Il paradosso delle Beatitudini |
di Teresa Ciccolini
Bisogna anzitutto sfatare i significati più correnti e superficiali che si attribuiscono al primo termine: i miti non sono i rassegnati, i rinunciatari, i remissivi, coloro che lasciano correre o si defilano per non esporsi, coloro che delegano e si rinchiudono nel proprio guscio, i mediocri, gli sdolcinati, quelli che di sé dicono di non fare male a nessuno e che non si immischiano nella vita degli altri.
E nemmeno chi sfodera smaglianti sorrisi di circostanza o buone maniere o gentilezza convenzionale o parole di circostanza.
O quelli che stanno sempre nel medesimo posto e non si muovono mai.
Di cui non ci si può lamentare.
Che si guardano quasi con compatimento.
Qui, nella beatitudine di Matteo (Luca non li cita ), i miti hanno un senso forte, una pregnanza biblica: assieme ai poveri, ai misericordiosi, ai puri, agli operatori di pace declinano e sfaccettano l'essenza della felicità promessa e motivata da Gesù: l'incontro con Dio, come compimento di tutte le sue promesse, come completa, profonda sintonia e comunione con Lui, che vuoi dire raggiungere una pienezza inimmaginabile e sorprendente, l'immensità della gioia, dell'amore, di ogni aspirazione a un Tu, di ogni bellezza e gratuità, di ogni valorizzazione.
È significativo che alla radice della mitezza evangelica vi sia da una parte, tutta la tradizione biblica degli 'aniim' ( i miti ) strettamente connessi con gli 'anawim' ( i poveri ) e, dall'altra, l'esortazione di Gesù: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore » ( Mt 11,29 ).
Gli 'anawim' sono coloro che ripongono fiducia totalmente nel Signore, 'stanno davanti' al Signore e sperano in Lui ( Sal 37 e Is 66,2 ); sono i poveri di Dio, coloro che sentono di appartenere non a se stessi, ma a Dio, e vivono coerentemente questa appartenenza.
Coloro che, da Mosè ( Nm 12,10: « Mosè era un uomo estremame nte mite, più di tutti gli uomini sulla faccia della terra » ) a Maria ( Lc 1,38.46-55 ) costituiranno il nucleo fedele del popolo ebraico: il resto di Israele.
Quel 'resto' che, lungo le generazioni, non si lascerà scomporre dagli sconvolgimenti storici, dalle prevaricazioni, dall'ebbrezza del potere e dall'idolatria delle ricchezze, ma conserverà la sobrietà e l'incrollabilità del proprio appartenere a Dio.
E in Gesù, che porta a pienezza la tradizione ( l'alleanza ) antica, si compie il totale abbandono in Dio, per cui lui solo può dire autenticamente, come richiamo al fondamentale atteggiamento che il discepolo deve avere: « imparate da me che sono mite e umile di cuore ».
Con questo possiamo subito affermare che la mitezza non è una virtù, ma una prospettiva di vita, determinata da una conversione e da una relazione.
Quanto più uno si converte al Signore, quanto più entra in rapporto con Lui, tanto più diventa mite.
Quanto più la sua fede non si esaurisce in una dottrina o in una religione, ma diventa esperienza di vita, si traduce in testimonianza viva, tanto più naturale è il suo imparare costantemente, instancabilmente da Lui.
L'essere miti è costitutivo dell'essere cristiani, perché appunto Gesù Cristo è mite ed umile.
Mitezza ed umiltà sono due modi dello stesso essere.
Implicano la coscienza della propria umanità, non tanto e non solo come limite e finitezza, quanto come creaturalità, come dignità di figli di Dio che per splendere pienamente hanno proprio bisogno di lasciarsi illuminare senza riserve da Lui, di acquisire la costante di sentirsi amati, di essere dentro la grande, gratuita, splendida iniziativa di Dio.
Quindi escludono ogni arroganza, superbia, prepotenza, superiorità, autocentrismo.
I miti sono coloro che si collocano in basso, che sanno mettersi sullo stesso piano degli umili della terra, che 'guardano l'erba dalla parte delle radici' e si accompagnano ai sofferenti e agli affaticati, condividendo e operando dal di dentro dei popoli.
Non hanno pretese per sé e sono disponibili sempre ad ascoltare le ragioni degli altri.
Scelgono e sono in grado di assumere le loro responsabilità di uomini e sull'umanità, senza ostentazioni, fattivamente.
Sanno infatti sacrificarsi per il bene di tutti; anzi, accettano di essere sconfitti nei propri diritti, perché prevalgono quelli di chi conta meno, di chi non ha voce per farsi sentire, di chi è ai margini della strada.
La mitezza non è qualcosa di astratto e nemmeno una predisposizione del carattere o un sentimento: è un atteggiamento concreto e forte, una scelta di vita, una logica cambiata, una volontà di com-passione su cui si radicano gesti ben precisi, capaci di spezzare ogni pane con ogni affamato.
Il mite è la persona della fermezza perché si fida di Dio e vi si affida - indipendentemente dalle etichette -, che ha penetrato in modo talmente profondo le proprie ragioni di vivere, da non lasciarsi scalfire né sopraffare dalle mentalità correnti e calcolate.
È un uomo che 'ben conosce il patire' ( Is 53,1-12 ), che non si stanca di fare il bene ( Gal 6,9 ), anzi è desideroso di vincere il male con il bene.
Punta tutto su questo.
Sintetizzando, si potrebbe dire che i miti sono i buoni ( parola oggi desueta ), che si pongono nella vita appunto con bontà, cioè valorizzando in sé e negli altri ( in tutti gli altri, anche quelli che non ci piacciono o vorremmo confinare ai margini del nostro interesse con infinite giustificazioni ) le qualità positive 'altruiste' ( quelle che non si concentrano sull'io e i suoi egoismi, ma su ciò che accomuna, affratella ), perché credono fermamente che la verità si realizza nell'incontro.
Altrimenti è effimera, vaga, lontana, cristallizzata.
I miti sono privi di odio, violenza, invidia, risentimento, vendetta, asprezza, maldicenza, ricatto.
Rifiutano il potere, la cattiveria, l'utilitarismo, la logica di ogni profitto.
Stanno dalla parte di chi soffre, di chi è oppresso, di chi patisce ingiustizia, e lavorano con loro con fiducia, bontà, condivisione, energia.
Sono coloro che si ritengono donati alla vita e quindi vivono per essere dono, per dare gioia, non creare problemi, ma alleggerire dalle complicazioni per ricondursi e ricondurre alla semplicità dell'essenziale.
Sono il lievito che fa fermentare la pasta, scomparendo, senza esibizioni e riconoscimenti.
Coloro che sono presenti alla storia e nella storia con gratuità e profezia.
Coloro che non si lamentano, ma sorridono e comprendono.
Che resistono ed operano.
Senza tante parole.
Delineando i miti, vengono in mente le parole di Ernesto « Che » Guevara, che mi sembrano particolarmente esplicative della forza interiore e della sensibilità che connotano la persona mite: « Bisogna essere tenaci, resistenti, solidi.
Bisogna indurirsi senza mai rinunciare alla propria tenerezza ».
Oppure Bonhoeffer di Resistenza e resa.
Ovviamente è inevitabile la domanda se oggi, in questo nostro mondo così disumano, vi sia posto per la mitezza e a che cosa possono servire i miti se non ad essere sconfitti.
Oggi, in cui sembrano e sono tramontati i punti di riferimento, i criteri di valore, il senso della storia e dell'appartenenza alla comune umanità.
In cui sembrano prevalere e prevalgono le logiche di distruzione, di ferocia, di spietatezza, di disgregazione, di calcolo diabolico; in cui la distanza tra ricchi e poveri è un abisso, e i ricchi sono e vogliono essere più ricchi e i poveri sono sempre più poveri.
Vige la legge della sopravvivenza del più forte, della selezione della giungla - mors tua vita mea -, dell'asservimento più bieco e spudorato al denaro, la grande bestia, il mostro inesausto; e sempre più numerose sono le affermazioni di una notte etica senza precedenti.
Vengono polverizzati a livello minimale e banalizzati attraverso l'immaginario collettivo il pensiero, la cultura, la criticità, la responsabilità, la libertà, il rispetto dell'altro, in favore dell'apparenza, dell'ignoranza, della mentalità del quiz e del premio, proposti e conquistati con faciloneria e dispregio delle più elementari cognizioni, dell'ultima notizia che smentisce la precedente, degli scandalismi e della rissosità; comunque, dell'accumulo e del rumore.
Si tende a sfregiare tutto, a sfruttare tutto, a degradare tutto.
Si sradicano le fedi e si uccidono le speranze, nell'appiattimento generale.
L'urlo sostituisce la parola.
Che posto hanno i miti in questo tipo di società?
Come si possono connotare oggi?
Mi pare che in un mondo dissennato e crudele come il nostro, i miti debbano configurarsi con queste caratteristiche:
- L'umanità: i miti sono 'umani', nel significato intenso e molteplice del termine; sentono cioè di essere parte di tutta l'umanità, non di un settore privilegiato, e quindi soffrono, faticano, gioiscono, si umiliano, sperano delle sofferenze, fatiche, gioie, umiliazioni, speranze degli uomini di tutto il mondo.
Questa comune umanità, che costituisce la base di una effettiva uguaglianza nelle differenze, la ragione di un'equa spartizione delle risorse, il rispetto della propria dignità e della propria storia, del cui valore ci si arricchisce reciprocamente, va compartecipata e comunicata a tutti i livelli.
I miti sono 'umani' anche nel senso di privilegiare e qualificare le facoltà positive di ogni persona: il conoscere, il pensare, il sentire, l'essere interdipendenti, l'amore, la creatività, il piacere come libera espansione della gioia, la libertà consapevole, la solidarietà, perché divengano possesso di ciascuno e quindi siano al centro di ogni attenzione educativa e formativa, a partire dai diseredati e dai frodati del mondo ( su ogni scala: geografica, sociale, cittadina, di quartiere, in famiglia, a scuola ).
I miti hanno occhi universali.
Si sentono parte del villaggio globale.
Non favoriscono l'omologazione, ma il riconoscimento delle specificità nella comune umanità.
Sono 'umani', anche come carica di umanità: quante volte siamo funzionari e burocrati della vita e della fede!
I miti invece sono coloro che si emozionano, che si coinvolgono, che provano simpatia e commozione, e non si sentono ostili ed estranei o distanti a nessuno.
Sono persone che vibrano e lasciano trapelare questa loro sensibilità partecipativa.
Che sanno piangere e sorridere non per se stessi o su se stessi, ma per gli altri e con gli altri.
Gente dal cuore ospitale ed allargato. Che si commuove. Come Gesù.
- La non-violenza: quanto più ottusa e dilagante è la violenza, i miti vi si oppongono con tenacia e fermezza, non con armi di morte, ma con le risorse della vita.
La non-violenza infatti è semplicemente rifiutare gesti e pensieri violenti ( dettati cioè dall'odio, dalla vendetta, dalla frustrazione, dall'imitazione ), ma operare in modo alternativo, inventare strategie flessibili ed adeguate, per sradicare le radici del vivere violento, cominciando dal quotidiano e dalle piccole cose, di cui ci si assume la responsabilità personalmente, a partire dal minimo che è nelle possibilità di ciascuno.
Pensiamo alle innumerevoli possibilità a portata di tutti contro la violenza, ad esempio, dei bisogni indotti, dei consumi, dello spreco, delle comodità, dell'inquinamento, delle mode, dell'inciviltà, del linguaggio …
E questo è solo un primo passo.
I miti infatti non si accontentano di operare negli ambiti della propria vita abituale, ma vanno a cercare le ferite dell'uomo per ungerle con olio e vino ( Mc 6,13; Lc 10 ), in duplice senso, sia rimanendo a contatto con i colpiti dalla brutalità della violenza, sia riversando nei luoghi consueti del proprio vivere ( famiglia, lavoro, incontri ) questa presenza ferita dell'umanità, in modo da creare una nuova mentalità del guardare, com-patire, intervenire, decentrando il proprio io e facendo spazio in sé al soffrire causato dall'ingiustizia, dall'egoismo e dall'arroganza degli abitanti delle torri d'avorio.
Che spesso siamo anche noi.
Direi anche che l'essere non-violenti nel mondo occidentale è dovuto come un risarcimento, una restituzione e una sincera richiesta di perdono per tutta la prevaricazione crudele e massacrante con cui l'occidente si è imposto in tutti questi secoli anche sotto il nome cristiano.
Quindi è una questione di particolare responsabilità - recuperata nell'umiltà e nell'esigenza di essere perdonati che noi come occidentali abbiamo nei confronti del mondo.
- L'armonia: i miti sono le persone dell'armonia, nel senso che continuamente, instancabilmente, riannodano i fili spezzati, leggeri e spesso invisibili, delle relazioni, ricostruiscono trame slabbrate, seminano campi devastati, riconciliano, abbattono muri e macigni di divisione, recuperano a livelli diversi e più profondi situazioni compromesse, risvegliano e alimentano fiducia e speranza; non si danno per vinti nell'agire per spianare le asperità e intrecciare dialoghi di convivenza.
Hanno il senso dell'armonizzarsi e dell'armonizzare.
Che non vuole dire adattarsi, rassegnarsi alle apparenze, ma capacità di scavare per rintracciare nel pronfondo linfe vitali inimmaginabili, per scoprire la segreta armonia delle cose, l'accordo, la bellezza, la poesia, la danza e la gratuità, le infinite e reali possibilità d'intesa - se pure latenti e invisibili - tra persona e persona, tra popolo e popolo, tra umanità e universo, tra uomo e Dio.
Percepire il proprio battito, il proprio tono, la nota da suonare insieme a tutte le altre nel concerto infinito della vita, nella sinfonia di una pienezza e di un amore capace di riflettere l'infinito splendore di Dio.
I miti sono le persone dell'utopia, dello sperare ad oltranza, del credere che questa speranza è possibile, perché si fonda su gesti e segni poveri, semplici, essenziali; sono coloro che capiscono che gli uomini per uscire dalla palude dei propri insabbiamenti e della propria cattiveria, devono alzare lo sguardo sui vasti orizzonti e scommettere sui valori gratuiti, per riassaporare il gusto di vivere con un significato importante e di far parte di un'armonia universale, non di una disgregazione dissodante.
Certo, se ci limitiamo ad osservare la vita e la società come fenomeni, dobbiamo dire che per i miti, gente disarmata e disarmante, non c'è posto oggi; né il mondo di oggi accetterebbe di essere messo in scacco da persone così.
Il mondo attuale è complesso e complicato, anzi aggrovigliato sempre più in trame di morte, e, pur registrando un profilo debole, uno sbriciolamento del suo tessuto di civiltà e una svalutazione dell'uomo, è in fase di transizione, nebuloso, disorientato, dissacrante sì, ma smarrito fondamentalmente.
I miti hanno il compito di non fuggire, di restare incarnati in questa storia e di continuare ad immettere e far circolare con la loro presenza e con la loro vita la fiducia che la gioia, la felicità è possibile, che la pace si può modellare con le mani di ciascuno, che la speranza non è un sogno, ma la molla che da scatto e slancio al nostro agire; che l'amore è realizzabile.
Ora, subito, dal di dentro dei cuori e delle situazioni.
Bisogna mettersi insieme a crederlo.
E lo si può credere perché Gesù ha fatto così.
E perché ci ha garantito che non ci lascerà soli, ma sarà con noi sino alla fine del mondo.
I miti perciò, sono coloro che non crollano nonostante le tempeste e le sconfitte, nonostante la denuncia del silenzio e dell'assenza di Dio; come Giobbe, come i profeti, come Gesù.
La fermezza è la loro forza interiore, che si appoggia su una fiducia incondizionata.
Sono coloro che parlano non di Dio, ma a Dio, anche per discutere con Lui e ribellarsi del suo silenzio e della sua apparente indifferenza ai mali del mondo, alle ingiustizie e ai massacri, ma tenendolo sempre come interlocutore; e con gli uomini parlano il linguaggio dell'amore, gratuito ed intenso, senza calcolo e senza prudenze umane, ma tale da offrire tenerezza, comprensione, solidarietà, condivisione.
Per questo occorre coraggio; un coraggio smisurato: il coraggio della conversione, il coraggio della testimonianza della resurrezione.
Il coraggio di essere vivi, nonostante tutti gli attentati e sollecitazioni di morte.
Coraggio che segue questi percorsi, che assume queste notazioni:
Il coraggio di cambiare: che non significa genericamente fare dei gesti anticonformisti, ma agire diversamente per delle ragioni precise, secondo la prospettiva dell'uomo da ricostruire e la logica dell'amore, che risana, capisce, perdona, cammina.
Che significa voler porre al centro delle nostre fragilità, contraddizioni, confusioni, perplessità, una fede forte, che si lascia investire dalla forza di Dio ( Paolo ), totalmente, radicalmente.
Che continuamente chiede perdono, ma continuamente è in cammino, come sale sulla terra, come lievito, come luce, come vicinanza.
La capacità di cambiare giudizio, schemi; la capacità di relativizzare; la tendenza e tensione a cercare di vedere sempre più con gli occhi di Dio, di amare il cuore di Dio.
Di uscire dalla mentalità di possesso, di dominio, di accentramento, di calcolo, di grettezza, che si annida nelle nostre relazioni quotidiane e che ci trattiene dall'essere pienamente dati.
Di cambiare le cose e le situazioni di cui ci occupiamo e siamo responsabili direttamente, orientandole ad una libertà vera e ad una essenzialità motivata.
Di cambiare il cuore, perché sia largo, generoso, disponibile, antirazzista.
Il mondo d'oggi e noi, abbiamo bisogno di riscoprire e vivere l'alternativa dei valori gratuiti, che non si percepiscono attraverso la luce artificiale e uniforme delle certezze dogmatiche e delle convenienze pilotate, ma attraverso un cambio di rotta, un approfondimento, un essere luminosi totalmente come scintille vive, che traducono in esperienza calda e ravvicinata il loro credere, il loro fidarsi.
Cambiare il punto di osservazione della vita e del mondo, capovolgendo la propria posizione e ridefinendo tracciati per una giustizia a partire da chi veramente subisce l'ingiustizia antiumana, per una cultura a partire da chi è ignorante dell'essenziale, per una misericordia a partire da chi è emarginato, per una libertà a partire da chi è oppresso, per un diritto alla vita e ad una vita 'umana' a partire da chi subisce come popolo e come singolo l'attentato dell'eliminazione e della morte indiscriminata e anonima.
Ciascuno - se non si lascia toccare dal Signore, che è « il » mite capace di commuoversi sulla gente e con la gente - può trasformarsi da essere opaco e fumoso a scintilla viva.
Il mite del Vangelo, cioè il credente, il discepolo, il testimone del Risorto, non può venir meno a questa vocazione.
- Il coraggio di guardare: cioè di non distogliere losguardo dalle realtà crude, da quelle che non ti piacciono e ti ripugnano, dalle realtà dolenti e raccapriccianti, disumane.
Fissarle, perché facciano parte del tuo mondo, perché scuotano la coscienza, perché non si rimanga impassibili o indifferenti.
Guardarle in faccia per impararne il nome, anche se brucia sulle labbra e disturba i cantucci delle tue raggiunte comodità.
Ci vuole coraggio per stare dentro la storia e interpretarla, dando nome a oppressi e oppressori ( ricordiamo Brecht? ) e collocandosi dalla parte giusta, dei miti del Signore, per guardarla con gli occhi della compassione e della giustizia e maneggiarla con intelligenza e cuore.
I miti sono convinti di essere alla vita non per lasciare il mondo così com'è, ma per agire dal di dentro, senza privilegi, tenacemente, inesauribilmente, seminando bontà.
Coraggio di guardare, che vuoi dire coraggio e scelta di essere svegli, in piedi, per camminare e accompagnarsi a chi s'avvia o procede con fatica, rimane indietro, inciampa, cade, viene escluso, ferito, isolato, imprigionato, ucciso.
Vuoi dire anche vigilare, nel senso di essere attenti e sensibili, capaci di prevedere e solleciti nel prevenire, nell'affrontare le cause.
I miti sono coloro che, guardandoli e chiamandoli per nome, indicano i sassi, gli inciampi; che prendono per mano, se occorre; che rassicurano; che procedono senza diffidenze e invidie, perché la loro interiorità è poggiata in Dio 'come un bambino svezzato in braccio alla madre'.
Il coraggio di guardare oltre i tumulti e le tempeste per scorgere e far affiorare una realtà pacificata, l'armonia segreta del mondo, il desiderio - spesso represso e camuffato - di una felicità vera del vivere e del con-vivere.
Coraggio di guardare anche se stessi nella propria umiltà, resa grande nell'ottica dell'amore di Dio che agisce nella profondità di ciascuno.
- Il coraggio di salvare: i miti, come i misericordiosi, gli operatori di pace, i poveri, i puri - in cui si rispecchia il modo di Dio di entrare nell'umanità e di coinvolgersi nella storia umana - si rendono conto di essere in un processo simultaneo di salvati e salvatori, liberati e liberanti, in cammino e in ricerca.
Gli uomini sono chiamati a salvezza, che di solito - nell'accezione comune religiosa e laica - si interpreta individualisticamente.
Mi sembra invece significativo, nella riflessione sui miti della terra, che la salvezza è per tutta l'umanità e che siamo interpellati a salvare e a salvarci insieme.
Forse siamo abituati a considerare la salvezza in termini esclusivamente spiritualistici e moralistici o addirittura pensiamo che sia qualcosa di superato e di anacronistico o di astratto, metafisico, che non ci tocca da vicino.
E intanto il mondo sprofonda e si relegano nell'oblio le memorie umane più importanti ( cf. P. Levi, I sommersi e i salvati ).
Bisogna invece recuperare il senso del salvare, cioè di uno stare bene, di un liberare ed essere liberati da ingiustizia, bisogni e oppressioni, di una gioia possibile, lottando contro le angosce e lo sconfinato soffrire; così come faceva Gesù che andava e passava tra la gente guarendo dal male e dai malati, riabilitando le persone nella loro interezza, facendo il bene e restituendo a tutti il diritto e la possibilità di essere felici.
Concretamente, qui, sulla terra. Insieme.
I miti si collocano su questa scia, costantemente impegnati ad imparare da Lui a 'rifare' nuovo il mondo, portando e comunicando salvezza.
Senza clamore, ma con limpidezza e determinazione.
Infine, i miti sono felici ( 'beati i miti' ) perché 'erediteranno la terra'.
Se è vero che il contesto ebraico in cui si muove Gesù, che è ebreo, intende la terra promessa o, se vogliamo, nella visione evangelica, il regno dei cieli, e quindi la realizzazione delle promesse di Dio, questa espressione può essere letta anche in chiave di mondo, pianeta, terra nella sua materialità, come luogo, habitat degli uomini.
I miti erediteranno la terra, perché se ne sono fatti carico ed operano in essa affinché si ricostituisca l'armonia iniziale, il progetto originario di Dio sull'universo, in cui ciascuna realtà creata e ciascun essere vivente conviva in una pace e in uno scambio reciproco, con la possibilità di crescere e svilupparsi senza danneggiare nessun altro, con autonomia e interdipendenza consapevole nella propria pienezza di identità e di relazione, nel rispetto l'uno dell'altro e nella condivisione.
I miti sono eredi della terra, nel senso che ne sono le persone abilitate, in quanto hanno capito che lavorare in questa linea e per questa armonia anticipa la pienezza dei tempi, quando storia ed escatologia coincideranno, il lupo e l'agnello dimoreranno insieme ( Is 11,1-10 ), un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra, anzi forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci ( Is 2,1-5 ); quando non vi saranno più né pianto né lacrime.
Sono coloro che accettano di far parte di questo cammino, collocando come indicazioni segni poveri e umili, ma saldamente conficcati nel cuore del mondo, senza preoccuparsi di arrivare a mete più o meno prestigiose, ma mescolandosi sempre ai profughi e agli esuli della vita per lenire e dissetare anche con un solo sorso, per ungere e accarezzare le smisurate piaghe dell'umanità.
Facendo propria la preghiera di Davide Turoldo: « Salva la tua creatura, Signore l'uomo che porta l'immagine tua: uomini schiavi, oppressi, malati, uomini senza nessuna speranza, turbe di Lazzari intorno ai palazzi, morenti a turbe in mezzo ai deserti … Salva la tua creatura, Signore ».
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