Solitudine - Nell'esperienza degli Istituti Secolari |
di Adriana Luppi
Nella vocazione di una laicità consacrata, il progetto di vita contempla anche la solitudine.
Innanzitutto quella che ogni essere umano, prima o poi, sperimenta: persino chi gode di un'alta capacità relazionale e di un felice contesto familiare o di amicizie.
Si può pensare che il rischio dell'isolamento lo corra meno chi vive insieme agli altri, ma non è detto.
Ci si può sentire soli, ed esserlo di fatto, anche in mezzo a tanta gente.
Certo, specie col passare degli anni, incontra maggiormente la solitudine chi vive come singolo rispetto a chi è inserito nel nucleo familiare o in una comunità o divide la sua casa con qualche persona amica.
Vivere insieme agli altri in genere è di aiuto, perché risponde al nostro bisogno naturale di comunicazione e di sostegno reciproco.
Avere vicino qualche persona da sicurezza anche se la convivenza richiede poi sacrifici di altra natura.
Il rapporto con la solitudine si delinea quindi come un problema universale e perenne del vivere umano.
Il problema però si fa più acuto quando il costume di vita, creato dalla civiltà occidentale post-moderna ( in cui noi siamo immersi! ) sospinge all'individualismo e all'isolamento delle persone.
Ciò è determinato dalla ricerca dell'efficientismo, come massima affermazione di sé.
In questo tipo di società si è tutti così « impegnati e frettolosi » che può accadere di abitare da anni in un condominio senza conoscere le altre persone, che vi risiedono, e di essere, ad esempio, informati della morte di una di loro a funerali avvenuti.
Il ritmo di vita si fa sempre più incalzante negli ambienti professionali come in quelli familiari, ecclesiali e sociali; persino nelle attività del tempo libero, dedicate al volontariato!
Sembra che non resti spazio per quelle relazioni che permettono un dialogo spontaneo ed un vero incontro tra persone.
Quando ciò accade, lo si considera come un evento eccezionale, che ci colma di stupore e di gioia.
Ci si abitua a pensare che il rapporto con gli altri sia strettamente legato all'attività che si svolge nei vari ambiti, sembra cioè che sia « il fare » a metterci in relazione col prossimo.
Spesso si perde la percezione di quanto valga lo stare insieme e vivere il dono reciproco della nostra presenza, del nostro esserci.
Occorrono circostanze particolari perché ci si decida a fare una visita di semplice amicizia!
In genere, si corre … si corre … dietro alle tante cose da fare.
Poi … quando la malattia o l'incombere della vecchiaia arrestano la corsa, si soffre il disagio per il « vuoto relazionale ».
Si vorrebbero recuperare i rapporti amicali ma spesso si è trattenuti dal timore di disturbare: le persone non hanno tempo!
Facendosi sempre più scarsa la capacità o la disponibilità o la possibilità concreta di instaurare rapporti autentici con chi cammina al nostro fianco, rischiamo di vivere in parallelo, ciascuno sul proprio binario.
Questo quadro di vita è comune alla maggior parte della gente e può verificarsi in qualsiasi tipo di vocazione.
Resta il fatto che la solitudine è un fenomeno esistenziale sempre più diffuso.
Per saperlo affrontare occorre aver raggiunto quel livello di maturità umana, che si esprime nella capacità di autonomia.
Le situazioni difficili ( e tra queste vi è la solitudine ) si riesce ad affrontarle ed assumerle in positivo, cioè senza lasciarcene schiacciare, se c'è quel minimo di equilibrio psichico, che poggia sull'accettazione di sé.
La stima della propria persona consente di riconciliarsi coi limiti, che troviamo in noi e attorno a noi; mentre la certezza dell'amore ricevuto diviene forza propulsiva della capacità di amare, anche quando si resta soli.
Perché la solitudine non si traduca in isolamento sterile è necessaria, prima di tutto, una maturità affettiva capace di farsi dono.
La solitudine di tutti entra nel progetto di vita per una laicità consacrata anche in forza della condizione secolare, che implica come tale la condivisione delle comuni situazioni di vita della gente.
Oggi perciò si condividono, con tutti, quelle situazioni di precarietà così diffuse e che provocano un senso di smarrimento e di abbandono.
Ma nella scelta vocazionale, proposta dagli istituti secolari, la solitudine acquista una sua chiara specificità: per rispondere ad una « chiamata » si sceglie a priori di restare soli.
« Soli » senza compagno di vita e senza figli, perché si dà una priorità assoluta al Regno dei cieli.
« Soli » perché l'impegno per una povertà evangelica sospinge a privilegiare gli ultimi, restando spesso emarginati insieme a loro.
« Soli » perché l'obbedienza al Signore si fa criterio dell'agire e ciò porta, non di rado, a muoversi controcorrente, a perdere il consenso e quindi a restare isolati.
Il più delle volte si tratta di una « solitudine interiore »; sei tra la gente ma percorri da sola il tuo cammino di fede cioè senza poter condividere la ragione più profonda della tua esistenza: « seguire Cristo ».
Sei con gli altri, con loro lavori, come loro assumi le tue responsabilità laicali, insieme gioisci e soffri; tuttavia c'è qualcosa che, pur senza separarti, talora ti lascia un po' estraneo, come un pellegrino che ha orizzonti di vita e prospettive che vanno « oltre ».
Questo tipo di solitudine è strettamente legata alla scelta vocazionale, in forza della quale si cerca quotidianamente di fare sintesi tra secolarità e consacrazione, tra una immersione piena nella quotidianità del laico e una tensione costante verso il Regno di Cristo.
In effetti è la solitudine legata anche alla vocazione propria del cristiano, che non si allontana dal mondo, ma cerca di non scendere a compromessi con ciò che nel mondo è peccato: violenza, egoismo, falsità, prepotenza, avidità del possesso ecc.
Quindi la « solitudine » implicita al progetto vocazionale della laicità consacrata può trovare la sua ragione più profonda solo nella esigenza radicale di « percorrere le vie del mondo dentro la prospettiva del Regno ».
Ma per comprendere meglio la valenza evangelica di questo cammino occorre entrare ( un po'! ) nella dimensione misteriosa della vocazione verginale.
Scrive Giovanni Moioli1 : « La solitudine dei vergini, votata a Cristo e vissuta nella fede e nell'amore di Lui, diviene adorazione silenziosa di ciò che nessuna parola o gesto d'uomo saprebbe dire …
La psicologia verginale è dominata da questo senso profondo di dedicazione all'unico Signore.
È dedicazione a Colui al quale ci si abbandona poveramente, credendo alla Sua fedeltà, senza pretendere affatto che sia l'unica dedicazione totale.
Gesù resta anzitutto lo sposo della Chiesa, non dei vergini ».
Cristo si dona totalmente alla Chiesa, in tutti i suoi membri.
La risposta alla vocazione verginale inserisce in modo vitale e totalizzante nell'unione sponsale di Cristo con la sua Chiesa.
È un inserimento ( lo precisa Moioli ) che poggia sulla povertà e la « stoltezza della fede ».
La verginità non può essere intesa neppure in termini di efficienza apostolica.
Ad esempio: rinunciare a figli propri per dedicarsi ai bimbi abbandonati, rinunciare ad una famiglia propria per mettersi a servizio degli emarginati ecc.
Inizialmente potrebbero sembrare sufficienti anche queste motivazioni, ma coll'andar del tempo regge solo quella che misteriosamente si radica nella fede: una chiamata ad essere « eunuchi » per il Regno dei cieli.
Fuori dal respiro vocazionale, la verginità perderebbe a poco a poco la sua « ragion d'essere » e resterebbe schiacciata da un senso di solitudine insopportabile.
È la povertà della fede, che conduce ad assumere l'aspetto sacrificale della verginità, superando ogni ambiguo psicologismo, che rischi di fare del Cristo il surrogato o la sublimazione del coniuge.
« La Sua chiamata m'impegna a non concedere ad alcuno un amore di sposa.
Sarò figlia affettuosa; vivrò l'amicizia; saprò essere materna: ma sposa non sarò con nessuno.
Porterò me stessa in sacrificio, camminando come Abramo, nella fede.
Io so come lui e più di lui che il Signore provvederà ».2
Certamente, il cammino di fede ha momenti di luce e di ombre.
Nelle fasi di aridità, quando il Signore sembra farsi assente, diventa molto difficile riconoscere il significato e il valore della solitudine per Cristo e della sterilità dei vergini.
Sono momenti di prova, che aiutano a maturare, decantando le sublimazioni, arrestando le fughe e sospingendo a ricercare, nella fede, il volto del Signore.
Nell'aridità si sperimenta un tipo di solitudine che provoca un grande smarrimento ma, quando ritorna la luce, il rapporto col Signore conduce sulla soglia ineffabile del mistero.
In questa vocazione, la solitudine non concede spazi per il ripiegamento su se stessa: resta aperta alla relazione.
Innanzitutto al rapporto personale con Cristo.
Scrive ancora Moioli: « Per chi è chiamato alla verginità è importante evidenziare il rapporto personale col Cristo, che deve riempire questo silenzio, questo « non avere ».
Se la ragione del « silenzio » è il Regno di Dio ( e ciò che esso può chiedere, superando addirittura il rapporto della coniugalità umana ) allora bisogna che questo « monte di Sion » si elevi sopra tutti gli altri monti ( Is 2,2 ) …
Proprio perché il « silenzio » della verginità abbia il suo significato, sia riempito dal senso del riferimento al Tu, è fondamentale mantenere in rapporto la scelta della verginità con la preghiera cristiana ».
È un rapporto nutrito di ascolto della Parola del Signore, di contemplazione, di abbandono, di offerta, di supplica; rapporto che presenta tutte le caratteristiche della preghiera, individuale e liturgica.
Quest'ultima aiuta ad aprire la solitudine alla comunione con Dio e coi fratelli.
Nella preghiera liturgica possiamo « appoggiare » la nostra poca fede sulla fede della Chiesa, la nostra scarsa capacità d'amore sulla carità di Cristo, che vivifica e sospinge il cammino della sua comunità.
Aiutando a « vedere », « udire », « toccare » i segni della misteriosa presenza di Cristo nella sua Chiesa, la preghiera liturgica apre le porte della solitudine alla comunione con tutto il popolo di Dio e ( prima ancora! ) alla comunione di Dio col suo popolo.
Durante la celebrazione eucaristica, non si è più soli!
Mantenere vivo il legame vocazione-preghiera aiuta ad aprire la propria solitudine anche ad un rapporto con le persone.
È il Vangelo stesso a precisare come l'effettiva nostra disponibilità verso il prossimo sia quella che può garantire l'autenticità o meno del nostro rapporto con Cristo.
In una vocazione verginale il legame d'amore coi fratelli passa necessariamente attraverso l'esperienza della solitudine, anche quando si resta circondati da tante persone a cui ci si dedica in spirito di servizio.
Concretamente la scelta verginale conduce ad amare tutti come fosse l'unico, rinunciando ad un legame esclusivo, che si faccia ragione di vita, àncora di sicurezza e che permetta un cammino a due.
Chiunque può restare solo a causa delle molteplici vicende umane ma in forza di questa vocazione si rinuncia all'amore coniugale per rispondere ad una chiamata, disposti a « vendere tutto » per acquistare il campo della perla preziosa.
Ma il « pedaggio » è la solitudine del cuore, su cui occorre vigilare perché rimane costante la tentazione ( che assume sfaccettature diverse di età in età! ) di riprendersi, giorno dopo giorno, quello che si è donato.
Amare i fratelli con cuore libero, senza appropriazione affettiva, richiede anche di saper restare soli.
Significa donarsi nello spirito della povertà evangelica, tenendo cioè sempre la porta aperta a chiunque bussi, per condividere il dono ricevuto: l'amore di Cristo.
Vivere nella presenza del Signore, porta dentro al nostro cuore « tutto » il mondo.
Quello vicino, con le persone e le situazioni accolte nella loro immediatezza ed imprevedibilità, e il mondo lontano le cui vicende entrano nelle nostre case attraverso i mass-media.
La « solitudine verginale » vissuta in positivo può disporre di spazi maggiori per l'attenzione verso gli altri, specie per coloro che soffrono la privazione di legami familiari o di amicizia, per quelli che « subiscono » la solitudine.
In una vocazione di laicità consacrata i problemi e le attese della gente entrano a viva forza.
Far parte di un istituto secolare significa, in un certo senso, legarsi ad una doppia fedeltà: a Cristo e ai fratelli, a Dio e al mondo ( nel suo cammino di salvezza! ).
Materia viva della verginità, della povertà, della obbedienza promesse al Signore diventano quindi la competenza professionale, l'impegno socio-politico, la solidarietà familiare, la difesa dei diritti dei poveri, la partecipazione alla vita della comunità ecclesiale ecc.
Ciò significa vivere nello spirito della radicalità evangelica le situazioni esistenziali proprie dei laici.
Il Vangelo sospinge a farci « prossimi »: allora i problemi della gente, anche se non toccano direttamente la nostra persona, la nostra famiglia o cerchia di amici, non possono restarci estranei.
Nasce il bisogno d'informarsi per conoscere meglio le realtà politiche, economiche, sociali, culturali.
Si cerca di conoscere per interpretare con più chiarezza certi fenomeni storici, per poter discernere alla luce dei valori umani e cristiani, per saper fare ( quando sembra giusto e necessario ) una scelta di campo.
Leggere giornali e riviste, ascoltare la radio, seguire programmi televisivi, partecipare ad incontri culturali diventano perciò un'esigenza, che scaturisce dal senso di responsabilità, tipicamente laicale, nel rapportarsi al mondo.
E non si limitano ad essere qualcosa che può riempire la nostra solitudine!
In effetti la solitudine viene « abitata » nella misura in cui si vive un rapporto di comunione con Dio e coi fratelli.
Ci si relaziona a loro, forse, con maggiore consapevolezza e carica affettiva quando si rimane soli: la loro presenza continua attraverso la memoria, la riflessione, la sensibilità ed attraverso quel tipo di preghiera, che fa ripercorrere il proprio ed altrui vissuto ai piedi del Signore.
Il rapporto col prossimo viene interiorizzato o almeno analizzato.
Capita di esaminare con più verità il proprio modo di relazionarsi: ci si accorge, ad esempio, di essere stati troppo frettolosi e non aver saputo ascoltare.
Si coglie finalmente la chiave del messaggio che quella persona ci ha inviato, cercandoci per un motivo in apparenza futile.
Scopriamo in noi quella tenerezza che inibizioni, per lo più inconsapevoli, non hanno lasciato affiorare.
A distanza, riconosciamo il valore della testimonianza ricevuto da quel collega di lavoro o da un'amica.
Avvertiamo la provocazione al cambiamento che ci giunge da quella situazione d'ingiustizia e di violenza.
E forse … maturiamo anche la disponibilità a trasformare un semplice rapporto di conoscenza e di collaborazione in un profondo legame di fraternità.
La solitudine infine può essere « abitata » anche dalla presenza di noi a noi stessi.
Può essere vissuta come un « tempo » che permette il « via libera » alla spontaneità dei sentimenti, al coraggio dell'autocritica, al riconoscimento delle proprie paure o delle ragioni vere dei nostri scoraggiamenti.
Può essere vissuta come un tempo in cui ci si specchia con coraggio.
Ma può essere anche goduta come occasione per fare, una volta tanto, ciò che piace e ci procura distensione.
Questa solitudine « abitata » non può essere tuttavia dispersiva, le molteplici presenze hanno bisogno di trovare un punto di riferimento in cui armonizzarsi ossia debbono confluire verso ciò che da significato ed unità all'intera esistenza: il disegno di Dio, secondo la vocazione ricevuta.
Allora … questa solitudine abitata ha bisogno di conciliarsi con la capacità di fare silenzio.
Capacità di silenzio, come condizione per fare della solitudine un momento ed un luogo di profonda interiorizzazione ( quella che va oltre la razionalità ) del rapporto personale con Cristo e con il prossimo e con la storia del mondo.
Il silenzio contemplativo sta alla base di ogni cammino di fede: si carica di segreti, di espressioni suggerite dal cuore, di stupore, di emozioni ineffabili, di struggente speranza.
È il silenzio dell'adorazione, dell'ascolto, della memoria-interiore: fecondo di parole essenziali.
Tutto ciò nelle fasi in cui il cammino è investito dalla luce della fede; ma possono alternarsi coi tempi della prova, in cui il silenzio sperimenta solo il buio e il vuoto!
Sono i tempi misteriosamente più fecondi!
L'ascolto della Parola di Dio, vissuto nel silenzio, diventa la condizione più efficace perché la nostra solitudine sia « abitata » dalla presenza di Dio.
Al tempo stesso è un'esperienza che ( di volta in volta ) ci aiuta ad acquisire lo spirito di preghiera.
L'atteggiamento « contemplativo » dovrebbe condurci ad una specie di « forma mentis » evangelica, che ci permetta una lettura « sapienziale » delle vicende umane.
È necessario il silenzio anche per prendere le distanze da noi stessi, dalle nostre suggestioni emotive e fantasiose, e per saper « discernere ».
Il ritrovarci soli non fa scattare spontaneamente il silenzio. Anzi!
È molto difficile raggiungerlo; richiede una severa ascesi, specialmente a chi vive nella condizione laicale.
Nella solitudine silenziosa, viene spontaneo ripercorrere le sequenze immaginarie del nostro vissuto o, se ciò disturba, caricarci di altre fantasie per cacciare le prime.
Il silenzio interiore, quando lo si raggiunge, rappresenta un « momento di verità » di fronte a Dio, a noi stessi, agli altri.
Può far paura perché talora mette in luce dei camuffamenti che ci creiamo, o per rassicurarci o per resistere a quel cambiamento ( o conversione! ) cui non siamo disposti.
È un cammino di ascesi faticosa ma liberante.
Questi momenti di « verità » ci fanno ritrovare più poveri ma anche più aperti all'abbandono fiducioso nelle mani del Padre; più disponibili anche a condividere le vicende umane nella consapevolezza del tanto che ci accomuna a tutti gli esseri umani rispetto a ciò che ci differenzia e distingue.
Disponibilità quindi ad un abbandono non passivo o rassegnato ma aperto alla fiducia, a prospettive di conversione e di « novità di vita ».
Il silenzio ci permette di « udire » la parola del Signore, anche attraverso i messaggi che ci giungono dalla comunità ecclesiale e vocazionale, dai segni dei tempi e dalle testimonianze di tanti nostri fratelli.
L'ascolto si fa più attento e profondo perché nel silenzio si vive con maggiore intensità la trasparenza della fede.
Questi spazi « contemplativi » permettono di cercare più verità nelle nostre relazioni umane cioè nell'accogliere le persone così come sono, nell'amarle e servirle secondo le loro esigenze e non … le nostre ( per quanto nobili siano ).
La solitudine può essere « valorizzata » come tempo di maturazione di una più autentica fraternità: quest'ultima deve prendere le mosse da una serena accettazione di noi stessi, con tutto ciò che siamo, nei doni e nei limiti.
Quando facciamo tacere le voci che risuonano fuori e dentro di noi, verifichiamo con più chiarezza come in realtà viviamo il rapporto con noi stessi e con la vocazione ricevuta.
Questo « sguardo » libero e coraggioso può far saltare le difese e mettere allo scoperto le ambiguità, le incoerenze, le infedeltà … ma favorisce un cammino più maturo nella sequela di Cristo.
È quindi nella solitudine, capace di silenzio, che si interiorizza il rapporto di comunione con Cristo e i fratelli.
Rispondere alla vocazione della secolarità consacrata è protendersi nell'attesa che si realizzi la missione di salvezza di Cristo nel mondo, è cercare nell'oggi i « segni » del disegno di Dio sull'umanità.
Significa porsi nel quotidiano ( cioè nella concretezza della professione, della vita sociale, dell'impegno politico ecc. ) con uno sguardo aperto alla trascendenza; attenti all'oggi senza perdere mai di vista la prospettiva escatologica, che ci è aperta dalla fede e ci fa cercare come meta prima ed ultima l'attuarsi del Regno di Cristo.
È vivere, come scrive Alberto Monticone, la condizione spirituale del pellegrino.3
« Il pellegrino che va a Gerusalemme, come ogni pellegrino che si rispetti, sa anche come vivere per strada: ha il gusto del tempo, delle cose e delle persone nuove, perché il suo camminare, il suo cercare Gerusalemme si traduce in queste tappe quotidiane di trovare il tempo, le cose, le persone nuove.
È sempre felice del nuovo, lo cerca, ne gode … al tempo stesso però sa che deve, nella congerie dei tempi, delle cose, degli incontri nuovi, riservare lo spazio motivante dello spirito e cioè quella orazione con la 'o' maiuscola che il pellegrino russo descrive nei suoi racconti.
Il silenzio del mondo, l'afonia dei rumori per la voce della Parola; un'afonia di rumori che però consente di discorrere e di avere il gusto delle cose e delle persone, di percepire i nomi autentici di quella voce della Parola, che parla anche con le tecniche più avanzate.
Ma il pellegrino che va a Gerusalemme sa anche un'altra cosa: sa che anche il mondo e la sua tecnica vanno verso Gerusalemme, anche se non lo sanno …, perché la storia è stata una volta per tutte redenta …
L'ansia della meta è proporzionale ed incide sul ritmo del cammino … e l'impegno nel presente del cristiano, che cammina, è misura e riprova del procedere dell'uomo di spirito nell'itinerario verso il Regno.
Chi è in profondità distaccato dagli interessi ( propri! ) ha la possibilità di spendersi infatti tutto nel servizio e di animare il progresso della comunità senza dissolversi in quanto servizio e senza lasciarsi distrarre da quel silenzio inferiore orante, che è il suo fondamento ».
Anche queste riflessioni di Monticone confermano che le fasi e i tempi di solitudine possono essere assunti come « occasioni » di crescita dell'uomo interiore, che riconosce il primato dello spirito; possono essere valorizzati come momenti di sosta del pellegrinaggio, come « attesa » per riprendere il cammino con maggiore vitalità, per poterlo proseguire fino alla meta finale.
A questa meta si desidera giungere non da soli ma col maggior numero di fratelli!
Se nella solitudine, capace di silenzio, si interiorizza la nostra disponibilità all'accoglienza … allora cresce anche il desiderio d'incontrare gli altri, lasciando spazio alla tenerezza.
E quando l'incontro si verifica concretamente, l'altro avverte di essere oggetto d'amore; di essere stato atteso.
C'è l'attesa del fratello ma c'è anche un'attesa che dura tutta la vita e cresce col passare degli anni: vedere il volto di Dio.
Quando si mantiene vivo il rapporto personale col Signore, la solitudine della malattia e della vecchiaia diventa il « luogo » in cui la speranza s'intreccia con la serena adesione alla misteriosa volontà divina.
Per il credente, attendere la morte significa prepararsi a varcare definitivamente la soglia del mistero.
È una preparazione che dura tutta la vita e a cui da voce il salmo 63 :
« Dio, Dio mio, o amato Signore solo te fin dall'alba desidero, il mio essere ha sete di te, per te spasima l'anima mia come arida terra riarsa.
Così bramo vederti nel Tempio contemplar la tua forza, la gloria: più che vita è dolce l'amore, il dolcissimo, Dio, tuo amore.
Benedirti finché vita mi duri, nel tuo nome elevare le mani, e saziarmi con cibi nuziali; e la bocca riempire di canti; dalle labbra effondere laudi!
Quando in veglie la notte sussurro e ti penso dal mio giaciglio! ».4
La solitudine, anche quando è segnata dalla sofferenza, può diventare quindi esperienza esistenziale feconda: purché sia vissuta nello spirito di accoglienza, quella che sa tenere la porta aperta ed accetta di essere abitata; purché il « silenzio » interiorizzi il rapporto con Cristo e coi fratelli, mantenendo viva l'attesa dell'incontro.
Indice |
1 | Temi cristiani, Ed. Glossa, Milano |
2 | Moioli: Temi cristiani maggiori |
3 | La bisaccia del pellegrino. Ave, p. 22 |
4 | Turoldo-Ravasi, I salmi. Ed. Paoline |