Solitudine - Nell'esperienza degli Istituti Secolari |
di Mariella Malaspina
Il mondo appare oggi come un piccolo villaggio, in cui ciò che avviene ( ma in genere, solo il male e le sciagure o quello che ha qualche attinenza con l'ambito scintillante dello spettacolo perché il bene - ahimè - non fa notizia! ) viene conosciuto in tempo reale, è comunicato e comunicabile, diventa quasi tangibile.
I mezzi di comunicazione di massa, infatti, hanno raggiunto uno sviluppo prodigioso, la nostra società crea infinite possibilità di incontro e di scambio, ma produce anche forme nuove e tremende di solitudine e di alienazione: si moltiplicano le tendenze centrifughe e separatiste, cresce l'individualismo, si fa strada la mentalità concorrenziale, che concepisce gli altri come una minaccia.
Psicologicamente, si avvertono due tensioni tra loro contrapposte, ma compresenti: il bisogno di comunicare e relazionarsi agli altri, ma nel contempo la diffidenza e la chiusura nei confronti di chi ci sta intorno.
« Nel codice genetico delle grandi civiltà occidentali - scriveva nell'ottobre 1994 un noto giornalista, Giuliano Zincone - c'è la voglia di amore e di felicità, ma è rimasta anche la voglia di paura ».
Scopriamo in noi la nostalgia e il desiderio di una vita « a misura d'uomo » pur sentendoci cittadini del mondo, ma anche nutriamo sospetto o ci sentiamo indifferenti nei confronti di quanti ci vivono attorno.
Eppure, abbiamo coscienza che non si cresce nella propria identità separandosi, ma ponendosi in relazione.
I punti di riferimento e le appartenenze si moltiplicano, ma sono tutti percepiti come temporanei, non definitivi né stabili: ci manca sempre il tempo, soprattutto per stringere e coltivare le amicizie.
Così, avvertiamo una sensazione di precarietà e di incertezza.
Perfino nella vita spirituale si rischia di fare un accumulo di esperienze senza riuscire a trovare in nessuna di esse la propria interiorità profonda.
Né la vita con il suo incanto e le sue meraviglie né il cuore con i suoi misteri arrivano più a suscitare stupore.
Siamo sospinti sempre più prepotentemente a confrontarci solo con noi stessi, con i nostri bisogni ed interessi, senza rapportarci agli altri.
Nell'attuale imperante cultura dell'efficienza, del successo, dell'effimero, del piacere, dell'apparenza ci fermiamo alla superficie e all'illusione, e questo crea nell'animo un enorme vuoto.
Viviamo, è vero, in un clima di pluralismo religioso, culturale, ora anche etnico, ma ciò da una parte spinge ad abbattere le barriere della rigidità e dell'arroccamento, mentre dall'altra rischia di portare alla rinuncia di qualunque criterio di discernimento.
Nell'immensa solitudine a cui la vita frenetica, il progresso e perfino l'architettura e l'urbanistica contemporanea costringono l'uomo moderno, egli non sa più stare da solo né sopporta il silenzio; ha paura di trovarsi isolato e quindi cerca nervosamente la folla, immergendosi nel frastuono e nei rumori di ogni tipo.
Questa apparente soluzione, ovviamente, non aiuta ad uscire dalla solitudine; anzi, contribuisce a creare un individualismo di massa con miti, ritmi e riti suoi propri ( incontri mondani e vacui, che sono tutto fuorché « incontri »; divertimenti che stordiscono e fanno evadere, ma non rigenerano; turismo quasi ossessivo che rischia di divenire una fuga o uno status-symbol; grandi assembramenti di carattere sportivo o musicale, che finiscono per rivelarsi manifestazioni di scomposta e talora criminale tifoseria o di scarso senso estetico ).
La solitudine, allora, pare essere - soprattutto oggi - una situazione esistenziale, una costante ineliminabile dalla vita di chiunque, anzi dalla stessa condizione umana.
Si può tentare di sfuggire ad essa, ma risulta vano il tentativo di fuggire da sé.
« Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera »: così si è espresso uno dei massimi poeti contemporanei, Salvatore Quasimodo, per descrivere questa componente fondamentale dell'esperienza umana di ogni tempo.
Tuttavia, nella società in cui viviamo, essa è troppo spesso frutto e prodotto dell'abbandono, dell'incomprensione, dell'isolamento e del rifiuto altrui, tanto da essere definita « uno degli aspetti del non-senso della nostra epoca ».
Come tutte le realtà umane, però, la solitudine ha prospettive e sfaccettature differenti: può essere considerata nella sua dimensione psicologica ( isolamento spaziale, separazione affettiva, emarginazione sociale e culturale ) oppure con l'ottica filosofica o teologica oppure ancora con un taglio sociologico.
Bonhoeffer e Fromm, in questo senso, affermano che solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non schiaccia, non opprime, ma è vita e produce vita.
Quando poi essa diviene raccoglimento e silenzio, costituisce il contesto basilare per la creatività e per la realizzazione personale, anzi addirittura del rapporto con Dio.
Il suo significato, perciò, non appare per nulla chiaro ed univoco, e talora assume perfino aspetti e valenze contrastanti.
Esiste, infatti, una solitudine positiva, operosa, ricca di attese e di speranza, che è comunione capace di aprirsi alla relazione e alla pienezza, di interrogarsi, ascoltare e scoprire il progetto di Dio sulla propria vita; senza di essa, l'essere umano risulta sbilanciato, finendo per perdere il suo equilibrio fisico, morale e spirituale.
Ma c'è anche la solitudine negativa, descritta già nel libro del Qoelet, che è isolamento, chiusura in se stessi, emarginazione, vuoto, indifferenza di fronte ai problemi dei propri simili.
È, dunque, una condizione esistenziale ambivalente, che può trasformarsi in una tormentosa ossessione, sofferta e subita per lo più temporaneamente perché dovuta all'età o ad una particolare situazione di vita ( malattia, anzianità, disoccupazione, abbandono, indifferenza, morte di persone care ), ma può anche essere accettata o addirittura scelta, quale atteggiamento e dimensione interiore, gioiosamente liberante.
Biblicamente questa ambivalenza è emblematizzata dal deserto: luogo della sterilità, della separazione e dell'esilio, ma anche dell'incontro con Dio e della Sua rivelazione.
Essere soli significa essere indifesi e incapaci di penetrare attivamente nel mondo che ci circonda.
Noi vorremmo agire, siamo portati ad operare, facciamo progetti, desideriamo essere di aiuto agli altri.
Però vengono per ciascuno dei periodi in cui siamo prevalentemente oggetto di azioni altrui.
Ci sono persino singoli momenti in cui sembra che l'una o l'altra fase dominino.
In effetti, l'attività e la passività - che è una forma di solitudine - coesistono ogni giorno, perché noi stessi siamo una insondabile e misteriosa mescolanza di attività e passività.
Alcuni bisogni sociali, come quello di comunicare, di stringere amicizia e di contare su un'appartenenza sicura sono universali, perché innati nell'uomo ed integranti della sua costituzione.
Questi bisogni, tuttavia, vengono influenzati, attenuati o accresciuti dal contesto culturale, ma soprattutto dalle attese e percezioni personali riguardanti sia la quantità sia, e in misura prevalente, la qualità delle relazioni che instauriamo con chi ci circonda.
Si vede con chiarezza, oggi, che il fenomeno della solitudine non è circoscritto a situazioni-limite o comunque eccezionali, ma è complesso, vario e diffuso.
Un sondaggio statistico ha dimostrato che circa un quarto della popolazione sperimenta, in qualche fase della sua esistenza o in qualche periodo dell'anno, un'estrema solitudine.
Ne è persino derivato un vero e proprio sfruttamento economico di tale fenomeno, attraverso la costituzione di club, centri, linee telefoniche, manuali ed altro ancora.
Le percezioni soggettive, però, non sono sempre realistiche e provocano conseguenti delusioni e frustrazioni immotivate: spesso la sensazione di solitudine non dipende da quanti contatti interpersonali abbiamo, ma da quanti pensiamo che dovremmo averne.
Persino l'essere a noi più familiare resta impenetrabile e misterioso nella sua interiorità profonda.
C'è poi una forma di solitudine psicologica connessa con la stessa condizione dell'uomo come essere sociale: si tratta del sentimento di invidia che, sotto aspetti più o meno manifesti ed espressi, arrivando fino al risentimento e all'odio, sta alla radice di tante divisioni nella società, ovunque gli uomini lavorino o vivano insieme.
È, questo, un sentimento che ci fa scoprire soli quando ne diventiamo oggetto ( e a tutti è capitato o capita! ), ma che anche, quando siamo noi ad avvertirlo nei confronti degli altri, ci isola da loro, mostrandocene solo i lati negativi.
In fondo, è il cuore stesso dell'uomo, di tutti noi, che alimenta atteggiamenti divisivi e distruttivi.
Da tale disarmonia e scollamento della nostra coscienza deriva la chiusura di ciascuno nel proprio interesse o nel piccolo gruppo dagli orizzonti ristretti, facile a dissolversi non appena intervengano nuove polarizzazioni all'interno sia della collettività civile e sociale sia della comunità ecclesiale, percorse tutte da divisioni di mentalità e di cultura.
In noi stessi, dunque, è la dispersione: siamo tirati, sollecitati, dilaniati da mille cose; ci sentiamo come un coacervo di « pezzi »; ci sembra di naufragare in una immensa solitudine, che oggi è soprattutto un fatto interiore e psicologico, prima di essere un dato materiale riferito a condizioni e stati di vita.
Molti giovani, ad esempio, affermano di essere soli anche se godono di affetto e di ogni risorsa.
Essi avvertono un vuoto esistenziale perché mancano di relazioni significative, di obiettivi sicuri o dei mezzi per raggiungerli.
La situazione attuale è anche in gran parte il frutto di uno sconfinato spirito di competizione.
Una sana competitività può essere una molla preziosa a dare il meglio di sé, ma quando la concorrenzialità è portata all'eccesso fino a divenire aggressiva e distruttiva, allora provoca lacerazione e dà l'impressione di vivere in un mondo dove si è disposti a qualunque compromesso pur di « restare a galla » e di emergere.
Esiste anche una solitudine di fronte alla missione: talvolta, quando ci sembra di averla scoperta, quando abbiamo trovato le persone con cui è possibile collaborare, tutto pare mutare e complicarsi, costringendoci a cambiare ottica e mentalità e a sintonizzarci su un'altra lunghezza d'onda.
Allora, noi ci sentiamo inutili, svuotati, soli con le nostre debolezze, fragilità, speranze perdute.
Anche l'uomo Gesù volle sperimentare questa condizione di angoscia estrema dopo aver provato la separazione dalla madre e dagli affetti, l'allontanamento dalla casa, il rifiuto e l'espulsione dalla sua gente e da chi viveva nel suo stesso villaggio, l'indifferenza di coloro cui prodigava benefici, l'abbandono degli amici, la falsa accusa di testimoni interessati e corrotti, il tradimento e l'incomprensione dei più intimi seguaci, perfino il silenzio di Dio: « L'anima mia è triste fino alla morte » ( Mc 14,34 ).
Qualche volta, dopo che abbiamo alimentato in noi l'illusione di contare qualcosa, sia pur nel piccolo ambito di nostra competenza, ci accorgiamo che « non ce la facciamo più »: ci siamo buttati generosamente nel nostro impegno fino a presumere di essere noi a sostenerlo, ma dobbiamo penosamente constatare di aver bisogno di molti altri.
Questa solitudine, derivante dalla nostra incapacità ed inadeguatezza di fronte alla missione, è una prova tanto più dolorosa quanto più forte è la consapevolezza di lavorare con tutte le energie per la realizzazione del progetto di Dio.
Esiste, inoltre, il senso di solitudine nel discernimento dei segni dei tempi.
L'evolversi delle situazioni e delle mentalità, così come il trasformarsi delle culture, ha assunto una accelerazione incontrollabile.
La Parola di Dio e persino i valori di fondo che, fino a qualche decennio fa, erano rimasti come pilastri indistruttibili, richiedono oggi mediazioni culturali nuove e adatte.
Ma come riconoscere i veri « segni dei tempi », in mezzo alle molteplici interpretazioni che se ne danno?
Quando si è oggetto di derisione, quando ci si accorge di essere esposti ad una forma di sottile persecuzione perché non si segue la mentalità corrente di tipo paganeggiante, quando attorno a noi domina una grande confusione culturale, nella quale parole, valori e significati perdono il loro senso, allora ci si scopre più che mai soli, estranei al contesto, lontani dalla falsa sicurezza dell'opinione comune, sospinti a non fermarci e a non accontentarci di ciò che abbiamo già fatto e che siamo e ad uscire da noi.
Siamo allora tentati di reagire come Geremia, lamentandoci, e di lasciare spazio ad una domanda insidiosa: perché a me tocca di rendermi conto di questo stato di cose, mentre altri non vedono e non sentono e stanno in pace?
Invece occorre vedere, capire, anche se ciò comporta sofferenza.
Ma a questo punto non possiamo più contare su nessuno, neanche su noi stessi: la nostra solitudine si è fatta distacco, povertà e pace con la parte di noi limitata e imperfetta e si è trasformata in un vuoto che solo Dio può riempire.
Anche qui Gesù ci è di guida: lotta contro la solitudine e la disperazione, rientrando nel silenzio e rivolgendosi al Padre con una preghiera insistente.
Il bisogno di superare l'isolamento è profondo e radicato nell'uomo.
In qualunque età e civiltà l'essere umano ha dovuto confrontarsi con un eterno problema: come rompere la prigione della solitudine e raggiungere un'autentica comunione con gli altri.
I tentativi di soluzione possono essere vari: dalla lussuria sfrenata alla rinuncia ascetica, dal lavoro intenso alla creazione artistica, all'amore per Dio e per l'uomo.
Anche il conformismo e la massificazione sono una alternativa; sia pur poco responsabile e matura, contro la paura e l'ansia di fronte alla diversità, quindi alla solitudine che ne consegue.
Ecco qui la radice dell'uniformità sottostante allo sfrenato individualismo odierno: si scelgono i medesimi divertimenti, si coltivano gli stessi miti, si hanno gusti omologati.
Ma la routine, sia essa del lavoro o del piacere, è insufficiente ed incapace di placare l'ansia.
Allora, la prima ed immediata reazione è lo scoraggiamento: in fondo - siamo tentati di dire - non possiamo farci niente, la realtà storica ci supera, non resta che adattarci alla meglio, facendo buon viso a cattivo gioco e creandoci una piccola isola culturale che finisce per trasformarsi in gruppo psicologico.
L'unico modo per superare il senso di isolamento e di separazione senza perdere la propria integrità, è di essere fermamente convinti di poter trascendere la solitudine subita o colpevole per tendere alla solitudine positiva, che è invece strumento di autopromozione, di crescita interiore e di liberazione da condizionamenti ambientali ed esterni.
Senza tempi di solitudine l'uomo rischia di dissipare la propria umanità, di pronunciare parole non-pensate, e quindi soltanto « parlate » e non « parlanti », secondo una famosa e centrata espressione di Mérleau-Ponty.
Anche nella cultura classica è presente e radicata questa visione della solitudine come alternativa contrapposta ai contatti con gli altri uomini, visti come un fatto negativo.
Moltissime potrebbero essere le citazioni al riguardo.
Mi piace, almeno, riportare qui un'affermazione di L. Anneo Seneca, scrittore e filosofo del I sec. d.C., per il quale fu addirittura, anche se erroneamente, ipotizzata una relazione epistolare con san Paolo.
Egli scrive all'amico Lucilie ( Ep. VII ): « Avarior redeo, ambitiosior, immo vero crudelior et inhumanior quia inter homines fui », cioè « Torno a casa più avido, più ambizioso, anzi addirittura più crudele e disumano per il fatto che sono stato in mezzo agli uomini ».
Così questo grande ingegno antico.
Ma anche noi capiamo bene che la solitudine è essenziale per la vita spirituale in senso lato, soprattutto quando sono in gioco le opzioni più decisive dello spirito umano.
Se vogliamo superare anche solo i condizionamenti che ci vengono dall'essere nati e vissuti in una certa famiglia, in un determinato ambiente dotato di una sua particolare cultura, e poter quindi esprimere e realizzare tutte le nostre potenzialità, dobbiamo imparare ad accettare quella che è stata definita « solitudine di condizione », cioè la nostra singola individualità, rinunciando almeno in parte alla sicurezza che proviene dal passato e dal contesto ambientale in cui viviamo.
Tanto più, allora, quando sono in gioco il pensiero originale ed autentico, il processo creativo, l'esperienza morale responsabile ed una vita interiore intensa.
La disponibilità al silenzio e ad una certa separazione interiore sono indispensabili per strutturarsi e completarsi.
Persino un fatto normale come il sonno ce lo dimostra: esso è una forma particolare di solitudine, in quanto il contatto con il mondo esterno viene temporaneamente sospeso ed è modello della pausa rigenerativa di energie fisiche e psichiche necessaria ad affrontare la vita.
Se viene a mancare questa pausa benefica, le funzioni mentali si alterano; così, se non lasciamo mai nelle nostre giornate spazi di silenzio e di raccoglimento interiore, non riusciamo a metterci in sintonia non solo con Dio, ma nemmeno con noi stessi e quindi con gli altri, e ne scapita la stessa qualità della nostra vita.
Se la solitudine fa paura, è perché provoca inevitabilmente un senso di vuoto e fa affiorare pensieri che talora ci risultano molesti e scomodi.
Eppure, è la condizione per riscoprire le motivazioni profonde di alcune scelte già attuate o per sentire risuonare dentro di noi la voce misteriosa, ma ben percepibile, della coscienza.
La vocazione sociale è propria dell'uomo e l'indole ecclesiale della vita umana è indubbia, tuttavia alla sorgente di entrambe sta il mistero della persona.
« Anche se vivo, decido e prego in una comunità di fratelli che mi sostiene e spiritualmente mi dilata, resto sempre io in definitiva a vivere, a correre il rischio della decisione, ad affrontare … la preghiera » ( C.M. Martini, La dimensione contemplativa della vita, p. 26 ).
Questa abitudine salutare a rientrare nella nostra interiorità, almeno di tanto in tanto, acuisce la capacità di avvertire ciò che non è superficiale, di cogliere il senso del nostro esistere, il bisogno di Dio e la responsabilità verso gli altri, di renderci conto dei nostri limiti ed errori, con la conseguente umiltà, ma anche la speranza dell'aiuto.
Tale angolo di solitudine, questo « silenzio che ascolta, che accoglie, che si lascia animare » ( Martini, Dimensione …, p. 19 ), può quindi benissimo non essere un luogo materiale.
« Tutti - diceva la grande mistica Caterina da Siena - possiamo avere dentro di noi una cella dove rimanere in contemplazione anche se siamo impegnati nell'azione ».
Cercare il silenzio perché si è portati ad isolarsi dagli altri, vivere disperatamente chiusi e ripiegati su di sé, pur in mezzo alla gente, abbiamo visto che è un atteggiamento negativo, in quanto ci si sente non capiti, delusi, frustrati o tentati di evadere dal presente con le sue difficoltà e di fuggire dalla realtà in una immaginaria ed illusoria autosufficienza.
D'altra parte, la solitudine positiva è un bisogno ed un valore fondamentale anche per l'uomo moderno.
Come distinguerle tra loro? Dai frutti: se, cioè, rientrando in noi stessi e nell'intimo del nostro cuore, troviamo Colui che ne è l'origine e l'aspirazione ultima e ci apriamo all'amore oppure, all'opposto, ci chiudiamo in noi e nel nostro egoismo.
Il deserto, emblema della solitudine, è il luogo della mancanza di mezzi, di certezza e di solidarietà, ma è anche il luogo della constatazione della propria debolezza e della ricerca di un incontro con Dio nel silenzio e nella preghiera: « La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore» proclama Osea 2,16.
È nella solitudine che avviene la scoperta della propria missione per il popolo di Israele e per alcune sue grandi figure: Abramo, Mosè, Elia, Samuele, Isaia, Geremia, Maria di Nazaret, il Battista, lo stesso Gesù.
Essa è occasione per l'individuazione dell'iniziativa divina sulla propria vita in una fase, che può durare anche a lungo, di apparente fallimento, di scacco o di abbandono da parte degli uomini dopo esperienze difficili.
Nella vita di Mosè e di Paolo, la solitudine piena della presenza di Dio è stata frutto prima di faticosa scoperta e accettazione e poi di una scelta stupita, ma consapevole e voluta.
Analogo fu il cammino dei più grandi santi: Agostino di Ippona, Francesco d'Assisi, Teresa d'Avila, Ignazio di Loyola.
Tutti erano soli quando avvertirono la voce di Dio chiamarli per nome.
E ciò perché la solitudine produce nel cuore dell'uomo quel silenzio e quel distacco dal contingente che sono la premessa per udire la voce di Dio ( Is 40,3: « Nel deserto aprite la via al Signore »; Lc 3,2: « La parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto » ).
Solo nella solitudine si attinge la profondità del nostro essere e la presenza dell'Essere supremo, che è « dentro di noi e ci aiuta ad andare oltre di noi » ( sant'Agostino ).
In essa l'uomo arriva a comprendere che niente lo soddisfa pienamente, che le sue esperienze non hanno corrisposto alle aspirazioni e che ogni speranza ha trovato una realizzazione solo parziale.
Resta nell'anima una grande nostalgia.
La vita tumultuosa e troppo impegnata che conduciamo non ci permette di coglierlo e toccarlo quasi con mano, perché è difficile scorgere Cristo in mezzo alla folla; tuttavia, è « nella solitudine che Dio si lascia vedere » ci ripete ancora il Vescovo di Ippona.
Infatti, quando sopraggiungono lo scacco e il fallimento o ci si sente stanchi, allora nasce la domanda sul senso di tutto il nostro agitarci e ci interroghiamo se veramente lo scopo delle nostre azioni sia stato il Regno di Dio o non, forse, il successo personale.
Quando i nostri sforzi e tentativi risultano vani, delusione, amarezza, dolore, perfino rabbia talvolta, montano dentro di noi e tracimano all'esterno, ma poi, a poco a poco, la contemplazione e lo spirito di preghiera emergono: all'orgogliosa sicurezza si sostituisce l'umiltà, ma anche la stupefacente scoperta che non siamo noi ad agire per Dio, bensì Egli ad interessarsi per primo a noi.
È vero che noi Lo cerchiamo, ma è ancor più vero che è Lui a cercare noi, là dove siamo, ad aspettarci con pazienza e fedeltà, senza sdegnarsi per la nostra vanagloria e la nostra pochezza.
La solitudine, allora, diventa processo di purificazione, manifestazione della debolezza nostra e della forza di Dio: ogni missione, piccola o grande che sia, non può trarre inizio se non da qui.
Nella Annotazione 20a degli Esercizi Spirituali, sant'Ignazio ricorda che quanto più un'anima si trova sola e distaccata da tutti gli affetti e preoccupazioni materiali, tanto più diventa capace di unirsi al suo Creatore e Signore, non per isolarsi, ma per tornare ad immergersi nel mondo scoprendo Dio che vive ed opera in esso.
La solitudine, allora, quando non genera abulia e passività, ma capacità di ascolto e dinamismo spirituale, è condizione esistenziale per chiunque voglia porsi alla sequela di Cristo: come per Lui, che saliva spesso solitario, all'alba, sulla montagna ( Mc 1,3; Lc 4,42; Lc 6,12; Lc 9,28 ) così anche per il cristiano essa deve essere un'esperienza non straordinaria, ma consueta ed ineliminabile.
Tuttavia, l'uomo « vecchio » che ha paura del silenzio e dell'insicurezza, e l'uomo « nuovo » solitamente convivono.
Anche lo stesso Gesù ha sofferto della precarietà della sua situazione: « … il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo » ( Mt 8,20 ).
Sul suo esempio, una vita evangelica è sfida alla tentazione ed aspirazione generale di costruirsi un angolo di comprensione e tranquillità.
Per questo, noi che ci sforziamo di seguire il Signore siamo soli e veniamo sovente considerati strani.
Tra gente che vive benissimo anche senza Gesù Cristo, noi andiamo contro corrente: affidati totalmente a Lui, poggiamo la nostra speranza solo sulla Parola di Dio ed osiamo affrontare l'incognita delle Sue vie imperscrutabili.
Indice |