Solitudine - Nell'esperienza degli Istituti Secolari |
di Rosanna Bissi
Nei vari momenti di crisi che incontriamo lungo la vita è facile esaurire le nostre energie nel tentativo di analizzare, nel modo più meticoloso possibile, le cause di tale situazione. Certamente l'impostazione del problema è pregevole a condizione però che non ci si fermi alla diagnosi.
Occorre affrontare la crisi in modo sistemico, come oggi si dice, comunque in modo non ingenuo e non superficiale: si tratta allora di scoprire le cause ma anche di trovare rimedi adeguati e tali da non sconfinare né nell'illusione di risolvere tutto automaticamente né nella sfiducia completa di fronte ad una sorta di condizionamento che non lascia spiragli per una ripresa.
Fiducia, gradualità, costanza e concretezza devono essere gli ingredienti iniziali e necessari ad impostare un cammino di nuova crescita.
In particolare, perché il sistema funzioni, ci si dovrà impegnare a cogliere la sostanza del problema, si dovrà andare alla sua radice.
In questo momento storico tutti incontriamo grande difficoltà a farci una corretta immagine dell'uomo e della donna.
Che cosa, in effetti, desideriamo, perché la vita quotidiana abbia un senso, ossia possa trovare una direzione con una meta sicura e riconosciuta e possibilmente condivisa da tutti o almeno da chi ci sta accanto?
Di fatto, oggi, proviamo un po' tutti la « fame » di valori ma insieme abbiamo paura a scoprirci, forse viviamo inconsciamente la paura di trovarci soli anche a livello di pensiero e così neghiamo la possibilità di un confronto.
A priori finiamo per dirci che non siamo capiti, che non vale la pena introdurre nelle nostre quotidiane relazioni problemi troppo profondi.
E poi … c'è l'esigenza di un rispetto delle persone per cui conviene non toccare alcuni tasti che potrebbero produrre una disarmonia stridente e ridurre ancora di più le già insufficienti occasioni di relazione.
In questo modo ci creiamo molti alibi che tendono a pacificare un po' la nostra coscienza e comunque coltiviamo una insoddisfazione che spesso viene somatizzata e sfocia in una delle tante depressioni che anche i medici stentano ad inquadrare in una tipologia patologica e, quello che più conta, non riescono ad affrontare con farmaci, terapie individuali e di gruppo.
In uno spazio particolare, offerto anche semplicemente da queste pagine, possiamo aiutarci ad affrontare radicalmente il problema della solitudine nelle sue diverse valenze e secondo i vari aspetti in cui si manifesta.
Già in altra parte del testo appare l'ambivalenza del termine solitudine.
Gesù di Nazaret può essere visto come modello anche in questa circostanza: egli più volte, nella sua vita pubblica, si isola, lascia la folla ed anche i suoi discepoli, per incontrare il Padre, per pregare, ossia per vivere la comunione, l'intimità della Trinità.
Sembra proprio che, senza quei momenti di solitudine, Egli non possa realizzare la missione che gli è stata affidata, non possa essere orientato alla venuta del Regno.
Potremmo in questo modo concludere che la solitudine è un valore e come tale deve essere coltivato nella vita del cristiano ed in particolare del consacrato, di colui che vuole seguire le orme del Maestro.
Ma c'è anche l'altra faccia della medaglia.
Provoca sempre la dinamica che Gesù vive nell'orto del Getsemani.
Per ben tre volte Egli lascia i suoi in preghiera e si scosta da loro proprio nel momento più alto in cui esprime tutta la sua libertà ed accetta la sua passione per noi; per ben tre volte Egli va in cerca dei suoi « amici » come se non potesse da solo affrontare una situazione tanto difficile e scopre la loro inadeguatezza.
Essi, infatti, dormono, non capiscono la gravita del momento, non sanno discernere, non sanno gratuitamente offrire l'amicizia di cui il Signore stesso dimostra di aver bisogno.
E questo è il preludio del grande tradimento: essi dichiarano di non conoscere Gesù, di non essere dei suoi, di non riconoscersi neppure fra quelli che lo seguono.
Questa alternanza di vicino/lontano diventa una sintesi, diventa una realtà con la quale siamo chiamati a confrontarci scoprendo quindi, anche la valenza negativa della solitudine, quella che fa soffrire, perché segno di emarginazione.
In questi anni la pedagogia ha insistito molto ( e a ragione ) sull'esigenza di aiutare la persona in crescita a costruire una effettiva capacità di socializzazione.
La persona è chiamata a vivere insieme con altri suoi simili, a collaborare con loro, ad incontrarli come amici, quindi ad avere fiducia in loro poiché anch'essa avverte di godere della loro fiducia.
Pensiamo, ad esempio, alle numerose iniziative che si prendono a livello pubblico e privato-sociale per compensare una situazione che via via diventa sempre più pesante.
Oggi, la maggior parte dei bambini vive la situazione del « figlio unico » e quindi si trova da subito immerso nella vita e nella mentalità dell'adulto, assume i modelli culturali degli adulti, affronta le esigenze del lavoro prima ancora di quelle del gioco, viene subissato di giocattoli e finisce per non sapersi divertire.
Il bambino si trova ad affrontare una sorta di « obesità culturale » che nasconde tutti i pericoli di una forte deprivazione.
Per questo sentiamo l'esigenza di mandare il bambino all'asilo nido per poter incontrare altri bambini con i quali condividere esperienze adeguate all'età ed ai relativi bisogni.
Nel linguaggio comune diciamo che la soluzione dell'asilo nido è appunto una risposta al bisogno di socializzazione.
A parte la reale incapacità di ammettere che l'asilo nido risponde in prima istanza alle esigenze degli adulti e successivamente a quelle dei bambini, impostiamo il problema in modo scorretto, perché di fatto enfatizziamo la dimensione sociale a scapito dell'autonomia intesa appunto come capacità di conoscere ed utilizzare tutte le proprie possibilità.
Questa dimensione prepara anche all'accettazione di sé, al saper rimanere da soli, al provare gioia a trovarsi con se stessi e quindi a stabilire un rapporto col proprio sé.
Se le statistiche danno indicazioni significative, dobbiamo pensare perché le casalinghe ormai non sanno rimanere in casa senza la radio o la televisione accesa, anche se esse non fermano la loro attività per ascoltarle.
Comunemente si dice che il mezzo di comunicazione serve per non sentirsi soli.
Diviene così giustificata la domanda sul perché dia fastidio, si abbia paura del silenzio, della solitudine.
E questo è senza dubbio uno soltanto degli aspetti che possiamo considerare.
Ci possiamo allora porre qualche domanda:
- come adulti possiamo dire che siamo responsabili della nostra formazione continua e permanente.
Come coltiviamo questa dimensione della nostra personalità?
- La risposta può, in altri termini, essere ricondotta all'interrogativo relativo alla nostra capacità di accettazione di noi stessi.
A questo proposito sappiamo guardarci con un pizzico di ironia?
Sappiamo anche ridere di qualche nostro evidente limite?
- Lo stare con noi stessi implica anche la capacità di saperci organizzare.
Sappiamo prenderci in mano?
Sappiamo gestire la nostra presenza fra gli altri in modo tale che tolleriamo il fatto che talvolta possiamo passare un po' inosservati, senza per questo sentirci infelici?
Sembrano domande banali ma penso siano una spia riguardo la nostra capacità di conoscerei, la pazienza nell'accettarci, l'indice dell'espressione di una dignità che non può essere rispettata dagli altri se non trova in primo luogo una consapevolezza in noi.
E tutto questo può essere ritenuto un cammino umano, una crescita che reclama attenzioni particolari a mano a mano che le varie pagine della vita si susseguono.
L'accettazione di sé non si compie una sola volta: si tratta di un equilibrio da trovare continuamente.
Non a caso si è parlato di formazione permanente: ogni giorno siamo creature nuove, abbiamo in noi questo grande dono della novità che segna davvero una possibilità nuova se sappiamo prenderne coscienza, se anche incontrando qualche difficoltà, possiamo riconoscere in noi stessi le immancabili positività.
E ancora una volta sembra opportuno ribadire come tale lavoro su noi stessi abbia spazio solamente quando sappiamo isolarci dagli altri, per sostenere l'immagine della nostra personalità nel rapporto sereno tra quello che vorremmo essere, quello che gli altri dicono di noi ( e lo sappiamo anche se le persone non sono immediatamente presenti nel momento in cui ci interroghiamo ) e quello che realmente siamo.
È questo un cammino suggerito anche dalla psicologia e che trova la sua attuazione generalmente in un impegno personale e, in casi particolari, può richiedere anche un aiuto esterno.
Tale aiuto non si intende sempre e soltanto offerto dallo specialista: grande spazio deve essere riservato anche all'amicizia vera.
Forse dovremmo tornare a riflettere sul significato profondo dell'amicizia che sostiene in ciascun elemento della relazione lo sforzo ad essere ciò che deve essere ed è quindi espressione di autentica gratuità.
Le persone consacrate al Signore non possono presumere di realizzare il proprio cammino senza alcuna mediazione umana: il discorso dell'amicizia allora potrebbe essere ripreso e riconsiderato non come il rimedio, l'appagamento, il riempimento di un vuoto che si può talvolta avvertire nella vita ma, al contrario, un servizio che viene offerto alla persona perché riesca a vivere compiutamente anche questo aspetto della sua vita che può essere di sofferenza.
L'amico allora non è soltanto il consolatore, ma diventa veramente il compagno che « patisce » insieme, ma che sostiene e incoraggia a trovare la forza per « leggere » in radice e compiutamente quello che in superficie sembra quasi insopportabile.
Certo non sembra possibile mettersi soltanto alla ricerca dell'amico: occorre cogliere da subito l'aspetto di reciprocità che esiste nell'amicizia vera per cui i ruoli possono essere scambiati tutte le volte che sia necessario.
Nessuna rigidità, allora, nelle aspettative nei confronti dell'amico: e questo significa non mettersi alla ricerca dell'appoggio bensì della relazione.
La posizione di dipendenza potrebbe diventare davvero molto pericolosa per entrambe le persone.
L'amicizia di per sé è espressione di libertà e di dignità: solamente persone mature riescono ad esprimere compiutamente il valore di una relazione davvero interpersonale, capace di grandi aperture, fino a quella più profonda che è la consacrazione all'Unico Signore.
Ci sono tuttavia altri livelli di riflessione che ci permettono di maturare un'autentica consapevolezza di noi stessi e quindi ci possono collocare in modo corretto all'interno della realtà in cui siamo immersi.
Di fatto, oggi, non si riesce a leggere una persona se non come facente parte di un sistema ecologico, cioè del suo ambiente.
In esso la persona tende ad essere se stessa, a trovare la propria identità.
Paolo scriveva ai Corinti: « Per grazia di Dio sono quello che sono » ( 1 Cor 15,9 ): la consapevolezza di essere in ogni momento della vita la realizzazione di un disegno d'amore, dovrebbe porre nella condizione di conoscere sempre meglio tale disegno ma soprattutto di avere un riferimento sicuro.
La realizzazione della persona, infatti, non è frutto soltanto di un impegno o di un'ascosi volta a concretizzare un progetto dettato dalla sua intelligenza e fortemente voluto, ma si confronta sempre con un Tu, con un Altro che tiene in mano tutta la storia ed in particolare proprio la sua storia.
Quante volte, scorrendo le pagine del Vangelo, si trovano parole incoraggianti, rivolte da Gesù nei confronti di chi si interroga, di chi autenticamente si vuole aprire ad un disegno più grande anche se non avverte immediatamente di averne tutte le forze e le capacità!
Gesù dice a Pietro: « Non temere: d'ora in poi diventerai pescatore di uomini » ( Lc 5,11 ) come l'angelo aveva detto a Maria: « Non temere, hai trovato grazia presso Dio.
Ecco concepirai un figlio » ( Lc 1,20 ).
L'effetto derivante dal superamento della paura è davvero sorprendente in quanto si esprime in termini di una radicalità che non ammette alcuna esitazione.
Si tratta di un totale abbandono nelle mani di chi ha esortato con infinita tenerezza a non temere.
D'altra parte si può considerare come l'attuazione della promessa sia altrettanto radicale: l'uomo debole, incapace, inconcludente, isolato si trova a realizzare la Parola, a dare la vita ad altri, ad aprirsi ad una nuova vita.
Ancora una volta l'immagine del bambino ci può aiutare nella nostra riflessione.
Dopo un sogno terribile che gli fa sperimentare l'incubo, il bambino piange e si placa soltanto quando avverte la presenza della sua mamma che gli parla, lo esorta a non aver paura.
Anche qui entrano in gioco la presenza e la parola.
Fiducia sembra una parola magica, purtroppo oggi quasi scomparsa dal nostro vocabolario.
Nella ferialità, infatti, spesso ci diciamo che non possiamo più fidarci di chi ci sta seduto accanto in tram o vive nell'appartamento vicino.
Non parliamo poi delle nostre relazioni nei confronti dei servizi, dell'amministrazione, della politica.
Quante delusioni abbiamo provato nella storia più recente!
Eppure il significato profondo della chiamata del Signore è proprio farci sentire la sua presenza e la sua parola.
In altri termini è l'invito a fidarci della sua presenza e predisporci ad ascoltare quella parola che ci costruisce nuovi, ad accettare con disponibilità il vero cambiamento.
In questo modo ognuno di noi si trova all'interno di una dinamica in cui non può assolutamente viversi solo.
È il vero problema della fede.
Credere nel Signore significa dare alla nostra vita un punto di riferimento, essere in relazione, vivere una reciprocità possibile soltanto in forza dell'amore gratuito che in Gesù ci rende figli.
Se avessimo sempre presente la profondità e la verità delle parole che esprimono la nostra preghiera: Padre nostro!
Il credere è l'esigenza fondamentale della nostra vita e non possiamo presumere di attuarla sempre nel medesimo modo, con la medesima intensità, con la medesima presa di coscienza.
Ci troviamo spesso a vivere il nostro credere nell'aridità e nel buio.
Ma il credere non si può misurare sulle nostre sensazioni.
Credere non è un provare, deve piuttosto riferirsi al nostro essere.
Qui sta davvero il cuore di tutto il problema, la chiave di volta della relazione peculiare tra creatura e Creatore, tra figlio e Padre.
Ancora una volta dobbiamo fare i conti con una mentalità comune che finisce per farci ritenere vero soltanto ciò che noi proviamo.
Il sentire, cioè, la nostra soggettività, diventa misura di tutto l'esistere: e questo è profondamente illusorio ed anche erroneo.
Per ciascuno la verità è soltanto Gesù di Nazaret: ci riconosciamo, prendiamo i contorni definiti in Lui, abbiamo un riferimento sicuro che non può tradire, perché Egli ha dato la sua vita per noi.
Se davvero cerchiamo di conoscere questa verità, la coltiviamo, portiamo avanti pazientemente e coraggiosamente la ricerca della verità allora scopriamo di non essere mai soli.
Il rimedio alla solitudine allora non si trova in una ricetta, nella ricerca di un surrogato a questa relazione fondamentale della vita, bensì si esprime in una continua tensione a riconoscere Lui come Signore della vita.
Risuonano in modo intenso a questo proposito le parole di Gesù ai discepoli: « Senza di me non potete fare nulla » ( Gv 15,5 ) e qualche versetto oltre: « Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto » ( Gv 15,16 ).
Certo, la tensione a « comprendere » queste parole di Gesù avviene nella preghiera che si può realizzare nella solitudine ma anche attraverso le domande che si pongono a questo Signore che appare talvolta quasi incomprensibile.
Dovremmo a questo punto della riflessione chiederci come ci rivolgiamo a questo Dio che è prima di noi e che per amore prende sempre per primo l'iniziativa.
Spesso le domande esprimono il nostro modo di procedere, consono all'ambiente in cui viviamo.
Poniamo domande con l'intento di scoprire il tradimento nascosto, siamo sospettosi: è questo un atteggiamento che ha la sua radice nel peccato.
E forse abbiamo sempre bisogno di purificare le nostre domande e chiederci se davvero tale sospetto sia giustificato nei confronti di chi si è proprio annientato per noi, di chi ha accettato una fine infamante come quella della croce per riscattare questa incredulità.
Eppure è tanto facile, nel momento in cui si vive l'isolamento dal resto del mondo, credere di essere stati totalmente emarginati.
Non è forse questo il momento in cui siamo noi stessi ad operare tale emarginazione, perché non ci sentiamo più radicati « come alberi lungo il fiume »?
Ancora: ci sono domande che si pongono nell'indifferenza, ossia nell'atteggiamento di chi non si attende neppure la risposta.
Si pone la domanda, perché la si trova all'interno di un salmo, ma di fatto non risuona nell'intimo.
Spesso ci capita di « pregare » soltanto con le labbra e poi di lamentarci perché il Signore non ci ha ascoltato.
L'esperienza della distrazione nei momenti di preghiera è abbastanza comune.
Questo indica quanto sia difficile pregare; non a caso i discepoli hanno chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare.
E la risposta immediata è stata quella di mettersi alla presenza del Signore per ricercare la comunione con Lui.
Ci possono essere infine domande tese a comprendere veramente, ad esprimere un impegno, ad allargare gli orizzonti così da inquadrare i nostri bisogni con quelli dei nostri fratelli, a cercare i criteri con i quali impostare una gerarchIa di esigenze.
Ci possono essere ancora domande che ci portano a valutare le possibilità di risposta ai bisogni emergenti in base alle risorse reali della persona ( risorse che non sono mai infinite ) che si aprono a possibilità insperate, offerte ad esempio dalla collaborazione di altre persone.
Tutto questo ci può aiutare a non considerarci centro di tutto l'universo come se tutto dipendesse da noi, dalle nostre capacità sia nel bene sia nel male.
Ed è proprio questo uscire dalla posizione centrale che ci può consentire di trovare un interlocutore superando il presunto isolamento che, se vissuto a lungo nel tempo può apparire come prigione insopportabile.
La domanda allora si pone in modo aperto, lascia spazio appunto all'intervento di Dio che certamente ha spazi diversi dai nostri, ma anche efficacia diversa dalla nostra.
Diventa a questo punto inevitabile la domanda: con quale impegno cerchiamo di conoscere quel Tu che ci ha chiamati, che dovrebbe meritare tutta la nostra fiducia, che si dona completamente a tutti e a ciascuno, che opera con una misericordia infinita, che ama proprio tutti?
Se si riprende l'esempio del bambino fiducioso nella parola della sua mamma, si scopre come tale fiducia non sia mai immotivata: egli sostanzialmente sa di essere ascoltato da questa mamma, perché egli avverte di contare per lei, di muovere la sua sensibilità.
Di fatto ognuno di noi quando rilegge la sua storia trova tante occasioni nelle quali è stato ascoltato dal Signore che si è dimostrato tanto grande da superare ogni suo desiderio e ogni sua aspettativa.
Certo, per registrare onestamente questi avvenimenti, occorre superare la nostra superficialità, la ricerca dell'immediato effetto per una richiesta miope, incapace di vedere i riflessi negativi che potrebbe avere su altri che ci stanno attorno e che pure esprimono bisogni e suppliche.
La domanda vera sarà quella che chiede di verificare il senso, la dirEzione del nostro procedere.
In altri termini la domanda autentica che ci fa dire: « Signore credo, ma aumenta la mia fede » è quella che si risolve in due atteggiamenti di fondo: l'abbandono, la fiducia completa di essere nelle sue mani ed il desiderio di fare soltanto la sua volontà.
Sembrano due atteggiamenti antitetici ma di fatto non lo sono, costituiscono le due facce della stessa medaglia.
La fiducia completa in Lui diventa allora la sintesi tra il riconoscimento della nostra autonomia, cioè il sentirsi completamente immersi in una situazione reale che reclama di mettere in gioco tutte le risorse che possediamo e la relazione con un Tu che comprende, che non giudica ma che pone la sua fiducia nelle nostre possibilità e quindi sostiene, garantisce che, comunque vadano le cose, non verrà mai meno il suo aiuto e la sua considerazione.
Tale abbandono diviene allora piena condivisione di un progetto che non è fatto da noi ma che è il suo volere, l'avvento del Regno che di per sé è molto più grande rispetto a quanto noi possiamo prevedere ed anche desiderare.
Il progetto di Dio reclama non soltanto un impegno, un fare delle cose « una tantum », anche forse in modo eroico.
È un progetto che si sviluppa nel tempo, che ha una continuità e che richiede la costanza di una risposta all'interno di un continuo dialogo, così che la relazione stessa sia il motivo che attrae verso la realizzazione dell'unico piano di salvezza.
Se questa riflessione trova una sua autenticità allora si ha l'autorizzazione a dire che un cristiano non può sentirsi solo nel deserto del mondo, perché ha una direzione, ha un riferimento sicuro, avverte di avere Qualcuno dalla sua parte che tiene saldo il progetto e lo garantisce.
Tutto questo non può essere vissuto in modo quasi automatico: sappiamo, conosciamo questo disegno e pertanto lo attuiamo. Esso ha bisogno di essere ri-conosciuto passando anche attraverso le ombre, i silenzi, le incomprensioni.
Ma tutto questo porta alla domanda di fondo: « Signore, parla, il tuo servo ti ascolta ».
Ed anche alla decisione che è stata dei discepoli: « allora, lasciato tutto, lo seguirono » ( Mc 1,18 .
Si tratta, come si vede, di accettare in verità di essere e di fare secondo un piano, un progetto di cui non ci sentiamo i diretti estensori: è il Suo volere che è sempre bene per noi.
L'espressione che troviamo sul Vangelo è molto significativa: « … mio cibo è fare la tua Volontà ».
Questo implica anzitutto la capacità e la volontà di immettersi in una dinamica: non esiste passività nell'accettazione del piano di Dio.
Le modalità, tuttavia, possono essere molto diverse.
C'è un « fare » che esprime attività, accettazione di responsabilità, di posti scomodi ed anche rischiosi, ma c'è un « fare » che è accettazione dell'inattività, dei segni talvolta pesanti di un'età avanzata, c'è il morire giorno per giorno offrendo sofferenze ed isolamento.
Tutto questo nella logica del Padre che vuole solamente il nostro bene, ha un senso, trova un significato, si unisce all'annientamento di Gesù che proprio sulla croce si esplicita nell'espressione del « sì » più completo.
Certamente la disponibilità ad accettare questa logica che non è del mondo, non si improvvisa e neppure si conquista con uno sforzo di volontà.
Si arriva a dichiarare come Gesù che il nostro cibo è fare la Sua volontà solamente se lo Spirito da noi invocato ci mette in questa dirEzione, se sappiamo un poco alla volta esprimere la domanda di espropriazione da noi stessi, la domanda di essere veramente suoi figli e alla sequela del solo obbediente: Gesù di Nazaret.
Il Diario di una donna laica e consacrata al Signore, Elena da Persico, traccia in modo esemplare questo cammino; ella arriva a scrivere che neppure l'apostolato è il motivo di una seria consacrazione al Signore.
L'essere completamente disponibili a Lui significa accettare e fare propria ogni sua richiesta, anche quella di eliminare dalla nostra ferialità il lavoro, l'azione.
Davvero allora si comprende come agli occhi di Dio e nella sua logica l'essere conti assai più dell'avere e del fare.
In altri termini questa è la via della spogliazione e un cammino provvidenziale che ci mette nella situazione di poter constatare come il vero Assoluto della vita, l'unico valore per il cristiano sia il Signore.
Molte volte la forma di rinnegamento e di spogliazione a cui siamo chiamati, soprattutto nella nostra società disattenta a tutto ciò che non indica immediatamente profitto, occasione di scambio e di contrattazione, è l'isolamento sotto diverse forme: può essere la casa di riposo, la residenza presso la propria casa ma senza alcuna possibilità di assistenza, l'attesa vana di una visita da parte di chi con noi condivide un certo cammino di fede.
Dobbiamo ripeterci che queste situazioni dovrebbero non dipendere assolutamente dalla nostra indifferenza o superficialità in quanto il seguire il Signore dovrebbe senz'altro portare ad un'attenzione vera nei confronti del nostro prossimo.
Ma neppure dobbiamo scandalizzarci quando tutto questo avviene.
In noi come nei nostri fratelli l'uomo vecchio fatica a morire e quindi i nostri comportamenti sono sempre molto intrisi di mentalità vecchia e spesso egocentrica.
Dobbiamo anche saper rispettare la solitudine che il Signore chiede a talune persone senza per questo compatirle o rappresentare accanto a loro la posizione contestatrice.
Si pone qui, ancora una volta, la ricerca del significato dello stare accanto ad una persona con amicizia o ancora con un atteggiamento di condivisione che è espressione di aiuto a sopportare le fatiche più che il desiderio di togliere di mezzo tali fatiche perché, tutto sommato mandano in crisi chi nel momento non le sta affrontando.
Ci capita, infatti, troppo spesso di giocare alternativamente il ruolo del consolatore o del contestatore senza peraltro avere effettive capacità di aiuto.
Chi sta accanto non è chiamato a togliere o a negare le difficoltà: aiuta chi sostiene la fatica di passare proprio attraverso quel crogiuolo, sapendo che una presenza, carica d'amore, accompagna tutto il cammino e non lascia privo di significato nulla.
« … sia fatta la tua Volontà » preghiamo ogni giorno: se è vero questo desiderio diciamo implicitamente che su questa scena del mondo non siamo soli, diciamo il nostro impegno a sentirci parte di un disegno grande che si compie gradualmente, anche quando ci capita di essere stanchi, di non reggere alla fatica, di essere sfiduciati …
Questo cammino è difficile, spesso non presenta neppure aspetti tanto esaltanti; capita anche di non essere capiti nel nostro sforzo di credere e di trovare comportamenti coerenti, proprio dalle persone che più ci stanno vicine e che magari condividono i nostri stessi ideali.
È questa una forma di solitudine molto pesante da sopportare ma non per questo imprevista o eccedente le nostre capacità.
Ancora una volta se apriamo il Vangelo troviamo suggerimenti preziosi dati da Gesù ai suoi discepoli: « lo spirito è pronto ma la carne è debole.
Pregate per non cadere in tentazione » ( Mc 14,38 ).
Quale significato assumono queste parole, oggi?
Forse abbiamo in questi ultimi tempi disatteso un discorso serio sui nostri comportamenti ma ancor più sulla nostra libertà, sulla necessità di arrivare ad un serio discernimento.
È sempre vero che la sequela significa in primo luogo accoglienza di un dono grande, ma proprio in quest'ottica occorre regolare anche la nostra vita.
Sarebbe ancora un grave errore ritenere che la conquista intellettiva, il sapere che l'iniziativa è sempre del Signore sia automaticamente segno di una corretta corrispondenza.
Tra il sapere e l'agire sta sempre il momento della scelta, il momento decisivo nel quale, ancora una volta, si imposta una relazione.
Il discernimento ci porta a collocare in una prospettiva ben determinata i valori cui intendiamo rispondere o cercare.
E nell'attuazione si vuole rispettare una giusta relatività: ci sono beni da raggiungere prima di altri.
È il momento nel quale per il discepolo può assumere grande rilievo anche l'atteggiamento del digiuno e di temperanza non visti nella logica negativa della rinuncia per la rinuncia, bensì nella ricerca di ciò che orienta verso l'Assoluto vero.
Allora prende consistenza e significato la ricerca della pecora e della dramma smarrita.
Certo non si può pretendere di orientare la propria vita secondo questi principi nel momento in cui si soffre la mancanza di una comunità che sostiene o per la quale ci si spende: il discorso richiede una maturazione che implica un cammino quotidiano, una crescita molto lenta ma continua, capace di vivere nella presenza e nell'assenza delle cose che ci sembrano indispensabili ma che tali di fatto non sono.
La prospettiva allora diventa quella della sequela e non la ricerca della rinuncia quasi per dimostrare a noi stessi che siamo capaci di tanto.
Quello che conta veramente è mantenere viva la relazione con quel Tu che continuamente chiama perché è vicino, perché con Lui sia davvero possibile realizzare il Regno.
Diventa allora necessario per il discepolo coltivare alcuni atteggiamenti che costituiscono veri rimedi suggeriti dalla radicalità di cui abbiamo fin qui parlato.
In primo luogo abbiamo bisogno di ri-scoprire la vigilanza.
Se scorriamo le pagine della Sacra Scrittura sia nell'AT sia nel NT troviamo numerosi riferimenti ed inviti alla vigilanza e insieme viene molte volte presentata la figura della sentinella.
Forse oggi questa immagine non è più tanto familiare alla nostra cultura, tuttavia è sempre un'immagine ricca di significati.
Per richiamare tale immagine alla nostra mente possiamo rileggere una pagina del profeta Abacuc: « Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà che cosa risponderà ai miei lamenti.
Il Signore rispose e mi disse: ' Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente.
È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà '» ( Ab 2,1-3 ).
L'atteggiamento che viene subito sottolineato è lo stare in piedi della sentinella.
Ecco, nella nostra ferialità, siamo invitati a non cedere il nostro posto, a non adagiarci nelle comodità, nella dilatazione dei tempi così che si finisca per dichiarare di non aver mai tempo per le cose importanti, a non fidarci di avere già scoperto tutto, a non fidarci delle nostre sicurezze.
Se a questa pagina accostiamo quella di Matteo che riporta il discorso della montagna in cui Gesù chiama « beati » i poveri, quelli che piangono, quelli che hanno fame … allora ci accorgiamo che lo stare di sentinella reclama una vita attenta, che non poggia sulle sicurezze umane, che non si accontenta di dare qualche cosa ma è in continua ricerca del tutto, quella della radicalità esigila dalla vita consacrata.
Vigilare significa ancora saper controllare il proprio mondo affettivo, la voracità intesa nel senso dei desideri che rincorrono la nostra pretesa onnipotenza sia a livello del conoscere sia a livello del fare e dell'immaginare.
Vigilare significa ancora saper guardare con coraggio alla tentazione di coltivare una sottile nostalgia per ciò che si è rinunciato fino a vivere il ruolo della vittima.
Per il fatto che la sentinella sia raffigurata « in piedi » ci si rende conto come tale posizione implichi una presa di coscienza, una volontà, un riconoscimento delle forze da spendere nell'esercizio delle proprie funzioni.
La sentinella è in continua tensione anche nei momenti felici in cui il nemico non sembra essere immediatamente alle porte.
Anche nella nostra vita spirituale ci possono essere dei momenti sereni, di gioia, in cui l'entusiasmo sembra appagare tutti i nostri desideri; anche e forse soprattutto in questi momenti il livello di vigilanza deve essere vivo, perché non ci capiti di prendere degli abbagli ed allontanarci dall'Assoluto che è solo uno, che è Gesù Cristo.
E allora dobbiamo ricordare come non ci possa essere vigilanza senza rendimento di grazie.
Dobbiamo essere attenti non per paura bensì per essere in grado di accogliere il dono che ci viene fatto, per riconoscere quanto bisogno abbiamo di questo dono e per dire il nostro grazie perché Egli, lo Sposo, viene e non tarda.
Riusciamo anche a comprendere come la vigilanza non possa mai andare disgiunta dalla preghiera.
Essa, infatti, non può che diventare preghiera, accoglienza e comunione con quel Tu che sempre ci precede, prende iniziativa, chiama e attende soltanto che la nostra libertà si conformi alla sua volontà.
Possiamo senza dubbio affermare che a questo livello non si può più parlare in termini psicologici: il discorso è davvero spirituale.
Siamo chiamati ad essere nuovi ogni giorno, di una novità reale senz'altro superiore alle nostre aspettative che potrebbero rischiare di essere ancora una volta troppo limitate.
Lo Sposo che viene aspetta una lampada accesa, un'attenzione a non lasciar mancare l'olio, a farne provvista per tempo, a vigilare appunto.
Certo, può sconvolgere il fatto di considerare l'esiguità della richiesta a fronte dell'incapacità a rispondere talvolta camuffata da un desiderio di dare molto di più, dalla ricerca di un atto eroico mentre di fatto spesso si cade in una sorta di inerzia, di delusione, di frustrazione.
Allora vigilare e pregare diventano azioni concrete che connotano la vita nella sua essenza e che pertanto richiedono modi e tempi definiti.
Ciascuno è chiamato ad essere vigilante nella situazione nella quale si trova: non ha bisogno di aspettare una condizione particolare, quasi fosse una condizione necessaria per rimanere in piedi.
Proprio a partire dalla condizione in cui ci si trova, impegnati nella professione, nell'amministrazione pubblica, nella politica, nel volontariato, nella casa di riposo … dobbiamo trovare il nostro posto di sentinella, sapere quali sono i nostri turni ( i tempi forti ), quali sono i nostri referenti perché il dono non è mai riservato ad una persona sola ma si riflette ed ha risonanza anche per il « popolo » di cui siamo parte.
Certamente il suggerimento della vigilanza non può trovare una sorta di ricettario valido per tutti: ognuno deve trovare i « suoi » modi e cercare la sua fedeltà ad essi.
Fedeltà che rimane unica nella sostanza ma che necessita di aggiustamenti lungo il cammino.
Forse a questo punto si innesta un altro suggerimento di cui tenere conto.
Il Signore, quando ci chiama su questa strada, ci pone accanto delle persone, utilizza delle mediazioni umane.
Nella nostra fragilità, infatti, sarebbe senz'altrò molto pericoloso pretendere di camminare da soli.
Anche nel cammino spirituale se Colui che fa nuovi è sempre e soltanto lo Spirito del Signore, è vero che tale aiuto incontra nella maggioranza dei casi una mediazione, una guida con la quale è possibile un confronto sereno e aperto proprio perché dovrebbe sempre essere impostato nella logica della gratuità e dell'unica ricerca significativa quella cioè della sua Volontà.
Così la persona si pone in atteggiamento di umiltà.
Oggi sembra ormai desueta questa espressione.
Tutta la nostra cultura si pone nell'affannosa ricerca di una autosufficienza, si dice della ricerca di se stessi, della nostra valorizzazione.
Certo raggiungere la consapevolezza delle nostre capacità e anche dei nostri limiti è fare verità; tutto questo dovrebbe portare la persona a riconoscersi soltanto creatura e quindi a cercare il proprio riferimento.
L'atteggiamento umile diventa allora un autentico rimedio alla solitudine in quanto colloca la persona all'interno di relazioni diverse, nella posizione di vera collaborazione riconoscendo che anche altri hanno la possibilità di fare e talvolta anche meglio di noi.
La caratteristica ancora più profonda di tale atteggiamento è la capacità di non voler difendere nulla come proprietà esclusiva, non avere diritti da far valere, bensì saper mettersi attivamente sul cammino insieme con altre persone cercando di spendere completamente i talenti che abbiamo.
Forse l'immagine più efficace dell'umiltà ci viene ancora una volta offerta da Gesù che si accorge del gesto della vedova.
Quello che conta è la radicalità del dono e la donna, nella sua semplicità, senza farsi alcuna propaganda, ha saputo dare tutto quello che possedeva.
Non è forse l'invito che ogni persona consacrata riceve insieme con il dono della vocazione?
L'umiltà comunque non si esprime se non attraverso una grande pazienza.
Forse pensiamo troppo poco al significato di tale espressione.
Nella sua etimologia pazienza racchiude la radice del patire.
In ogni circostanza, infatti, se ci poniamo nella libertà di chi intende obbedire ad un progetto di amore, non si può che arrivare al dono di sé, ad assimilare completamente l'impegno per il Regno.
Questo provoca di fatto una espropriazione che può richiedere dei distacchi, delle sofferenze, delle rinunce.
Solamente quando abbiamo la chiarezza del perché incontriamo questi ostacoli sul nostro cammino possiamo accettarli e trovare allora una grande pace e, quando il Signore lo permette, anche una grande gioia.
Il filo conduttore di tali riflessioni continua ad essere la relazione con questo Signore che ci ama tanto profondamente da farci suoi collaboratori.
Diventa chiaro il fatto che non si può in quest'ottica precedere il Signore, pretendere di intuire anticipatamente che cosa Egli ci chiede, dove Egli ci pone.
La pazienza è sostanzialmente la scelta di seguire Gesù, di accettare i suoi tempi che non sono i nostri spesso tanto miopi, capaci di vedere soltanto e magari neppure completamente quello che viviamo all'istante, senza saper dare spessore e profondità.
In questo senso la pazienza può coincidere anche con la fiducia nel Dio fedele.
Questo percorso è talmente diverso rispetto la concezione del nostro mondo che diventa necessario richiamare un altro atteggiamento necessario al discepolo: il coraggio.
Finora quelli che definiamo rimedi alla nostra solitudine non sono aspetti consolatori di una vicenda quasi insolubile ed ineliminabile: siamo di fronte ad esigenze radicali per la nostra vita che richiedono una risposta decisa anche se realizzata attraverso la povertà dei nostri limiti e delle nostre fatiche.
Non si può accarezzare l'illusione di mettersi nella passività per risolvere i nostri problemi.
Ogni soluzione richiede la forza, il coraggio di una reazione: occorre prendersi in mano almeno con la simpatia con la quale proprio il Signore ci guarda.
Il coraggio è ancora una volta espressione di una fede salda, della convinzione che non siamo soli in questo deserto spesso inospitale.
Lo sguardo alla terra promessa deve essere sempre il riferimento sicuro al valore delle nostre imprese piccole o grandi che possono essere.
Ci troviamo dunque in una dinamica molto interessante anche perché non dipende mai soltanto da noi.
È tanto vero che ci troviamo sempre, in ogni momento della nostra vita, all'interno di un sistema molto complesso che sorge spontanea la domanda: quando avvertiamo il peso della solitudine non sarà che stiamo noi stessi estraniandoci, emarginandoci dal contesto?
Sono gli altri a metterci da parte oppure siamo proprio noi a collocarci ai bordi del cammino con la pretesa di attendere che qualcuno si accorga di noi?
E questa aspettativa non è forse l'equivalente di un sovvertimento di valori, di un mettere noi stessi al centro della realtà anziché il Regno che nella preghiera chiediamo di realizzare?
Arriviamo così ad un'ultima serie di riflessioni.
Nella sua ultima preghiera Gesù chiede al Padre di non togliere i suoi dal mondo, ma di far sì che essi non siano del mondo.
Non possiamo dimenticare questa preoccupazione del Signore.
Essere suoi discepoli significa accettare la sua missione, accettare di diventare « perfetti come il Padre » proprio nella situazione concreta nella quale siamo posti.
La missione è data a ciascuno di noi come un dono.
Nessuno può andare senza avere ricevuto un mandato, anche perché la missione comporta la testimonianza di un messaggio che non è nostro ma Suo.
È significativo il fatto che nel Vangelo non troviamo specificate « le cose » che dobbiamo compiere, bensì viene continuamente richiamata la necessità di testimoniare l'amore, o, con altro termine a noi caro e pregnante, la carità.
Essere carità equivale a dire con tutta la vita la sovrabbondanza di amore del Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi e che fa piovere indifferentemente sui buoni e sui cattivi.
Ma potremmo ancora e più profondamente ricordare che tale amore si è manifestato in Gesù che si è fatto servo di tutti fino al gesto supremo di dare la vita per tutti.
Accettare la missione allora vuoi dire che ciascuno di noi non può chiudersi in se stesso, vivere una sorta di intimismo e lamentarsi poi di trovarsi solo.
La missione dice immediatamente apertura, incontro, dialogo, servizio.
Quando la Madonna ha ricevuto il saluto dell'Angelo ed ha dichiarato la sua disponibilità senza chiedere garanzie particolari ha avuto la gioia immensa di dare la vita al Signore.
Ella cioè ha permesso a Gesù di Nazaret di incontrare tutta l'umanità.
Così ogni volta che noi accettiamo la missione facilitiamo lo sbocciare di una vita, di espressioni che portano linfa vitale, acqua nell'aridità, luce fra le tenebre.
Quello che è meraviglioso è che tale irruzione di vita può avvenire anche nel più oscuro nascondimento.
La missione, infatti, si può realizzare sia contribuendo alla costruzione di una grande opera sociale, umanitaria, economica, politica, sia costretti in un letto senza la possibilità di muovere un dito ma con l'apertura ad affidare al Signore nella preghiera i fratelli che stanno cercando soluzioni per la loro storia personale o per il loro paese o per quelle persone che hanno imboccato strade devianti o di violenza.
Quando accettiamo di essere mandati in missione accettiamo non soltanto la relazione col Signore che ci manda ma l'incontro con i nostri fratelli.
Quando maturiamo la consapevolezza che nessun fratello, vicino o lontano, ci può essere indifferente in quanto ognuno fa parte del grande piano della salvezza ed è importante agli occhi del Signore, allora non possiamo percepire la nostra solitudine nella negatività dell'isolamento.
Non basta dire queste verità per saperle incarnare: dobbiamo chiedere al Signore di avere occhi per vedere il povero lungo il ciglio della strada come il buon samaritano.
Forse anche questi avrà dovuto fare i conti con i suoi impegni, con il tempo che lo sventurato gli sottraeva, con il disagio di interrompere un cammino e forse il pericolo di essere giudicato come l'aggressore.
Servire comporta sempre disagi, espropriazioni, rischi ma consente comunque sempre di rimanere in relazione con qualcuno.
Accettare la missione per un laico vuoi dire accettare di stare in un contesto spesso complicato e inospitale: sarà proprio l'obbedienza ad un piano che ci supera a darci il coraggio per rimanere all'interno della situazione, sapendo che Colui che ci invia, come dice Paolo, è l'Unico a far « crescere ».
Nella crescita del Regno viene situata anche la nostra crescita, ne dobbiamo essere certi.
Lo Spirito consolatore, come lo invochiamo nel Veni Creator, sarà capace di farci avvertire la sua presenza e di non lasciarci mai soli.
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