anni Settanta - Ottanta ) oppure ne siamo ancora lontani?
Immagino che il movimento delle donne - di per sé - dovrebbe, da questo punto di vista, contribuire a ristabilire l'equilibrio, quindi potrebbe essere un prezioso contributo alle integrazioni necessarie su entrambi i fronti, sia nel richiamare le donne all'esigenza di una secolarità cristiana che si esprima nella forma dell'engagement, ovvero di un protagonismo pubblico, civile, culturale, sia per converso nel richiamare gli uomini ad una corresponsabilità nella conduzione della vita quotidiana, specialmente gli uomini visti nella figura di compagni, di mariti e di padri.
Quest'ultima sua affermazione apre la strada ad un'altra domanda: nella comunità sono presenti diverse vocazioni; fra queste la più diffusa è certamente quella al matrimonio.
Com'è accolta, secondo lei, oggi quest'ultima forma di vita?
Il matrimonio come « ministero laicale » è adeguatamente valutato dalla comunità credente?
Anche qui occorre distinguere: in via di principio la risposta è positiva.
Ormai da decenni è maturata nella coscienza cristiana più avvertita, e dunque anche nelle sue espressioni teologiche e magisteriali, la coscienza della pari dignità sotto il profilo vocazionale del matrimonio rispetto agli altri stati di vita.
Anche qui, però, i problemi si manifestano piuttosto nella prassi.
Alla pratica recezione del matrimonio come figura di valore, come « ministero laicale », noto due ostacoli.
Uno è di ordine pratico: la difficoltà di conciliare tempi ecclesiali e tempi familiari; questo, anche per i « laici impegnati », è un problema irrisolto.
Rivelativa del fatto che il richiesto equilibrio tra tempi ecclesiali e tempi familiari non è ancora conseguito, è la duplice constatazione che dentro la comunità cristiana di solito si fa l'esperienza o di laici per lo più maschi sposati, ma che si comportano come se fossero scapoli, di cui cioè si è persa cognizione - diciamo così - della compagna di vita e della famiglia che sta alle spalle; oppure di coppie di coniugi ( o addirittura di famiglie ) un po' intriganti, in qualche misura fuori dalla normalità.
E ciò proprio perché non disponiamo ancora di un modello collaudato di coniugazione tra tempi e ritmi ecclesiali e tempi e ritmi familiari.
La seconda ragione è di tipo più esistenziale, esperienziale: gli stessi coniugi, cioè, raramente elaborano l'esperienza dell'amore umano, sia dal punto di vista simbolico, sia dal punto di vista teologico, come rilevante, eloquente e testimoniale per l'intera comunità cristiana.
Nei rari casi in cui lo fanno, ciò avviene secondo modalità talvolta deformanti: ad esempio, con un eccesso di enfasi, facendo un po' la caricatura dell'amore umano che invece è molto sobrio e discreto e mal sopporta una propria rappresentazione ostentata dentro la comunità cristiana.
Qui la responsabilità è principalmente dei coniugi e delle famiglie che raramente elaborano - e poi riconducono dentro la comunità, come un carisma, come un dono prezioso - la propria esperienza dell'amore umano e, quando lo fanno, ciò avviene in forme non persuasive o attraenti.
È certamente più immediato pensare ad una vita ritmata dai « consigli evangelici » per una laica chiamata ad una speciale consacrazione.
Ma questa considerazione non è poi così scontata: anzi.
Per chi vive da consacrata, ma al di fuori di quelli che la cultura corrente considera i « normali » ambiti ( la struttura conventuale o comunque la comunità religiosa ) essere casta, povera e obbediente è tutt'altro che privo di rischi e di difficoltà.
Anche se talvolta è entusiasmante.
È ciò che, in sintesi, emerge dall'intervista con la nostra « ignota ».
Errebì
Qual è, sinteticamente, la sua definizione di « laicità consacrata »?
Non è facile dare questa risposta.
Credo di poter affermare che si tratta di operare, all'interno della propria persona, una sintesi fra il sentirsi chiamati a rimanere nell'ambiente, nel luogo dove il Signore ci ha messo - con tutte le relazioni di tipo interpersonale, ma anche di tipo professionale che l'ambiente richiede - e contemporaneamente a vivere la scelta per Gesù Cristo come fondamentale.
Allora, l'essere nel mondo avendo innanzi a sé Lui come valore assoluto, mi sembra voglia dire vivere una secolarità consacrata e una laicità piena.
La consacrazione battesimale mette già in questa situazione, che può rendersi esplicita con voti e promesse.
Il modello universale di consacrazione è, in ogni caso, Gesù, interpretato « storicamente » nella vita di ciascuna persona.
Ritiene che questa vocazione « realizzi davvero in pienezza la missione del dono totale di sé », come si usa definire?
Sarò un'entusiasta, perché la mia vocazione mi piace: ma andando avanti nel tempo - e qui entra in campo l'età cronologica, perché anche l'esperienza ha un suo significato - mi sembra che quanto più mi sforzo di avvicinarmi all'ideale, tanto più sento che la mia persona si realizza.
È vero che la mia realtà la scopro soltanto scoprendo Gesù Cristo e che non posso pensare di vedere una mia realizzazione - come talvolta si suoi dire - solo da un punto di vista umano: la persona non è scissa!
L'unità della persona si ritrova in Cristo: la tensione a vivere il servizio, a vivere la sequela e quindi a conformarsi al Cristo, fa scoprire sempre di più la propria personalità.
Ma non soltanto ciò: fa scoprire anche quelle doti che il Signore ha dato e che è spesso facile lasciare che si atrofizzino; proprio perché a volte sono difficilmente riconoscibili.
Intendo la capacità di conoscere, di penetrare nella realtà; la capacità di operare con le cose; la capacità di trovare soluzioni nuove nelle varie situazioni di vita e di gustare la bellezza del creato in ogni sua forma.
Non si tratta quindi di riconoscere doti eccezionali, ma di constatare che il saper parlare, camminare, gioire e soffrire hanno un senso.
Ogni dono scoperto realizza la mia personalità: ed è dono, quindi non lo posso tenere per me sola.
Com'è accolta, secondo lei, questa particolare vocazione all'intermo della comunità cristiana?
Generalmente questo tipo di vocazione è pochissimo conosciuto.
Fa sorgere molti interrogativi del tipo: ma chi tè lo fa fare … ma perché non ti fermi …?
Quando ci si mette a confronto, anche nella comunità cristiana, si dicono alcuni motivi e si parla di questa tensione, allora c'è molto ascolto, molta attenzione e molto rispetto.
Le persone più disparate cominciano a capire che effettivamente ci può essere una vocazione un po' « diversa dal solito ».
Posso fare un esempio. Sto conducendo un'esperienza, molto bella, di catechesi nelle famiglie.
Sono già tre anni che seguo due gruppi, uno che si ritrova in casa mia, un altro che invece si riunisce in casa di altre persone.
Ci ritroviamo sempre gli stessi, quindi si è stabilita una certa consuetudine e l'abitudine a un confronto.
Si riesce a comunicare nella verità, per quello che si è.
Ad un certo punto, in uno dei gruppi, si stava prendendo in considerazione una pagina del Vangelo di Marco che riguarda la chiamata dei discepoli: alcune persone hanno visto con sorpresa, che la moglie di Pietro non ha contestato la scelta del marito.
Così gli altri parenti prossimi dei « chiamati ».
Perché è stata lasciata questa libertà di seguire il Maestro?
Emergeva così la posizione di coppie che hanno figli sui 18-20 anni, e che paventano il momento in cui questi diranno loro « andiamo per la nostra strada ».
Da questo è nato un discorso sulla vocazione.
E ciascuno ha fatto riferimento alla propria.
Non ho mai detto a nessuno che faccio parte di un istituto secolare, perché non mi pareva il caso.
Ho parlato semplicemente di una scelta che nella vita si può fare perché « c'è il Signore che ride » … guarda ciascuno con uno sguardo d'amore singolare e speciale.
A quello « sguardo » si risponde con una totalità di vita, che deve essere vissuta quotidianamente, nelle scelte minute del momento per momento.
Ho avvertito intorno a me un grande rispetto, come se le persone avessero scoperto qualcosa di nuovo.
Ma ho percepito anche la caduta di quel po' di tensione e di paura che si era instaurato: in fondo, la vocazione è per tutti, è già vocazione alla vita fin dal primo momento.
Sentire queste coppie che hanno riconosciuto di aver dato vita ai propri figli, che questi non sono il loro possesso, ma devono essere aperti a ciò che il Signore chiederà loro, è stato un momento molto significativo.
Un altro esempio: un mio parente medico ha avuto occasione di seguire, in ospedale, una suora di clausura.
Mi ha detto: « Guarda, è una persona splendida. Ad un certo momento le ho chiesto: perché si è ritirata dalla vita?
E le ho soggiunto: mi viene in questo momento in mente una mia cugina, che non si è ritirata in un convento e che fa tante cose …
E io mi chiedo perché le faccia … ».
Allora vuoi dire che le persone intorno, ci guardano, non sempre ci esaltano, ovviamente, ma sono interpellate dalla nostra condotta in generale, si chiedono perché stiamo con il prossimo in un certo modo, senza avere la pretesa di catturare, ma soltanto di servire.
Come pensa che la sua vocazione ad una consacrazione secolare interagisca nella comunità con le altre vocazioni: matrimoniale, religiosa, sacerdotale?
Sarà da riscoprire a livello teorico, ma a livello pratico questa già esiste.
Varrà la pena però di riprendere questo tema e di stabilire come tutte le vocazioni siano complementari.
Proprio a partire dalla mia laicità consacrata, stabilisco rapporti tranquillamente con tutti.
Si è mai sentita definire « mezza suora » o « suora laica »?
Me lo sono sentito dire, oppure, più precisamente l'ho sentito nei confronti di altri.
Credo che vi sia una carenza di conoscenza; ma anche che si colga il senso del riserbo.
Quando ho sentito dire di altre persone, ma suppongo che lo possono aver detto anche di me, « è una suora laica », è stato come se chi stava pronunciando questa frase volesse dire: « Ecco, ho scoperto perché si comporta in quel modo … e non potrebbe fare diversamente perché è una consacrata ».
Probabilmente, però, c'è soltanto una ignoranza dei termini esatti: dire « suora » è in realtà voler dire « consacrata ».
È riconoscere che quanto la persona in oggetto fa corrisponde al suo dovere di stato ( suora ); resta poi il fatto che ciò che fa, lo fa non dietro le mura di un convento, ma nel mondo; e da qui viene il « laica ».
Talvolta questo modo di dire sa molto di pettegolezzo, quasi a voler insinuare « Finalmente ho scoperto il segreto … ».
Ma nella maggior parte dei casi, secondo me, si tratta di non conoscenza di una determinata realtà ecclesiale.
Penso che si potrebbe svolgere un certo lavoro di « istruzione » su due binari: da una parte dare maggiore conoscenza ai vari tipi di vocazione esistenti; da un'altra, aiutare le persone laiche consacrate a capire fino in fondo cosa sia il riserbo.
Che non è un non dire perché in tal modo si assumono meno responsabilità o cose di questo genere; in altre parole, non è soltanto un discorso di funzioni.
Occorre capire - e, potendo, far capire - che si tratta di una « intimità » ( fra la persona umana e il suo Signore ) che va riscoperta e difesa.
Non ho bisogno di mettere in piazza il fatto che io appartengo a questo o a quel gruppo, ma ho urgenza di annunciare Gesù Cristo.
La scelta per Lui non cade sotto il riserbo, che resta invece per la modalità concreta.
Sempre a proposito del riserbo, si obietta, spesso, che questo è utilizzato da un lato per venir meno - forse - a delle responsabilità, dall'altro per giocare non chiaramente la partita della vita, dell'impegno.
Un'altra obiezione, e questa volta positiva è: in una società che, ci piaccia o no, si caratterizza per la spettacolarizzazione d'ogni accadimento, che senso ha mantenere questo velo che non fa capire fino in fondo la bellezza di una vocazione inusuale, che si esprime con tratti delicati e non per immagini scioccanti …
Prima di tutto mi sembra di dover ribadire una precisazione: è importante avere chiaro che, proprio in forza della mia laicità consacrata, nell'ambiente in cui opero assumo tutta la responsabilità.
Non do alcuna responsabilità all'istituto cui appartengo, cosa che invece può avvenire per una religiosa che è immediatamente riconoscibile.
Questo è importante, perché devo coltivare in me questa responsabilità che mi porta, allora, nell'ambiente, a riconoscere le autorità di quell'ambiente, con le quali mi debbo rapportare, con tutto ciò che questo implica.
Dare a Cesare quello che è di Cesare … E per dare a Dio quello che è di Dio? …
Lì non ho un'immagine all'esterno di me, perché sono io l'immagine di Dio, quindi sono le mie scelte che devono essere coerenti con la risposta a Dio, pur mentre rispondo a Cesare, per restare nella metafora.
All'istituto, allora, chiedo che mi aiuti ad avere dei criteri saldi per fare queste scelte, ma non lo chiamo in gioco quando mi capita di sbagliare nel mio ambiente.
Con questo tipo di chiarezza, poi, mi sembra di dover riscoprire tutto il senso della virtù cristiana dell'umiltà.
Pur non andando in giro a dire « io sono di Gesù Cristo », ugualmente compio ogni sforzo per conformarmi a Lui, per essere Sua icona; così l'umiltà mi sembra debba coincidere col mio riserbo.
Io non porto sul palcoscenico l'altra realtà, perché non ce n'è bisogno, non perché la voglia nascondere.
Pensa che il fatto di essere donna la metta in difficoltà maggiore?
Le difficoltà, ammesso che ci siano, vengono maggiormente dal clero? dai religiosi? dagli altri laici?
Qualche difficoltà c'è. Il proprio posto nella comunità sia ecclesiale in senso stretto, sia laica, va sempre conquistato.
Anche perché, oggi come oggi, non tanto in ambito ecclesiale, ma in quello « civile », in fondo la gente pensa che una donna abbia sempre la sua vita privata, abbia sempre i suoi compensi …
Si pensa: « Va bene, ti spendi …; ti vediamo fare … Ma anche se non lo confessi, il tuo uomo ce l'hai … ».
È dato per scontato. Allora diventa meraviglia quando, alzato un pochino il velo, si scopre che non c'è nessun uomo.
Questo è il momento più difficile, perché le persone sono un po' spiazzate e si chiedono come mai.
A volte la risposta si risolve in un sospetto di « diversità » ( e ciò è più facile che avvenga per gli uomini, che per noi donne ).
Nella comunità ecclesiale, c'è ancora molta diffidenza verso la donna.
Quindi, si opera il tentativo di strumentalizzare anche la vocazione alla consacrazione secolare.
Il discorso che si fa è di questo tipo: « So che sei così … allora devi partecipare, ma in subordine … ».
Ciò non vuoi dire che aspiri al primo posto o ad una particolare considerazione; però nel momento in cui mi si affida una responsabilità credo che sia giusto che mi si lasci lo spazio.
Ciò però non significa, immediatamente, rifiutare un confronto, una verifica.
La diffidenza che riscontro, a volte, nei sacerdoti, mi sembra controproducente, oltre che meschina.
Noi, laiche consacrate, proprio perché viviamo pienamente nell'ambito in cui siamo, credo che abbiamo il dovere di far presente alla chiesa quali sono i problemi che si agitano nel nostro ambiente.
Perché se la Chiesa deve evangelizzare, deve sapere cosa avviene fuori dalle sue porte.
Ora, è certamente più difficile per i presbiteri, per i religiosi conoscere le realtà del mondo!
Ma se non sono ascoltata perché sono laica e sono donna, il dialogo, nella Chiesa, diventa difficile.
Vi sono problemi anche con i religiosi: è difficile ancora intenderci pienamente.
Quando mi capita di parlare con i religiosi, mi sento a volte di serie B; sento che mi considerano più « religiosa » che « laica », ma una religiosa « spuria », quella che non ha saputo fare il passo definitivo.
È come se mi si dicesse: « Siccome non sei stata capace di una scelta totale, ti sei fermata a metà strada ».
Questa è la sensazione che avverto.
L'unica volta che ho avuto uno spiraglio di superamento di questo atteggiamento, è stato in una circostanza curiosa: sono stata invitata dall'USMI di … a parlare della Mulieris dignitatem.
Però mi sono accorta che vi era stata confusione sui nomi: cioè avevano chiamato me pensando di chiamare un'altra quasi omonima.
Mi sono ritrovata in un'aula con trecento suore.
Ho utilizzato, nell'interpretare e nell'esporre il testo del Papa, tutta la mia competenza professionale; ho fatto alcune sottolineature anche di tipo psicologico.
Dopo di che parecchie suore sono venute a ringraziarmi e a dirmi: « Finalmente una laica che ci parla, una donna che ci paria …! ».
Evidentemente, avevano capito che anch'io avevo fatto una scelta « radicale », ma è stata forse l'unica volta in cui il dialogo è venuto fuori spontaneo.
* * *
Vogliamo entrare, a questo punto, più nel dettaglio ed esaminare quali modulazioni assumano i « consigli evangelici » per i due diversi stati di vita che abbiamo voluto in un certo senso sondare.
Iniziamo con il laico sposato.
Franco Monaco
Lei è un uomo relativamente giovane, sposato, con figli.
Come definirebbe la castità nel matrimonio?
Certamente anche nel matrimonio - al di là dell'esigenza di un ossequio estrinseco alla norma morale - a un'osservazione un po' approfondita si manifesta l'esigenza di una castità anche ai fini di conservare la qualità complessiva del rapporto d'amore e la qualità specifica dell'esperienza unitiva - sessuale.
Anche dal punto di vista di un'esperienza umana universale, si rivela, cioè, provvidenziale una qualche disciplina sia - in prima istanza - allo scopo di resistere alla progressiva banalizzazione e materializzazione dei rapporti, sia al fine di custodire e sviluppare il senso di una intimità non possessiva e predatoria, sia per conservare la consapevolezza di una misura di distanza irriducibile nei rapporti tra le persone.
La persona dell'altro non ti appartiene: è avvolta in un velo di mistero e, in qualche misura, è sempre inaccessibile.
Questa è la condizione anche per preservare la qualità di un rapporto sempre genuinamente umano e personale, perché, com'è noto, un rapporto davvero personalistico fra uomo e donna conosce entrambe le dimensioni, sia quella della prossimità sia quella dell'alterità; là dove l'una richiama l'altra, l'una non può prescindere dall'altra, ma reciprocamente si illuminano e si corroborano.
E questo vale per tutte le relazioni genuinamente umane.
Il prossimo - personalisticamente parlando - è chi ti è vicino, ma chi è anche sempre in qualche misura irriducibilmente altro da tè e domanda una zona di rispetto.
Pensa sia una « condizione » proponibile oggi, in una società in cui spesso anche i credenti considerano i problemi relativi all'esercizio della sessualità o con eccessivo rigore o addirittura con « liberalità »?
Come, secondo lei, è proponibile oggi ai giovani?
Non posso avvalermi ancora, per questa risposta, dell'esperienza personale, poiché i miei figli sono ancora troppo piccoli per porsi questi problemi.
Immagino che oggi - per le ragioni che prima indicavamo ( alludo alle « convivenze dirompenti » ) - sia singolarmente difficile a causa sia della proliferazione anarchica degli stimoli e delle seduzioni esterne che vengono dalla cultura/ambiente, sia della promiscuità talvolta banalizzante i rapporti, che contrassegna le forme della convivenza tra gli adolescenti e i giovani.
Immagino anche - ma lo dico sommessamente - che sia possibile far lievitare la consapevolezza del valore di una disciplina, anche nella vita sessuale, nella misura in cui è percepita come servente un amore più intenso e non « usa e getta », di un amore che si intensifica nella qualità e resiste nel tempo.
Che è, in fondo, un'aspirazione segretamente coltivata anche dai giovani d'oggi, che pure gli amori li consumano rapidamente.
Ma che, immagino, nel profondo del cuore, coltivano l'esigenza di un amore alto, senza limite né di quantità né di tempo.
Bisogna mostrare che la disciplina è una condizione e una via al perseguimento di un rapporto alla fine più bello, più attraente, più gratificante e più ricco.
Mostrando, in altre parole, che anche ai fini dell'autorealizzazione la disciplina ha un suo posto.
Non le pare legittima, a questo punto, la domanda sulle cause degli amori « usa e getta » dei giovani?
Credo che ciò abbia a che fare con la precarietà che considero uno degli ingredienti principali della civiltà contemporanea.
Oggi è la vita complessiva che è precaria, quindi tutto si fa precario: ogni impegno, ogni scelta, ogni decisione è vissuto come revocabile.
Questo esponenzialmente si manifesta nelle relazioni affettive, specialmente nel tempo dell'adolescenza o della prima giovinezza.
È un tratto complessivo della civiltà che si ripercuote sulla sfera degli affetti.
Il matrimonio si « vive in due »: ha incontrato difficoltà a trovare un accordo, su questo delicato tema, con sua moglie?
Non ho riscontrato particolari difficoltà.
Certo l'intesa è sempre precaria e mai compiuta.
Ho però l'impressione che, anche qui, si tratta di assegnare a questa sfera il suo giusto posto dentro l'economia complessiva del rapporto.
Che è un posto di rilievo perché è la sfera ( quella sessuale ) più intima, quella in cui alla fine si manifesta la qualità del rapporto.
Ma comunque il problema non va sovrastimato, come talvolta si fa da parte di chi vi riflette ( anche ecclesialmente ) dall'esterno.
Non bisogna isolare il problema né considerarlo separatamente, quasi ossessivamente: né da parte dei coniugi, né da parte di chi ha responsabilità educative e pastorali.
Ho l'impressione che dentro la concreta esperienza di un ménage coniugale questo è un problema, ma è uno fra i tanti, che va ridimensionato specialmente quando si stabiliscono intesa e armonia, sia pure sempre relative, sempre precarie, sempre incompiute.
In fondo che contano sono altri valori: e l'intesa sessuale è conseguita nella misura in cui l'armonia complessiva si è realizzata.
Passiamo alla povertà: secondo lei, è giusto che un semplice laico si ponga il problema del vivere « da povero »?
Come definirebbe, quindi, la povertà per un laico che, come lei, ha responsabilità anche verso la moglie, i figli?
Non è che i laici siano esonerati dall'esercizio delle virtù cristiane e dei consigli evangelici!
Quindi è giusto che un laico comune si ponga il problema di vivere da povero.
Proverei, da laico con famiglia, a dare alla povertà i seguenti nomi: il nome di sobrietà sia come stile complessivo di vita, sia per quanto attiene ai rapporti con le cose; poi darei il nome di libertà interiore rispetto ai beni; darei il nome di solidarietà intesa come sacrificio richiesto doverosamente nei confronti di chi ha bisogno.
E darei il nome di responsabilità, perché chi ha famiglia deve considerare responsabilmente il futuro dei propri figli, dando loro un minimo di sicurezza, perché non risponde solo di se stesso, ma anche degli altri cui è legato da vincolo affettivo e anche economico.
C'è, però, un profilo della povertà che è spesso trascurato, ed è quello della povertà di affetti che si suppone invece sia appannaggio di altri stati di vita.
La povertà più difficile da conquistare e da vivere è invece proprio questa, anche per chi ha famiglia.
Povertà di affetti significa avere la consapevolezza che anche le persone a noi più intime e care non ci appartengono; è una distanza da preservare, rispetto alle persone che ami, che costa.
E che a volte si sperimenta anche involontariamente: perché, nei ritmi ordinari della vita familiare, chi si trova in condizioni stringenti di lavoro, di volontariato, di impegni di varia natura, è spesso privato della gioia di sperimentare quotidianamente le gratificanti relazioni affettive intrafamiliari.
Le concrete privazioni di questa gratificazione sono utili in quanto servono a recuperare la consapevolezza che i tuoi cari non ti appartengono.
Ma anche per preservare la propria autonomia personale dentro il nucleo familiare.
È questo un equilibrio difficile, tanto più oggi dentro le moderne famiglie nucleari e dentro i ristretti spazi abitativi, dove il problema è oggettivo.
Sento, per me, ma anche per gli altri membri della mia famiglia, l'esigenza di assicurare spazi, luoghi e occasioni per la propria autorigenerazione personale pur dentro gli angusti spazi, luoghi e ritmi della vita familiare.
Anche se, rispetto alla vita familiare, provo già cento e uno sensi di colpa, poiché ritengo di privare i miei congiunti del tempo necessario alle relazioni affettive.
Insieme a queste sensazioni di colpevolezza, sento però, spesso, anche di trascurare l'esigenza, per me stesso e per altri, di ritagliare quella misura di autonomia personale che è condizione di equilibrio anche dentro il ménage familiare.
Nel matrimonio, nella famiglia la povertà si vive non singolarmente, ma è uno stile che coinvolge tutte le componenti familiari: ne parla mai anche con i suoi figli? E come reagiscono?
I miei figli, come ho detto, sono ancora piccoli, ma non troppo per non parlare di questo problema.
Anche se è difficile oggi, entro la civiltà dell'abbondanza, in un tempo in cui i nostri figli - soprattutto a motivo di quella che definisco l'affettuosa « congiura » dei nonni, degli zii ecc. - sono inondati di superfluo.
E difficile è tanto più quando gli adulti « inondanti » vengono da un'esperienza di vita in miseria.
Per chi non ha fatto la miseria, in anni non lontani, in fondo costa poco rinunciare al superfluo e reagire alla propensione manifestamente diseducativa a dare ai figli il superfluo; riesce invece più difficile a chi, magari nella sua infanzia, ha sperimentato la povertà.
Questo può essere cagione di un contrasto nella coppia, dal punto di vista delle responsabilità educative, originato sia da una oggettiva istanza di valore ( contrastare la propensione al superfluo ), sia anche dalle umanissime e plausibili tentazioni indotte dalla storia di vita di ciascuno.
Il vero travaglio nasce dall'aver l'impressione - da parte del partner « austero » - di privare della gioia di esprimere in questa forma, che pure è quella più discutibile dal punto di vista degli effetti educativi, il proprio affetto ed il proprio legame.
Con i figli, il problema è riuscire a farli ragionare e progressivamente educarli alle piccole rinunce quotidiane possibilmente finalizzate ( e qui mi sostiene l'antica esperienza di educatore oratoriano ) a chi ha bisogno, per introdurli progressivamente alla consapevolezza che alla fine la povertà si risolve in una libertà, in un rapporto sciolto con i beni.
Ritiene che la povertà sia proponibile generalmente ai giovani, oggi?
Anche in presenza di questa nostra « civiltà dei consumi » che si regge, fra l'altro, sullo spreco?
Anche su questo punto, mi pare valga il ragionamento fatto a proposito della castità.
È difficile, ma immagino che sia possibile e comunque doveroso proporre la povertà, quanto meno nella forma di sobrietà degli stili di vita, quale antidoto alla dispersione della vita dentro una pluralità di esperienze tutte precarie e revocabili.
Allora anche la povertà diventa un contributo a contrastare la dissipazione e contemporaneamente a scavare, a concentrare e a dare autenticità per venire a capo, alla fine, di quella ridondanza di beni, di opportunità e di situazioni che rischia di sovrastare tutti e ciascuno, e sotto la quale la propria libertà finirebbe per soccombere.
Penso che la povertà ( intesa come sobrietà e come contributo alla concentrazione e all'approfondimento dentro una civiltà incline alla dissipazione ) sia un ottimo strumento per ritrovare se stessi e la verità della propria vita, per venire a capo del grande interrogativo che angustia i giovani: cioè se vale la pena vivere e per che cosa.
A questo proposito credo che la povertà sia, anzi, una via obbligata, nel senso che costringe a diradare le nebbie di questa civiltà dell'abbondanza che impone esuberanza di beni, di opportunità e di possibilità tra loro pressoché equivalenti.
In sua mancanza, alla fine il soggetto non riuscirebbe più a venire a capo della « domanda di senso », dell'interrogativo fondamentale: che cosa davvero conta e se conta al punto da autorizzare la dedizione della vita.
Sono infatti inesorabilmente destinati a morire i valori per i quali non si è disposti a sacrificare perfino la vita.
La vita deve essere sempre un po' sacrificata e consegnata, anche simbolicamente, ad una causa che sovrasta ogni altra e che sola può mettere ordine fra tutte le altre cause e opportunità.
È quindi un principio di gerarchizzazione dei beni, dei valori e delle opportunità oggi straordinariamente abbondanti.
Come considera il potere, ogni tipo di potere, da quello politico a quello « degli affetti »?
Secondo lei, si può fare un uso « povero » del potere?
Per me quella del potere è la vera e più insidiosa tentazione, un potere inteso nella sua accezione larga, di chi sa, di chi ama ed è amato.
Del resto, a ben riflettere, la tentazione di un potere che si fa prepotere e anche prepotenza, è la radice di tutti i peccati dell'essere umano.
Non fu così, come suggerisce la Scrittura, nell'archetipo ( e quindi nelle radici ) di tutti i peccati che fu il peccato originale, in cui vi era il miraggio di disporre di un potere illimitato, « essere come Dio »?
Proprio perché questa è la tentazione che sta alla radice di tutte le altre, ne sento molto l'importanza e le insidie.
Quali sono, invece, le versioni « buone » del potere?
Un potere che si fa responsabilità, che genera giustizia e che si esprime nel servizio.
Responsabilità: poiché tutti disponiamo di potere sia pure in forme e in misure molto diverse, quando un potere ci è assegnato, occorre esercitarlo responsabilmente: è una sorta di apertura di credito di cui rispondiamo a noi stessi, al prossimo e a Dio; la peggior ricetta sarebbe di sottrarci alla responsabilità di esercitarlo.
Certo è che va esercitato al fine di produrre giustizia, perché il potere è per la giustizia, non è per l'affermazione di sé.
E è per contribuire alla qualità etica della civiltà: in questo senso il potere dovrebbe esprimersi nel servizio.
Il potere è comunque una dimensione costitutiva dell'esperienza umana e anche dell'esperienza civile; il problema non è, quindi, di rinunciare pregiudizialmente al suo esercizio - cosa pressoché impossibile - ma di sublimarlo nelle tre direzioni sopra indicate.
Infine, l'obbedienza: come la definisce per sé e per i laici in genere?
Credo che un profilo dell'obbedienza, comune a tutti gli stati di vita, è quello della docilità alla volontà del Padre, percepita e apprezzata come inequivocabilmente buona, quand'anche non si riesca, a prima vista, ad intenderla come tale; perché, dentro certe esperienze dolorose della vita, sfido chiunque a percepire immediatamente questa bontà!
Un'obbedienza lieta, grata, proprio perché sostenuta dalla convinzione che la volontà di Dio è sempre e inequivocabilmente per il nostro bene, anche quando passa attraverso l'esperienza drammatica e lacerante della croce.
Questa mi pare la radice dell'obbedienza cristiana.
Naturalmente detta definizione pone immediatamente il problema della decifrazione della volontà di Dio su ciascuno dentro le coordinate concrete della vita: in altre parole, il problema di riuscire a discernere che cosa lo Spirito di Dio mi suggerisce e - reciprocamente - mi domanda e in qualche modo mi prescrive.
Qui interviene l'intelligenza credente: perché - ed è esperienza fin troppo comune - la volontà di Dio non si manifesta ordinariamente in forme eclatanti; si rivela per lo più attraverso segni, appelli la cui decifrazione è affidata alla nostra intelligenza illuminata dalla fede; segni e appelli dello Spirito che talvolta si appalesano attraverso le persone che ci stanno a fianco e le situazioni in cui ci troviamo a vivere.
C'è poi il profilo dell'obbedienza dentro la vita della Chiesa: credo che qui si tratti di coltivare uno spirito filiale; la Chiesa è eminentemente madre.
A questo proposito rammento una delle pagine più alte del testamento spirituale di Giuseppe Lazzari, quella in cui allude allo spirito filiale nei confronti di una Chiesa che ci è madre anche quando per essa e a motivo di essa dovessimo soffrire: « … e per essa sappiate piangere e tacere ».
Uno spirito filiale entro una Chiesa percepita come madre - dicevo - quand'anche, talvolta, avessimo l'impressione che ci è matrigna.
Un'obbedienza filiale, ma - naturalmente - come si conviene ad un figlio: nel segno di una responsabilità, di una reciprocità; con la propria spina dorsale, con quella propensione a obbedire « in piedi » che era cara a don Primo Mazzolar!5 ( « Obbedire in piedi per più prontamente servire » ).
C'è poi - ed è quella fondamentale - l'obbedienza alla propria coscienza, alle obbligazioni che si ricavano da essa.
Certo, una coscienza istruita e illuminata alla quale, secondo la più collaudata tradizione cristiana, è affidato l'ultimo giudizio sui propri comportamenti, ai cui obblighi non ci è lecito sottrarci.
Come considera l'obbedienza nei rapporti familiari? Con sua moglie? con i figli?
Bisogna considerare almeno tre elementi - più un quarto, più comprensivo - per declinare l'obbedienza dentro i rapporti familiari.
Il primo è quello della reciprocità: è un'obbedienza che non può andare in una direzione soltanto; che ha senso se si innesta dentro rapporti di andata e ritorno.
Secondo, è un'obbedienza che considera tuttavia i ruoli rispettivi: per quanto attiene alla relazione coniugale, ruoli all'insegna della reciproca integrazione, della pari dignità e responsabilità.
Per quanto attiene invece alla relazione tra genitori e figli - ed ecco il terzo elemento - l'obbedienza si sostanzia in un rapporto asimmetrico; purtroppo una certa pedagogia sedicente liberale e sostanzialmente irresponsabile ha vanificato un po' la consapevolezza del carattere strutturalmente asimmetrico dei rapporti tra genitori e figli: non è lecito ai genitori recitare, nella vita, la parte dei coetanei dei figli.
Essi, genitori, hanno una responsabilità indeclinabile che è quella di dare conto ai figli delle ragioni per cui li hanno messi al mondo e per cui alla fine, tutto considerato, valga la pena di viverci.
In mancanza di questo si ha una condizione filiale ipotecata dal sospetto di essere figli del caso; non tanto perché materialmente generati senza una lucida intenzione e un preciso programma, ma figli del caso perché in fondo non accolti dentro un mondo ospitale; a cominciare da quello familiare che fondamentalmente li avrebbe subiti come prodotti del caso.
Un genitore, anche solo ex post, deve esibire queste ragioni: nel momento stesso in cui si stringe matrimonio, infatti, virtualmente ci si dispone a mettere al mondo dei figli e già si è considerato che ne valga la pena!
Ciò si traduce in un rapporto di responsabilità educativa nei confronti dei figli: dare loro conto di averli generati nell'amore.
Da ultimo, il tutto dentro l'orizzonte dell'amore familiare: le regole e i ruoli acquistano senso solo in seno ad un patto di amore irriducibile, quale che sia l'evento che dovesse venire a turbare o anche a minacciare la vita di ciascuno dei suoi membri.
Anche in presenza dell'evento più tragico, del tradimento più doloroso, non deve mai rompersi questo fondamento d'amore.
In altri termini: un figlio deve poter sapere che, quale che sia l'errore che dovesse commettere, quel patto non si recide mai.
Questa è, secondo me, la condizione delle condizioni.
La legge ( civile, morale ) impone obbedienze: come coniuga questa obbedienza con la coscienza « ultimo giudice »?
La legge morale è scritta nel cuore della persona umana, cioè nella sua sfera più intima e profonda; quindi, qualora fossimo educati a decifrare i dettami o le prestazioni della coscienza, dovremmo essere rassicurati circa la nostra coerenza con la legge morale.
La legge civile, a sua volta, è subordinata alla legge morale dal punto di vista assiologico, anche se la stessa legge civile giusta custodisce un valore, quella del « patto di convivenza ».
Questo conduce ad una tesi che, secondo me, restringe il campo della pratica e della fecondità dell'obiezione di coscienza: quand'anche, sulle prime, uno non avesse la coscienza certa che una legge civile è manifestamente giusta, avrebbe il dovere dell'ossequio a quella legge non fosss'altro perché nella legge è in qualche modo virtualmente iscritto lo stesso patto di convivenza.
Un valore che trascende il consenso o il dissenso puntualmente espresso dalla coscienza sul contenuto di quella legge.
Mi pare un rilievo importante, perché non si introduca un indice di soggettività al limite dell'arbitrarietà nell'ossequio alla legge civile.
Non basta che uno abbia l'impressione o il sospetto che una legge sia ingiusta, deve avere la certezza o la quasi certezza che essa sia manifestamente ingiusta.
In caso contrario, deve avere cura di custodire il valore iscritto nella ratio della legge, vale a dire che il bene superiore dello stare insieme in una comunità regolata dalla legge è tale per cui si può anche accantonare, almeno provvisoriamente, il sospetto che quella specifica legge sia ingiusta.
In altre parole: se si introducesse il principio o almeno l'abitudine a sottrarsi all'ossequio alla legge solo a ragione di un sospetto di ingiustizia, cioè se si avesse una dilatazione a dismisura della pratica dell'obiezione di coscienza, si potrebbe arrivare a una posizione virtualmente anarchica.
Vivere da laico i consigli evangelici non è facile: sente di avere aiuti sufficienti dalla comunità credente in termini di proposte spirituali? Vorrebbe altri aiuti?
Farei un'osservazione, prima di passare alla comunità.
Per quel che mi riguarda, patisco la condizione e il travaglio del « laico impegnato », del quale si dice abitualmente che deve forgiarsi anche alla pratica dei consigli evangelici dentro il servizio e deve semmai esplorare le risorse formative del servizio stesso.
In verità, al di là della formula molto suggestiva, ed anche sotto un certo profilo sacrosanta, certo non si da la formazione da un canto e la testimonianza e il servizio dall'altro.
Ci si forma servendo: questo vale per il presbitero, per il religioso e per il laico.
Al di là della formula, di per sé, ripeto, ineccepibile e suggestiva, personalmente ho patito e patisco un difetto di tempo e di energie da dedicare alla mia autorigenerazione; dedico poco tempo e poche energie a me stesso: subissato dagli impegni, finisco un po' per inaridirmi, per non riservare alla mia vita interiore, spirituale, quei tempi e quella dedizione che invece sarebbero augurabili.
Sento il rischio di una propensione ad esaurirmi psichicamente e spiritualmente dentro un servizio assorbente.
In questo senso la responsabilità è soltanto mia.
Per quanto riguarda gli eventuali aiuti da parte della comunità cristiana, a mio modo di vedere, riscontro questi limiti: da un lato, sbagliando, la comunità pregiudizialmente pratica sconti sulla radicalità evangelica, che, nelle forme debite, andrebbe prescritta a tutti.
Sconti che non sono frutto della cristiana comprensione per le debolezze delle creature umane, ma unicamente - come dicevo - della pregiudiziale rinuncia ad esigere la radicalità evangelica; cioè a dare una risposta nel segno della totalità al « caso serio della vita », consegnandola - oppure negandola - a Dio.
E dall'altro il limite di by passare - come si usa dire oggi con vocabolo brutto ma efficace - la secolarità.
Questo è, secondo me, il paradosso della proposta e della prassi cristiana.
Che da un lato è avanzata banalmente come una proposta tra le tante, non avendo il coraggio e l'entusiasmo di mostrarne la singolarità irriducibile alla pluralità delle proposte di cui è prodiga la civiltà contemporanea.
D'altro canto, si tende a by passare la secolarità, ispirandosi ad un'idea di radicalità evangelica che attraversa la secolarità senza praticare sconti, ma conferendo una coloritura, un'inflessione particolare quale si chiede a coloro che vivono, come dice il Concilio Vaticano il, « implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo ».6
Si registra, in altri termini, una sorta di schizofrenia.
Tutto ciò è dovuto, a mio parere, sia al fatto che in certo senso la spiritualità cristiana è ancora connotata dallo stile monastico, sia alla circostanza che noi laici stessi non abbiamo collaudato modelli così esemplari e così attraenti da fare tradizione, nella comunità cristiana, ai quali si possa attingere.
Perché è anche plausibile che i pastori, oltre una certa soglia, non possano elaborare una secolarità cristiana: dobbiamo farlo noi!
Riprendiamo i medesimi temi - come si vivono in pratica castità, povertà e obbedienza - ponendo domande alla laica consacrata.
Errebì
Come definisce, nella sua realtà vocazionale di laica consacrata, i « consigli evangelici »?
Secondo me sono la strada maestra per vivere la carità.
Il Signore dice: « Siate perfetti come è perfetto il Padre ».
Come si arriva alla perfezione? Avendo un « interesse forte » per il Signore, e quindi facendo una scelta totale ed irrevocabile per Lui: gli dò tutto di me, il mio tempo, le mie energie.
Da qui nasce il riconoscermi povera, perché creatura del Signore.
Ma prima ancora, proprio perché mi rapporto a Lui, riesco a capire che ho bisogno di Lui, che mi aspetto da Lui qualcosa.
Quindi, la povertà si situa prima di tutto nel mio essere e poi nella capacità di dare.
Anche l'obbedienza è frutto di questa scelta: perché non posso fare a meno di cercare di cogliere la Sua volontà.
È una specificazione, in sintesi, del comandamento dell'amore.
Quali difficoltà incontra nel vivere i « consigli evangelici »? Quale peso ha la nostra attuale cultura sulle difficoltà da lei denunciate, ammesso che ve ne siano?
Soprattutto nel mondo di oggi, nel quale i valori sembrano sovvertiti, nel quale sono valori la ricchezza, la potenza, l'immagine ecc., dire nei fatti « Signore, ho bisogno di Te … » e per questo non mi metto in mostra, corrisponde all'andare ogni momento contro corrente, a ricordare che in fondo la realizzazione della mia vita non è il possedere molto …
È un andare controcorrente dentro di sé, prima ancora che nei riguardi della mentalità dominante.
Ciò esige un lavorio interiore che un tempo si chiamava ascesi, un richiamo continuo ai principi di fondo.
Un'altra difficoltà che avverto fortemente, è l'essere continuamente immersa nel frastuono: il silenzio non esiste più.
Invece per far emergere e conquistare i valori c'è bisogno di silenzio, di interiorità e soprattutto di spazi che ogni giorno ciascuno è costretto a ritagliarsi a fatica.
Da questo punto di vista, la mia vita di laica consacrata è molto diversa dalla vita in un monastero.
Perché là c'è una campana che suona, che richiama … c'è una organizzazione di vita - magari faticosa da accettare - che aiuta, anche attraverso costrizioni.
Nella situazione di laica consacrata, invece, ogni giorno occorre darsi una regola di vita, tenendo conto appunto delle cose troppo frastornanti.
Siamo immersi in una cultura che esalta una sessualità tutta « gridata », giocata soltanto fisicamente; siamo di fronte ad una mentalità in cui non si parla di povertà, che è vista come miseria quindi come una vergogna da cui riscattarsi; viviamo in un mondo nel quale l'obbedienza corrisponde a essere « pecore » che seguono acriticamente un leader.
Come tutto questo influisce sul suo vivere casta, povera, obbediente?
Ha un impatto profondo. Sono convinta che siamo figli del nostro tempo e che in certo modo tutti contribuiamo ad esprimere una cultura.
E, di contro, la cultura in cui ci muoviamo permea in qualche modo il nostro essere; o per lo meno tenta di influenzarlo profondamente.
Occorre, allora, sempre interrogarsi sulle scelte di fondo, che non sono fatte una volta per sempre!
Le sbavature, l'« uomo vecchio », lo portiamo dentro, quindi è molto facile sul piano pratico trovare quelle compensazioni o quei piccoli attaccamenti che possono essere anche alle cose materiali, non soltanto alle persone.
Decisioni apparentemente poco importanti, che fanno però deviare dai « consigli ».
Questi sono fatti all'ordine del giorno: sono le continue tentazioni che abbiamo e che effettivamente sono da tenere a bada.
Secondo me, vi sono verifiche e scelte da compiere, in modo diverso, per ogni stagione della vita: ci sono difficoltà che si incontrano a vent'anni che sono superate dall'età matura; ma ci sono difficoltà che si vivono anche a cinquanta, sessant'anni.
Avere segnata la vita dai « consigli evangelici » induce ogni consacrato o consacrata a chiedersi quale significato abbia viveri! nell'oggi storico.
Non è una conquista che si attua fin dall'inizio, quando si è compiuta la scelta e dopo aver cercato di approfondirne, anche da un punto di vista teologico, il significato per ciascuno di noi.
Oggi, guardando alla mia vicenda, sento che, sempre più, mi devo interrogare sul significato attuale di una vita così impostata, in una situazione, in una realtà del tutto laica, in cui mi capita di essere invitata ad uno spettacolo, ad una manifestazione, ad assumere impegni …
Mi chiedo: cosa vuol dire in tale contesto vivere i « consigli evangelici »?
Perché questi vanno vissuti nel cuore delle situazioni, senza autocensure, esercitando però un discernimento, secondo il quale si deve trovare il coraggio di fermarsi e di dirsi anche « non è il caso ».
Il discorso di povertà, allora, diviene la capacità di saper usare i beni di qualunque natura siano, non soltanto privarsene.
Un uso che deve sapersi mettere dei limiti.
Nella società in cui viviamo, questo sembra essere quasi impossibile: lo spreco di beni e di persone sembra essere illimitato.
Così, per entrare nel campo pedagogico, l'immagine che forniamo ai giovani è quella di poter fare tutto, desiderare tutto, essere padroni di tutto, anticipare sempre i tempi.
Invece, la sequela di Cristo fa intendere che ciò non è vero, che non si deve aspirare al tutto delle cose, ma al tutto che è Lui.
Nella nostra cultura si è anche insinuato sottilmente un senso di onnipotenza, di indipendenza da Dio.
È una difficoltà che vivo soprattutto quando mi ritrovo in situazioni così grandi per cui il mio desiderio di essere d'aiuto ( che, secondo la mentalità corrente corrisponde all'essere in grado di risolvere tutto ) è frustrato dal riconoscere che non ce la faccio.
Non scoraggiarmi, rimanere nella situazione e riuscire a capire che soltanto avendo fede nel Signore della storia è possibile andare avanti, è per me una difficoltà, un esercizio ascetico.
Ho bisogno di razionalizzarlo e di ripensare, perché altrimenti potrei cadere nella tentazione di abbandonare tutto o di accodarmi ai malumori, ai mugugni generali.
Vivere i consigli evangelici anche nelle situazioni difficili credo che corrisponda a fare il salto di fede e dire « non sono io che salvo il mondo: e solo testimoniando il vero Salvatore, comunque, contribuirò a che il mondo si salvi ».
Un religioso o una religiosa hanno - nei confronti del mondo - la protezione del convento, della divisa.
Un laico o una laica consacrati non usufruiscono degli stessi schermi: non è che questo, anziché essere uno svantaggio, mette in condizione di essere più vigilanti?
In fondo, la protezione ( del convento, della divisa ) può far credere di essere automaticamente al di fuori delle logiche del potere e quindi far abbassare automaticamente la guardia?
Penso che psicologicamente ciò sia vero.
Senza generalizzazioni sciocche, si può dire che qualche volta l'istituzione può diventare una sorta di alibi, con il quale scaricare la coscienza personale.
Credo poi che effettivamente ai religiosi o alle religiose in qualche modo manchi dell'esperienza all'interno delle situazioni.
Ciò senza colpevolizzare nessuno.
Ritengo poi che, nel considerare i « consigli evangelici », oggi partiamo sempre da un punto di vista sbagliato, cioè dalle cose, dalle situazioni.
Mentre, secondo me, si tratta invece di partire dal Vangelo.
Perché non è vero che il problema grosso della castità siano - per fare un esempio - i così detti « atti impuri » …
Perché se sono convinta che il mio cuore è dato al Signore, ogni mio interesse fa perno su di Lui.
Ciò significa, da un altro punto di vista, che anche quella persona che mi è cordialmente antipatica e che potrei evitare con facilità, perché ho l'alibi ( ma sottolineo l'alibi ) di mille impegni, deve invece essere da me considerata, visitata …
Questo è, secondo me, il vero significato della castità: non soltanto evitare rapporti che possiamo chiamare « disdicevoli », ma pensare ( e quindi agire conseguentemente ) che ogni rapporto fra le persone è la mediazione storica dell'unico rapporto con il Signore.
E che per essere casti non bisogna soltanto dire « no » a certi coinvolgimenti, ma dire « sì » a ogni richiesta di aiuto, di servizio …
È un concetto difficile da riconoscere come vero e far passare.
Quando ha intrapreso il suo cammino vocazionale, quando cioè ha aderito ad un programma di vita che faceva perno sui « consigli evangelici », quali indicazioni le sono state di maggior aiuto nel comprenderli, prima, e nel viverli poi?
Sono stata particolarmente fortunata perché, agli inizi del mio cammino, ho trovato un consigliere spirituale che è forse poco definire di prim'ordine, che nello stesso momento stava approfondendo una ricerca specifica di teologia spirituale.
Quindi sono stata aiutata a vedere i « consigli » in tutte le loro implicazioni.
Dall'inizio, sono stata quindi indotta a cercare i valori più profondi e poi a tirare le conseguenze di una tale ricerca.
Anche il radicamento nella secolarità consacrata, l'ho tratto dall'insegnamento avuto e di cui sono molto riconoscente.
A me pare che l'istituto mi abbia fornito aiuti molto validi su due piani: prima di tutto, in ordine alla specifica vocazione; poi con la sollecitazione a utilizzare tutti gli aiuti che posso ritrovare anche altrove ( il che è altrettanto prezioso ).
Ad esempio, da qualche anno frequento come uditrice una facoltà teologica, perché sento l'esigenza di un approfondimento permanente.
Ciò che, secondo me, oggi si presenta come un problema importante, nell'istituto secolare al quale appartengo, è la possibilità o il coraggio - se lo vogliamo chiamare così - di fare un salto di qualità e di stimolarci a dire: nei nostri incontri, non possiamo continuare soltanto con le definizioni teoriche - che peraltro non perdono la loro utilità - ma occorre anche che essi diventino una specie di palestra in cui ciascuna possa liberamente esprimere la propria opinione, il proprio sentire intorno ad un problema, sapendo di essere in una sorta di zona franca.
In altre parole, dovremmo sentirci libere di dire anche una sciocchezza, con la tranquillità di non essere giudicate, ma semmai di essere aiutate a capire di più e meglio tramite i caritatevoli meccanismi della correzione fraterna.
Vorrei che fossero abolite le definizioni senza appello ( ovviamente sull'opinabile ): vero, falso, giusto, sbagliato.
Amerei che si dicesse, con pazienza: ragioniamo insieme alla luce dei nostri principi.
Se questo non avviene - lo affermo a costo anche di sconcertare un poco - la domanda successiva potrebbe essere: a che cosa serve l'istituto?
Perché, se io non responsabilizzo l'istituto - che comunque raggiunge il suo scopo anche per il solo fatto di fornirmi indicazioni, una strada - mi pare che si perda il senso di un accompagnamento nella vocazione, che credo stia proprio nel « costringermi a dire ».
Nel nostro tipo di comunità - veramente un po' particolare, una comunità di fede, in diaspora, dove non si vivono insieme che pochi momenti particolari - finiamo sempre per confrontarci sul dire e poco sull'essere, perché ci manca lo scambio quotidiano ( da questo punto di vista, i religiosi hanno vantaggi diversi ).
Credo che molte volte, certi nostri comportamenti possono contrastare con il nostro dire, e non ce ne accorgiamo neppure!
Più ciascuna di noi si rende capace di riprendersi in mano, di rivedere e dare parola al proprio comportamento ( ma con la fiducia che chi mi ascolta, mi corregge anche, ma non mi giudica ), più ci allontaniamo dal rischio di fare soltanto degli esercizi accademici, delle belle conferenze che oggi però non tengono più.
Capisco che ciò sia difficile, anche perché, oggi come oggi, il nostro istituto ( uno dei primi ad essere fondati ) ha in sé anche tante persone anziane, che farebbero - ed è logico che sia così - troppa fatica ad accettare un cambiamento tanto importante nello stile di vita.
Una « sorella » anziana ha anche paura di perdere alcune occasioni di vita insieme, sia perché sono fra i pochi momenti di vita di relazione che ha, sia perché - e di questo dobbiamo dare atto ad una formazione fornita in passato - è forse più disponibile a ricevere che a dare e a rimettersi in discussione.
Le più giovani d'età, hanno invece un grande bisogno di confronto e poca pazienza nel recepire quelli che sono i principi fondamentali.
Mettere insieme le due tensioni è senza dubbio molto difficile: credo che però sia necessario tentarvi sempre, perché si dovrebbero trovare aiuti nella comunità ecclesiale: è un fatto, però, che quanto ci viene offerto oggi non è sufficiente.
Pensa che oggi i giovani vivano le sue stesse difficoltà? Oppure quali altre?
I giovani hanno intuizioni molto valide; uso di proposito il sostantivo « intuizioni » dato che mi sembra manchino di un substrato solido, perché hanno ricevuto più informazioni che formazione.
Ciò sia pure in presenza di una maggiore cultura, che perciò richiede discorsi più raffinati.
Mancano di una formazione di base, solida; e soprattutto mancano di costanza.
Ciò è probabilmente dovuto anche ad un itinerario scolastico in cui si esalta il cambiamento per il cambiamento.
Stai un momento e poi, se non ti piace più, cambi indirizzo.
Nella vita, anche in quella familiare, si deve arrivare ad una scelta che ha una sua definitività perché si deve crescere.
In altre parole, non è la stabilità fine a se stessa, ma la stabilità come base per una crescita personale.
Oggi, forse, si perviene alla stabilità per inerzia, per desiderio di potere, per tanti motivi diversi dall'unico valido: farne una pietra angolare sulla quale costruire o una piccola capanna o un grattacielo, non ha importanza, dipende dai doni di ciascuno.
In questo credo che i giovani d'oggi siano veramente svantaggiati rispetto alle generazioni precedenti.
Uno svantaggio culturale che si riflette in ogni situazione, anche quella matrimoniale.
Se oggi assistiamo a fallimenti addirittura dopo pochi mesi di vita in comune, un motivo deve pure esserci.
Credo che se non riusciamo a far capire, fin da bambini, che il sacrificio è un valore, che si può fare qualcosa che al momento non piace, ma che serve per costruire il futuro, andremo incontro sempre a questa sorta di « fallimenti ».
Occorre riprendere in considerazione l'ascesi, come valore anche « laico », non soltanto religioso.
A mio giudizio, però, la situazione non è affatto disperata.
Mi pare che la riprova possa essere trovata in questa considerazione: mentre qualche anno fa, anche nelle riunioni degli « addetti ai lavori della formazione » non si poteva parlare di « educazione », pena trovare un rifiuto, un raggelamento dell'uditorio, da qualche anno a questa parte i giovani cominciano a chiedere indicazioni.
C'è una richiesta di confrontarsi con persone che hanno sperimentato e che offrono testimonianza sulla base della propria sperimentazione.
Oggi non si può partire dalle definizioni assolute, ma occorre un lavoro « induttivo », che a partire dall'esperienza arrivi a far emergere i principi, i valori di fondo dai quali l'esperienza è governata, sostenuta.
Occorre, cioè, costruire insieme.
Questa è la speranza, che - d'altra parte - dice quale responsabilità abbiamo come adulti, possessori di un'esperienza che deve essere messa a disposizione.
Credo che una delle caratteristiche - e che diventa poi un dono per l'istituto - sia di avere eterogeneità di presenze e di carismi.
Il senso dell'istituto dovrebbe essere di utilizzare tutti i doni esistenti.
Questa, del resto, è un'altra caratteristica della laicità consacrata.
A volte viene fatto notare che un consacrato/a colmano le frustrazioni che deriverebbero da una vita casta, povera e obbediente, esercitando forme subdole e sottili di « potere »: circuendo affettivamente e rendendo dipendenti da sé altri ( contro la castità ), conquistando ruoli prestigiosi ( contro la povertà ), rifiutando magari responsabilità ( contro l'obbedienza alla vita ).
Secondo lei queste accuse tengono anche in linea generale?
O si tratta di casi isolati, indebitamente portati ad essere considerati la generalità?
Diciamo che queste sono autentiche tentazioni dalle quali occorre sempre guardarsi con molta attenzione.
E soprattutto per combattere le quali occorre un costante confronto, una verifica che non possiamo condurre ciascuna per proprio conto.
Credo che, per quanto riguarda l'obbedienza in particolare, mettere il nostro progetto al posto di quello di Dio sia facilissimo.
* * *
Questa terza batteria di domande tende a mettere a confronto, in certo senso, l'unità della persona con la pratica dei consigli evangelici.
Ancora un passo nell'azione di scandaglio che dovrebbe aiutarci a costruire un profilo per entrambi gli stati di vita.
Le domande sono quasi simili per le due diverse esperienze: iniziamo, come sempre, dal laico sposato.
Franco Monaco
Ritiene i consigli evangelici mezzi per « crescere in umanità »?
La pratica dei consigli evangelici rappresenta una via alla concentrazione dentro una vita e una civiltà dissipate, cioè inclini non al raccoglimento intorno ad un centro unificante, ma alla alienazione.
Sono uno strumento utile alla dilatazione degli orizzonti della vita, nel senso che dischiudono prospettive, valori e anche la considerazione di problemi altrimenti esclusi da un orizzonte più angusto.
E infine è una via all'intensificazione e alla qualificazione delle relazioni interpersonali.
In sintesi: una via alla concentrazione sull'essenziale, una dilatazione degli orizzonti sia in termini di considerazione dei problemi, sia in termini di valore; una via all'intensificazione e alla qualificazione delle relazioni interpersonali.
Da questi tre punti di vista si può dire che i consigli evangelici rappresentano un indubbio e importante motivo di arricchimento della nostra umanità.
Ritiene proponibili anche ad altri questi motivi?
Senza la luce della fede e senza il supporto della Grazia mi pare piuttosto improbabile l'accesso alla pratica dei consigli evangelici, almeno nella loro pienezza.
Forse si può immaginare l'accesso a qualcosa che loro assomiglia: poniamo la sobrietà di vita, il rispetto nei confronti dell'altro, la misura, l'equilibrio, la dedizione eccetera.
Attingere a quella misura senza misura dell'amore la cui figura più caratteristica è il perdono gratuito e incondizionato, è piuttosto problematico per chi non ha il supporto della fede e della Grazia.
Se l'accento va sul « proponibili », ritengo che vi sia una via sola per dischiudere questi orizzonti a chi non crede, che è la via testimoniale: solo l'attrattiva che potrebbe esser esercitata da genuini testimoni può almeno lasciare intravedere la suggestione di questi orizzonti.
Come influiscono sui suoi rapporti con i familiari? Con il prossimo in genere?
Mi riesce difficile dare nome specifico alle forme attraverso le quali dovrebbero manifestarsi.
Ciò dovrebbe accadere dentro il tono evangelico e la qualità e l'intensità delle relazioni affettive intrafamiliari.
Devo dire però, che il mio problema è di dedicare troppo poco tempo alla famiglia e, soprattutto, di non ascoltarne sufficientemente gli altri componenti.
Il problema dell'ascolto dentro la vita familiare, ma non soltanto, anche nella vita di relazione tout court, è uno dei massimi nella vita d'oggi.
È adesso la volta della laica consacrata: è interessante confrontare le risposte ( qui è sufficientemente facile, dato che le domande sono assai simili quando non uguali ) e mettere in luce le singolari affinità.
Errebì
Ritiene i « consigli evangelici » mezzi per « crescere in umanità »? Per quali motivi, essenzialmente?
Concepire la vita come un dono fa veramente realizzare la piena umanità.
Se davvero, il consacrato, la consacrata sono un dono per l'« altro », non sono invadenti, ma fanno in modo di essere desiderati ed accettati, allora davvero diventano una « forma di umanità » comprensibile anche dal prossimo.
Anche la discrezione diviene una qualità: talvolta è più difficile fermarsi, che continuare a dare.
Credo che parimenti - ed entra in gioco il discorso della povertà - sia anche del tutto corretto educarci a saper ricevere; e non soltanto dal Signore!
Riuscire a capire che cosa significa saper ricevere senza pretendere è un esercizio che davvero permette a ciascuno di crescere.
Ci si può trovare in solitudine, una situazione umana generale, non soltanto del consacrato.
La reazione può essere di diverso tipo.
Posso soffrire doppiamente per questo stato a causa di due motivi: perché rimprovero all'altro di non accorgersi di me, poi perché ne « pretendo » la vicinanza; cerco, in sostanza, di avere la calamità per attirare l'altro.
Al punto che se arriva accanto a me una persona diversa, non sono soddisfatta, perché ciò non corrisponde ai miei desideri.
L'altro tipo di reazione può essere: riconosco la mia solitudine, ne soffro; viene una persona a interromperla, chiunque essa sia, che mi piaccia o non mi piaccia, la accolgo con gioia, ringraziandone il Signore ( ho ricevuto, ma non ho « pretese » ).
Se, al contrario, in quel momento nessuno viene a rompere la mia solitudine, riesco ugualmente a vivere, accettando anche la situazione di sofferenza « dalle mani del Signore ».
Cercando il parallelo in campo educativo, si può dire: l'educatore offre uno stimolo, sollecita il bambino, ma non pretende nulla e non è lì ad attendere soltanto i risultati.
È una sorta di « gratuità » anche nell'insegnamento: ti offro, ma non ti ricatto …
L'esempio fatto sul bambino può essere valido, però, anche per misurare tutti i rapporti interpersonali, a prescindere dall'età.
Si cresce in umanità, perché si riesce a cogliere le potenzialità di ascolto dell'altro e di noi stessi.
Mentre agisco, però, devo avere anche la capacità, lo spazio e il tempo per riuscire a vedere quello che è fatto, prendendo la distanza dalle mie azioni e verificando quanto sono in linea con i miei principi.
Se mi passa il paragone, è come il lavoro dello scultore, che trae dal marmo la sua opera: con la coscienza che - come progetto - la statua è opera di Dio.
Ritiene proponibili anche ad altri questi motivi?
Credo che ciò sia possibile se c'è un terreno preparato.
Il consacrato, la consacrata vivono per vocazione un'esperienza di solitudine: che non è proponibile ex abrupto perché si scatenano immediatamente delle difese, si alzano delle barriere.
Nel caso in cui si tratti di adolescenti - e la cosa è ancor più delicata - può accadere che questi strumentalizzino la solitudine.
Sono dimensioni e modalità da tenere presente nell'accompagnamento del cammino vocazionale, con riferimento a tutte le vocazioni.
Secondo me, la solitudine è avvicinabile al silenzio inteso come capacità di stare con se stessi.
La solitudine è il momento in cui sto con me stesso o il momento in cui io mi sento mia?
Perché se la risposta è « saper stare con se stessi », è positivo, non si va in crisi, non ci si trova nel vuoto, nel nulla: al contrario, si ritrova se stessi.
Se invece il discorso di solitudine è vissuto a livello superficiale, addirittura di « possesso » di sé, diviene pericoloso perché la risposta è il vuoto.
Questo è gravissimo perché di fatto la persona umana è sempre in relazione ( con le cose, con le situazioni, con le altre persone ), vive di comunicazione.
Di per sé, la persona umana non dovrebbe essere sola.
Si sente sola quando si isola.
Un punto, da tener presente nell'itinerario formativo, è che la solitudine è un prodotto del tutto nostro: siamo noi ad isolarci, non è vero che gli altri ci isolano.
Scavando ancora si può arrivare ad applicare questa considerazione anche ad un traguardo, ad un momento della vita che la cultura oggi scaccia dal proprio orizzonte, cerca di esorcizzare: la morte.
Che può essere considerato il più alto momento di solitudine ( che la fede riempie però della misteriosa presenza di Dio ).
La morte è oggi rifiutata anche perché manca un sano e solido rapporto con la solitudine.
Anche a partire dalla vocazione alla secolarità consacrata, quando diciamo che per ogni età dobbiamo trovare « il pane da dare », è da mettere sotto la lente di ingrandimento il capitolo di come aiutarci a morire: facciamo fatica a fare questo discorso, che è invece estremamente importante.
Un tempo eravamo sostenuti anche da un costume corrente e diffuso che includeva, nei suoi orizzonti, l'ars moriendi.
Nel momento in cui la mentalità corrente rifiuta dolore, decadenza fisica e morte, affrontare invece il problema può diventare il segno distintivo, lo specifico di una comunità che sia tale: perché la comunità è tale se ti accompagna per tutta la vita.
Una comunità sensibile, anche se ciascuno vive per suo conto.
Siamo al completamento del profilo: siamo cioè davanti alla globalità di persone che, con la loro vita, comunicano - e tentano di comunicare - valori che li trascendono.
Anche questa volta possiamo constatare - data la perfetta sovrapponibilità delle domande specifiche - le singolari coincidenze.
Cominciamo dal laico sposato.
Franco Monaco
Può dire, con semplici parole, come questa affermazione ( La persona che vive ecc. ) si concretizza nella sua quotidiana esperienza?
Sintetizzerei la mia risposta con quattro sostantivi: passione, distacco interiore, totalità, umorismo.
Passione: la « persona ecc. » deve essere uno che vive e vive intensamente, che interpreta e apprezza la vita come un'esperienza grata e promettente.
Contestualmente e dialetticamente, è uno che vive il distacco, la libertà interiore, la propensione a distinguere tra valori ultimi e valori penultimi; e quindi anche la misura di distacco nel trattare le realtà temporali.
Ancora, la totalità ( non ostentata ), cioè la propensione a giocarsi integralmente dentro la vita, consapevole che essa è bella ed appassionante, ma è anche un affare serio.
E infine l'umorismo: consapevole alla fine, che la vita è una cosa seria, o meglio, si concentra intorno ad un caso serio, essendo tutto il resto relativo, ci si introduce all'umorismo, che - secondo me - è caratteristico di chi, dopo essersi giocato integralmente, sa che però sostanzialmente tutte le situazioni sono relative e quindi fa bene alla salute del corpo e dell'anima stabilire una qualche distanza e non prendere soprattutto se stessi, troppo sul serio.
Questi sono, secondo me, i registri che dovrebbero trasparire dalla persona che vive la dimensione escatologica e che, insieme, stabilisce la distanza e anche l'intensità nella partecipazione alla vita.
Quali difficoltà incontra nel vivere quotidiano?
I rapporti interpersonali le sono d'aiuto o di impedimento?
I rapporti che stabiliamo con il nostro prossimo sono, per lo più, relazioni di tipo funzionale, ahimè, anche nella Chiesa; cioè strettamente inerenti a « parti in commedia » che ciascuno di noi recita nella vita in genere, in quella civile, ma anche in quella ecclesiale.
Poi si danno rare esperienze di genuina amicizia - in tutte le sue accezioni - che sono quelle obiettivamente più edificative, là dove ci si rapporta all'altro in ragione dell'apprezzamento per la singolarità irripetibile della sua persona e quindi là dove lo scambio è più intenso ( ma sono, purtroppo, esperienze rare ).
Si da, poi, qualche più raro caso di autentica fraternità, là dove, entro una trama di rapporti amicali, si innesta anche la comunicazione nella fede, cioè uno scambio ancor più intenso e intenzionalmente finalizzato alla reciproca edificazione nella fede, allo sviluppo della maturità cristiana di ciascuno.
Purtroppo queste ultime sono esperienze un po' circoscritte, mentre invece dovrebbero interagire con quella rete di rapporti eminentemente funzionali.
Come molti, anch'io vedo con chiarezza la meta, ma poi francamente non riesco a raggiungerla.
Gli aiuti spirituali che riceve dalla comunità le bastano? Vorrebbe qualcosa di più o di diverso? Che cosa?
Se devo essere sincero, ho ricevuto tanto dalla comunità, che per me poi ha nomi e volti precisi, quelli di alcuni sacerdoti e di alcuni laici; il nome della parrocchia e dell'oratorio in cui sono cresciuto e il nome anche dell'Azione cattolica che tanto mi ha dato.
Sarei ingeneroso se dovessi affermare che non ho ricevuto aiuti.
Anzi, credo di dover dare conto di averne avuti anche troppi e di non averne fatto tesoro.
Tuttavia, devo dire che oggi sento l'esigenza di un rapporto più intimo e personale con la comunità cristiana, perché la mia esperienza di vita di lavoro e di volontariato in vari campi, ha molto compresso i tempi e le occasioni per la mia autorigenerazione.
La mancanza di rapporti rigeneranti dipende certamente da un mio attivismo febbrile, dal tempo scarso e dall'alienazione di cui anch'io mi sento vittima.
Devo rivisitare criticamente l'equilibrio della mia vita, la distribuzione dei tempi di cui si compone stretto come sono tra famiglia, lavoro e impegni extra professionali e extra familiari, ripristinando un più sano e più umano equilibrio.
Mi sento, infatti, un testimone abbastanza eloquente di quelle anomalie e distorsioni che si producono presso i « laici impegnati » e alle quali ho già accennato.
È ancora il turno della laica consacrata: anche la nostra Errebì si cimenta nell'arduo compito di osservare - quasi fosse testimone esterna - la sua vita per ritrovare in essa i segni della testimonianza evangelica esplicita.
Errebì
Può dire, anche lei, con semplici parole, come l'affermazione « La persona che vive i 'consigli evangelici' nella spiritualità laicale è 'segno' escatologico perché 'dice al mondo' questi valori universali e trascendenti, nel trattare le realtà temporali » si concretizza nella sua quotidiana esperienza?
Credo che - a partire dalla mia esperienza personale - quella data sia una definizione compiuta, che sento vera anche per me come ideale a cui arrivare.
Mi impongo però di non misurarla, perché nel momento in cui mi dovessi chiedere « ma gli altri mi hanno visto come 'segno' … » avrei paura di mettermi una maschera.
Invece credo che il discorso vero riguardi la tensione che ho dentro, che continuamente cerco di far arrivare nelle mie azioni …
E poi gli altri vedano quello che possono vedere!
Non mi pongo tante domande sugli altri perché - ripeto, anche se capisco che forse è un mio limite - avrei la preoccupazione di agire in un certo modo « perché devono vedere ».
Il mio intento è invece agire « per il Signore », non perché gli altri debbano « vedere ».
Se poi il prossimo percepisce « qualcosa » - e debbo dire che nella vita a volte mi è capitato di accorgermi che gli altri leggevano « qualcosa » nella mia vita - ringrazio il Signore, ma non mi fermo, ovviamente.
Ricordo una volta, una collega con la quale lavoravo in una amministrazione, e con la quale non c'erano affinità.
Ad un certo punto questa persona si è trovata davanti ad un problema molto grosso: ho cercato di esserle vicina, da cristiana.
Un giorno ho trovato sulla mia scrivania un quadretto di soggetto religioso con un bigliettino: « Io non sono capace di pregare, prega tu per me! ».
La circostanza mi ha commossa moltissimo, perché ciò significava che, al di là di tutto quanto poteva separarci sul piano professionale, di ideali ecc., aveva colto che le volevo bene.
Questo, se vogliamo, è uno dei famosi « segni ». Ne ho ringraziato il Signore.
Ed il mio impegno è stato di continuare a volere bene a quella creatura.
Quali difficoltà incontra nel vivere quotidiano?
I rapporti interpersonali sono d'aiuto o di impedimento?
È chiaro, anche per quanto detto sopra, che i rapporti col prossimo sono di grande aiuto.
La domanda si pone, semmai, quando i rapporti sono con persone o fatti sgradevoli.
Il vecchio Adamo lo portiamo sempre con noi; capita che, in situazioni particolari, riusciamo a tornare sui nostri passi, riusciamo - solo dopo aver « sbottato » - a ricordarci l'episodio evangelico dell'incontro di Gesù con il giovane ricco, in cui il Signore prima ancora di intessere un dialogo, ama quel giovane che gli si para davanti.
Abbiamo limiti, nessuno è così padrone di se stesso da riuscire a cercare di capire prima di giudicare.
Non sempre riusciamo ad essere « evangelici », anche se mi dico che nel rapporto interpersonale impariamo anche dagli errori.
Qualche volta il vederci limitati come tutti, diventa per chi ci è accanto un motivo di unione.
Questo non per trovarci giustificazioni, ma per dire che non siamo dei « surgelati », dei superuomini, delle superdonne.
È importante saper dire grazie anche agli altri, quando impariamo da loro.
Ho un'esperienza consistente con i ragazzi handicappati: davvero quello che si impara da loro è tantissimo.
Non è sempre facile ringraziarli, perché bisogna trovare le forme per riuscirvi.
Però lo sento molto vero. Più affiniamo la nostra capacità di ascolto e di attenzione, più ci accorgiamo che dagli altri impariamo molto.
Ecco allora che la terribile espressione « segno escatologico » non è soltanto in quello che io dò, ma anche in quello che so ricevere.
Sostanzialmente, il « segno » è quello di un amore, la carità di Dio, che è sempre presente.
Ringrazio dal profondo Dio, allora, quando so esserne il veicolo; e Lo ringrazio quando ritrovo la medesima qualità negli altri.
Gli aiuti spirituali che riceve dalla comunità cristiana ( se ne riceve ) le bastano?
Vorrebbe qualcosa di più o di diverso?
Chiederei una maggiore attenzione allo « spirituale », inteso come forte richiamo al Signore, mentre sento questa comunità cristiana ancora troppo distratta dall'organizzazione, dalle cose da fare.
In essa trovo anche il pericolo di un certo subdolo formalismo: per cui se siamo in gruppo compiamo alcune azioni, diciamo alcune parole; poi non ci chiediamo nella vita quotidiana, se siamo davvero coerenti, se viviamo davvero secondo lo stile evangelico.
Credo - è un'ipotesi che faccio - che se insieme ci aiutassimo a riprendere in mano il Vangelo ( ed è in questo senso che intendo lo « spirituale » ), ponendoci fortemente l'interrogativo di come dobbiamo viverlo oggi, nella nostra concreta situazione; in questo modo - allora - ci daremmo un aiuto reciproco; voglio dire, con gli altri tipi di vocazione chiamati a percorrere, sia pure con modalità diverse, il medesimo itinerario di santità.
Indice |
1 | In pratica il distacco dal diretto impegno nel « civile » operato dalla maggior associazione laicale italiana, l'Azione cattolica italiana appunto, con l'adozione del nuovo Statuto nel 1969. Artefici principali del cambiamento, avvenuto sotto l'alto patrocinio di Papa Paolo VI, furono l'Assistente generale, S.E. Mons. Franco Costa e il prof. Vittorio Bachelet ( assassinato dalle Brigate Rosse ) |
2 | Nato a Milano il 22 giugno 1909 e quivi morto il 18 maggio 1986, Giuseppe Lazzari è certamente figura eminente nel laicato cattolico italiano. Docente e poi rettore dell'Università cattolica del Sacro Cuore, fondatore dell'istituto secolare Cristo Re, ha grandemente contribuito allo sviluppo della così detta « teologia del laicato ». È stato uditore al Concilio ecumenico Vaticano II; ha fondato, fra l'altro, l'Associazione culturale « Città dell'uomo » |
3 | Lumen Gentium 31 |
4 | Nato a Torino il 15 febbraio 1927, gesuita, Carlo Maria Martini è stato eletto arcivescovo di Milano il 6 gennaio 1980 ed ha preso possesso della diocesi il 10 febbraio dello stesso anno. È stato creato cardinale nel concistoro del 2 febbraio 1983. I suoi interventi sono molto apprezzati anche da chi si dichiara « non credente » o « lontano » dalla comunità cristiana |
5 | Don Primo Mazzolar!, sacerdote, parroco di Bozzolo, è noto per la sua straordinaria « apertura » evangelica, per l'attenzione ai problemi sociali e culturali del suo tempo. Oratore e scrittore fecondo, anticipò in certo senso il Concilio Vaticano II. Per le sue idee « avanzate » non venne capito dai superiori, che gli ingiunsero di « tacere ». Don Mazzolari, pur soffrendo, obbedì |
6 | Lumen Gentium 31 |