Osservazioni sulla morale Cattolica |
Ma le indulgenze gratuite furono considerate come le meno abusive, quelle cioè che, in forza delle concessioni di papi si ottengono con qualche atto esteriore di pietà: però non si saprebbe conciliarne l'esistenza con nessun principio di moralità.
Quando, per esempio, si vedono duecento giorni d'indulgenza promessi per ogni, bacio dato alla croce che s'alza in mezzo al Colosseo, quando si vedono in tutte le chiese d'Italia tante indulgenze plenarie cosi facili a lucrarsi, come conciliare o la giustizia di Dio o la sua misericordia, con il perdono accordato a una si lieve penitenza, o con il castigo riservato a colui che non e in grado di acquistarlo con un mezzo sì facile?
Qui si presentano naturalmente quattro questioni.
1° Cos'è l'Indulgenza ecclesiastica?
2° Ci può essere eccesso nelle concessioni d'indulgenze?
3° Le concessioni eccessive d'indulgenze vanno contro i princìpi della moralità?
4° Se non producono quest'effetto, qual effetto producono?
Per risolvere queste questioni, in quanto è richiesto dall'argomento, non abbiamo a far altro che rammentare in compendio ciò che è insegnato universalmente nella Chiesa per l'istruzione dei fedeli che vogliono profittare dell'Indulgenze, e ciò che è deciso da essa, per la regola di quelli a cui è data dal suo divin fondatore la potestà di concederle.
Ne prendo la definizione dal catechismo della diocesi di Milano, che concorda con tutti i catechismi approvati dalla Chiesa.
L'indulgenza è una remissione di penitenze o pene temporali, che rimangono da scontare per i peccati già rimessi quanto al reato della colpa e della pena eterna ».
Senza dubbio: il IV concilio di Laterano e quello di Trento hanno parlato di quest'eccesso, e ne hanno o prescritti o indicati i rimedi.
No, di certo.
La maniera di dispensar l'indulgenze, dice il Bossuet, riguarda la disciplina.
Posto ciò, le concessioni eccessive saranno bensì un abuso; ma gli abusi di fatto non possono alterare i princìpi della moralità, i quali non appartengono alla disciplina, ma alla fede.
Essendo ogni principio di moralità un domma, non può esser contradetto che da un errore dommatico.
Vediamo ora, più in particolare, come i princìpi della moralità rimangano intatti, anche con ogni possibile eccesso di concessioni d'indulgenze.
La cosa essenziale, in primo grado, a ristabilire la moralità dell'uomo caduto nella colpa, è la rettitudine, o piuttosto il raddirizzamento della volontà e, per conseguenza, dell'opere, quando e fin dove ci sia la possibilità d'operare.
E questa cosa essenziale, l'indulgenza, non che essere un mezzo di farne di meno, la suppone e l'esige, poiché non è concessa se non a chi è stata rimessa la colpa, cioè all'uomo che sia in stato di grazia; parole che significano: amor di Dio e dei suoi comandamenti, dolore e detestazione dei peccati commessi, avversione al peccato di qualunque sorte, amor degli uomini senza eccezione, perdono dell'offese ricevute, riparazione dei torti fatti, adempimento di tutti i doveri essenziali, insomma la conformità dell'animo e dell'azioni alla legge divina.
Dico cose note al cattolico, anche il più rozzo, purché sia capace di confessarsi; giacché l'assoluzione, per la quale il peccatore è rimesso in stato di grazia, non è data, o non é valida, se non a queste condizioni.
E dico insieme cose che importano una moralità sconosciuta ai più acuti e profondi pensatori del gentilesimo; quella moralità manifestata dalla rivelazione, e che s'estende, come oggetto, a tutto il bene, e come regola, a tutto l'uomo.
Con questa osservazione è levato di mezzo l'equivoco che potrebbe nascere da quelle parole: Come conciliare la giustizia di Dio col perdono accordato a una così debole penitenza?
Le opere alle quali è annessa l'indulgenza, non servono punto a ottenere il perdono della colpa, per la quale il peccatore é riconciliato con Dio.
Questo perdono è anzi, come s'è visto, un preliminare necessario all'acquisto dell'indulgenza; e si ttiene per quei mezzi eminentemente e soprannaturalmente morali, di cui s'è discorso in un capitolo antecedente.
L'indulgenza dunque non s'applica, come s'è visto ugualmente, se non alla soddisfazione della pena porale, dovuta per il peccato alla giustizia divina, anche dopo rimessa la colpa, e la pena eterna.
Ed è la Chiesa che insegna ( certo, non senza oppositori ) che al peccatore riconciliato rimane un tal debito; e mette per un'altra condizione essenziale al ristabilimento nelle stato di grazia ( cioè in uno stato di moralità soprannaturale ) il riconoscimento del debito medesimo, e il sincero e fermo proposito di scontarlo, per quanto possa, in questa vita, con opere penitenziali, sia ingiunte, sia liberamente scelte, e con l'accettar pazientemente i castighi temporali che gli possono essere mandati da Dio.
Non già che le nostre opere abbiano alcun valore a ciò, né che noi possiamo, in maniera veruna, scontar di nostro il debito contratto con la giustizia infinita offesa da noi; ma i meriti infiniti dell'Uomo-Dio, i quali ci ottengono il perdono della colpa, sono anche quelli che danno alle nostre opere penitenziali un valore che le rende atte a scontarne la pena.
E la Chiesa, o prescrivendo o proponendo alcune di queste opere, applica ad esse, in maniera particolare, un tal valore, per l'autorità conferitale da Quello stesso, da cui procede ogni merito.
Ma intende forse, con questo, di restringere a tali opere tutto l'obbligo e tutto il lavoro della penitenza?
Per immaginarsi una cosa simile, bisognerebbe non aver cognizione veruna del suo insegnamento su questa materia.
Cito dinuovo, come un saggio di questo universale insegnamento il catechismo citato dianzi; il quale alla domanda: « Con quale spirito ho da procurare l'acquisto dell'indulgenze? risponde: Fate prima dalla parte vostra tutto ciò che potete per soddisfare a Dio coll'esercitarvi in ogni opera salutare, e massime in quelle di mortificazione e di misericordia verso i prossimi.
Poi, conoscendo di non poter soddisfare abbastanza per i vostri peccati, né colle penitenze imposte dal confessore, né colle vostre spontanee, e ben sapendo di non aver tollerati colla debita pazienza e rassegnazione i flagelli, coi quali Dio v'ha amorosamente visitato a questo fine, procurate con ogni studio d'acquistar l'Indulgenze, profittando così dello spirito caritatevole della Chiesa nel dispensarle »
Ed ecco come, col richiedere per condizioni indispensabili, la conversione del core, e il desiderio di soddisfare, per quanto si possa, alla giustizia divina, desiderio che non è sincero, se non s'accompagna con una vita penitente; ecco, dico, come, non solo l'indulgenza in genere, ma la più ampia indulgenza concessa alla più piccola opera si concilii con tutti i princìpi della moralità.
Ma come conciliare la misericordia di Dio col castigo riservato a chi non è in caso di guadagnare il perdono per questa strada così facile?
Si osservi che è quasi impossibile il caso di un fedele, a cui sia chiusa ogni strada di ricorrere all'indulgenze della Chiesa.
Ma supponendo questo caso, la Chiesa è ben lungi dall'asserire che a questo fedele si riservi gastigo.
Essa dispensa i mezzi ordinari di misericordia che Dio le ha confidati; ma è ben lungi dal voler circoscrivere questa misericordia infinita; dal pensare che Quel che leva e quando e cui gli piace non possa concedere la somma indulgenza al sommo desiderio d'ottenerla per mezzo della Chiesa, quando sia chiusa la strada di chiederla per questo mezzo.
Un effetto dannoso certamente, come tutti gli eccessi e non occorre affaticarsi a cercarlo, poiché ce lo indica il concilio di Trento.
L'effetto è di snervare la disciplina.
« Il Sacrosanto Sinodo desidera che, nel concedere l'indulgenze, s'usi moderazione, secondo la consuetudine antica e approvata dalla Chiesa, acciocché con la troppa facilità non si snervi la disciplina ecclesiastica ».
Infatti, « essendo le pene soddisfattorie, come un freno al peccar dinuovo, e avendo l'efficacia di rendere i penitenti più cauti e vigilanti nell'avvenire … e di distruggere gli abiti viziosi con l'opposte azioni virtuose », come insegna il medesimo concilio; l'eccessiva diminuzione di queste pene, vien quasi a far loro perdere questo vantaggio; e la stessa ragione di previdente misericordia per cui sono imposte, non solo come espiazione, ma anche come rimedio e aiuto, consiglia la moderazione nel concederne la remissione.
Ma l'eccesso si trova egli negli esempi citati e accennati dall'autore?
Non tocca a me a deciderlo, ne importa qui il deciderlo, essendosi dimostrato come l'indulgenze s'accordino coi princìpi della moralità: che era appunto la questione.
Non sarà invece fuor di proposito l'osservare un altro esempio d'accuse che si contradicono.
Quella che s'è esaminata, cadeva sulla leggerezza delle penitenze imposte per soddisfare alla giustizia divina: accusa nella quale è supposto e l'obbligo che ne rimane al peccatore, anche riconciliato, e l'attitudine a ciò dell'opere penitenziali.
Obbligo e attitudine, che furono dai novatori citati sopra, e da Calvino principalmente, dichiarati una vana immaginazione, anzi una esecrabile bestemmia, un rapire a Cristo l'onore che Gli appartiene d'esser Lui solo oblazione, espiazione, soddisfazione per i peccati.
Rapir l'onore a Cristo, il dire che opere per sé morte, e patimenti sterili per l'eterna salute, possano, dalla sua gloriosa vittoria sopra il peccato, acquistar vita e virtù!
Come se non fosse questo medesimo un confessar la sua infinita potenza, non meno che l'infinita sua bontà; o come se la Chiesa attribuisse a quell'opere e a quei patimenti altro valore che quello che hanno da Lui, nel quale viviamo, nei quale meritiamo, nel quale soddisfacciamo!
Come se non fosse un effetto, dirò così, naturale dell'accordo operato dalla Redenzione, tra la giustizia e la misericordia, il commettere la vendetta dell'offesa all'offensore medesimo, e far della punizione un sacrifizio volontario!
E si veda come la verità strascini qualche volta verso di se anche chi le volge risolutamente le spalle, e lo sforzi ad avvicinarsele, se non a riconoscerla intera qual è.
Calvino medesimo, interpretando quel luogo di san Paolo: Do compimento nella mia carne a ciò che rimane dei patimenti di Cristo ( Col 1,24 ); dopo aver pronunziato che ciò non si riferisce a espiazione ne a soddisfazione di sorte veruna, ma a que' patimenti coi qtiali conviene che i membri di Cristo, ciac i fedeli, siano provati, finche rimangono nella carne, spiega così questo pensiero: Dice ( san Paolo ) che ciò che rimane dei patimenti di Cristo, e il patire che fa di continuo nei suoi membri, dopo aver patito una volta in se stesso.
Di tanto onore Cristo ci fa degni, da riguardar come suoi i nostri patimenti!
È Cristo che patisce nei suoi membri e questi patimenti rimangono sterili, e non hanno alcuna virtù d'espiare!
Cristo si degna di riguardarli come suoi; e il Padre ne rigetta l'offerta, come ingiuriosa a Cristo! ed è una esecrabile bestemmia il dire che, per questa e per questa sola ineffabile degnazione, possono essere uniti coi suoi, e partecipar così del loro merito infinito!
Del rimanente, anche quest'argomento dei novatori contro la dottrina cattolica non avrebbe forza che contro la loro, se n'avesse veruna.
Infatti, per mantenere intero e illibato a Cristo l'Vonore che gli appartiene, dissero forse che la soddisfazione offerta da Lui alla giustizia divina, per i peccati, s'applichi da se a tutti i peccatori?
Non già; ma ai soli giustificati, e giustificati per la loro fede nella promessa.
E, cosa strana! non avvertirono mai, in dispute così lunghe, e in tanta ripetizione dello stesso argomento, che il credere è un atto umano, ne più ne meno dell'operare, e che, col farne una condizione riguardo all'effetto, facevano anch'essi dipendere, per una parte, dall'uomo, cioè da ogni uomo in particolare, l'esser quella soddisfazione applicata a lui: che era la sola cosa in questione; giacche l'efficacia intrinseca, la perfezione, la pienezza, la sovrabbondanza di essa non fu mai messa in questione nella Chiesa; per l'insegnamento della quale, ne avevano, di certo, avuta cognizione essi medesimi, prima di trovarla nelle Scritture.
Quella condizione, dico, rapirebbe davvero l'onore a Cristo, se l'onor di Cristo dovesse consistere, com'essi pretesero, nel non lasciar nulla a fare all'uomo, al quale ha dato di poter tutto in Lui.
La Chiesa, lontana del pari e dall'insegnare una cosa simile, e da n'attribuire all'uomo alcun onore che abbia principio da lui, riconosce da Cristo ugualmente e la fede e il valore dell'opere; e lo glorifica e lo benedice d'aver, col suo onnipptente sacrifizio, rinnovato tutto l'uomo, e fatto che, siccome tutte le facoltà di questo avevano potuto servire alla disubbidienza e alla perdizione, così potessero tutte diventare istrumento di riparazione e di merito.
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