Osservazioni sulla morale Cattolica |
Il potere attribuito al pentimento, alle cerimonie religiose, alle itidulgenze, tutto contribuiva a persuadere il popolo che la salute, o la dannazione eterna, dipendono dall'assoluzione del prete; e questo fu forse il colpo più, funesto dato alla morale.
Il caso, e non più la virtù, fu chiamato a decidere della sorte eterna dell'anima del moribondo.
L'uomo più virtuoso, colui la cui vita era stata più pura, poteva essere colpito da morte improvvisa, nel momento in cui la collera, il dolore, la sorpresa, gli avevano strappata di bocca una di ( quelle parole profane, che l'abitudine ha reso così comuni, e che, per le decisioni della Chiesa non si possono pronunciare senza cadere in peccato mortale: allora la sua dannazione era eterna, perchè un prete non si era trovato presente per accogliere il suo pentimento, ed aprirgli le porte del cielo.
L'uomo più perverso, più lordo di delitti, poteva, al contrario, provare uno di quei momentanei ritorni alla virtù, che non sono estranei ai cuori più depravati; poteva fare una buona confessione, una buona comunione, una buona morte, ed essere certo del Paradiso.
Queste obiezioni ricadono, la più parte, sulla dottrina che è stata difesa o spiegata nel Capitolo IX; al quale, per conseguenza, ci rimettiamo.
Qui non si farà altro che ragionare sopra alcune supposizioni.
L'opinione erronea, che la salvezza e la dannazione eterna dipendano dall'assoluzione del prete, è sconosciuta in Italia, dove si tiene, come in tutta la Chiesa, che la salvezza dipenda dalla misericordia di Dio e dai meriti di Gesù Cristo applicati all'anima che ha conservata l'innocenza acquistata nel battesimo, o che l'ha recuperata con la penitenza.
L'autorità del prete, d'assolvere dai peccati è tanto chiaramente fondata nelle parole del Vangelo, che ripeterle è attestarla a evidenza: Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete ( Gv 20,21 ).
Ma nessuno ha mai inteso che dall'assoluzione dipenda la salvezza, in maniera che non possa sperarla chi è impossibilitato a ricevere quest'insigne beneficio.
Oltre che l'uomo può conservare per tutta la vita l'innocenza, non commettendo alcuna di quelle colpe che lo rendono nemico di Dio ( e quantunque il mondo non li discerna, non sono cessati i giusti che ci passano senza partecipare alle sue opere ), la Chiesa insegna, e tutti i cattolici credono, che la penitenza a cui manca l'assoluzione, ma non il desiderio di essa, ne la contrizione, è accetta a Dio.
Dando ai ministri l'autorità d'assolvere, avrebbe Egli mai voluto rendere in certi casi impossibile il perdono?
e i doni fatti alla Chiesa possono mai essere a scapito della sua onnipotenza e della sua misericordia?
e perchè si degna impiegare la mano dell'uomo, la sua ne sarà accorciata, sicché Egli non possa salvare quelli che ha convertiti a sé?
Quando poi fosse nata questa falsa persuasione essa non poteva certo venire dalla prima, né dalla terza delle ragioni qui addotte.
Non dal potere attribuito al pentimento, perchè questo potere renderebbe anzi meno necessaria l'assoluzione a un'anima già ritornata a Dio; non dal potere attribuito all'indulgenze, perchè, come già s'è dovuto parlarne, nessuno attribuì mai ad esse quello di salvare dalla dannazione eterna.
Quanto alle cerimonie religiose, non ne parlo, non sapendo a quali precisamente si voglia qui alludere.
La Chiesa è tanto lontana dal sospettare che il caso, e non la virtù, possa decidere della sorte eterna dell'anima del moribondo, che non conosce nemmeno questa parola caso ( hasard ).
Non ripete dal caso né l'essere o no in stato di grazia, né il morire in un momento piuttosto che in un altro.
Se l'uomo virtuoso cade in peccato, non è effetto del caso, ma della sua volontà pervertita; se more in peccato, è un terribile e giusto giudizio.
La Chiesa non suppone che alcun peccato mortale sia compatibile con la conservazione della virtù: quindi se il giusto diventa peccatore, è appunto la virtù, cioè l'avere abbandonata la virtù, che decide della sorte dell'anima sua.
La giustizia del giusto non lo libererà, in qualunque giorno pecchi.
Ma non s'intende il vero spirito della Chiesa, non si dà nemmeno, mi pare, un'idea giusta della natura dell'uomo, se si suppone che decada così facilmente dalla giustizia realmente acquistata; se si vuol credere che la conseguenza naturale della vita più pura sia una morte impenitente e la dannazione eterna.
Certo, il giusto può cadere: la Chiesa glielo rammenta, perchè vegli e perchè sia umile, perchè tema e perchè speri, perchè è una verità.
Se non potesse cadere, sarebbe questa una vita di prova?
Se non potesse esser vinto, dove sarebbe il combattimento?
Se non avesse in tutti i momenti bisogno dell'aiuto divino, che? non dovrebbe più pregare.
Ma la Chiesa vuol levare al giusto la presunzione, non la fiducia.
Come! essa che non parla ai peccatori, che di conversione e di perdono, di penitenza e di consolazione, che rammemora loro i giorni felici che si passano nella casa del Padre, vorrebbe poi contristare gl'innocenti rappresentando il loro stato come uno stato senza fermezza e senza appoggio?
La Chiesa, come già s'è dovuto osservare, non consiglia la speranza, ma la comanda.
Dice a tutti operar la salute con timore e tremore ( Fil 2,2 ): ma dice anche che Dio e fedele, e non permetterà che siano tentati oltre il loro potere ( 1 Cor 10,13 ); ma non cessa di ripetere ai giusti, che chi ha principiata in loro l'opera bona, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù ( Fil 1,6 ).
Le decisioni della Chiesa, che si cada in peccato mortale pronunziando certe parole profane che l'uso ha rese così comuni, non sono qui citate, né io le conosco: e bisognerebbe conoscerle per ragionarne.
La Chiesa è tanto guardinga in queste distinzioni di peccati, il suo linguaggio è così castigato, che importerebbe molto di vedere come abbia potuto discendere a questi particolari, e trattarli con l'autorità e con la dignità che le conviene.
A ogni modo, il giusto della Chiesa, nutrito dei pensieri santi e generosi dell'altra vita, avvezzo a vincer gl'impeti sensuali d'ogni sorte, intento a regolare con la ragione e con la prudenza ogni suo atto, il giusto della Chiesa ha la guardia alla bocca ( Sal 150,1 ).
Nei tempi di calma e di silenzio delle passioni, fortifica l'animo contro la collera, contro il dolore; prega alfine d'esser sempre tanto presente a sé stesso, che non ci sia sorpresa per lui; se cade, ne prende argomento d'umiltà, e di nuova e più instante preghiera.
Io non so chi possa insegnare che una di quelle parole profane distrugga il regno di Dio in un'anima; è però certo che, dove Dio regna, il linguaggio è puro e misurato, e che la Chiesa non vuole educare gli uomini ne a far ciò che un'abitudine qualunque abbia reso comune, né a servirsi d'espressioni appassionate, senza sapienza, senza scopo e senza dignità.
Quanto poi al ritorno momentaneo dell'uomo perverso alla virtù, se n'é ragionato abbastanza, e forse troppo, nel Capitolo IX.
Indice |