Osservazioni sulla morale Cattolica

Capitolo XVIII

Sul segreto della morale, sui fedeli scrupolosi, e sui direttori di coscienze

La morale è diventata non solamente la loro scienza, ma anche il loro segreto ( dei dottori dommatici ).

Il deposito di essa è interamente nelle mani dei confessori e dei direttori delle coscienze.

Se i confessori in Italia hanno fatto della morale un segreto, si sono dunque dimenticati che il Salvatore e Maestro di tutti aveva detto agli apostoli: Dite in fieno giorno quello che io vi dico all'oscuro, e predicate sui tetti quello che v'è stato detto in un orecchio ( Mt 10,27 ); si sono dimenticati che, negli ultimi momenti del suo soggiorno sulla terra, aveva rinnovato un tal precetto, con quelle solenni parole: Istruite tutte le genti insegnando loro d'osservare tutto quello ch'io v'ho comandato ( Mt 28,19-20 ).

Ma quali sono tra di noi i libri riservati ai soli dottori dommatici?

Come si trasmettono essi questo segreto?

Non ha detto poco sopra l'illustre autore, che la morale propriamente detta non ha cessato di essere l'oggetto delle predicazioni della Chiesa?

Di cosa parlano i parrochi dall'altare, di cosa parlano tutti i trattati di morale, che ognuno può consultare?

Il fedele scrupoloso deve, in Italia, abdicare alla più bella facoltà dell'uomo, quella di studiare e conoscere i suoi doveri.

Ma il clero in Italia non cessa di gridare contro la negligenza nell'istruirsi in quella legge sulla quale saremo giudicati; ma inculca ai parenti l'obbligo d'ammaestrare i loro figli in tutti i loro doveri; ma, lungi dal far abdicare ad alcuno la facoltà di conoscerli, intima a tutti, che essa diverrà la condanna di chi non avrà voluto usarla.

Gli si raccomanda ( al fedele scrupoloso ) di interdirsi un pensiero che potrebbe fuorviarlo un orgoglio umano che potrebbe sedurlo.

Chi vorrà discolpare su questo punto il clero italiano?

Se così è, non resta a desiderare altro se non che sia sempre così, e che queste raccomandazioni siano universali, costanti, figlie della scienza e della carità, che il clero non abbia mai altro linguaggio; poiché quello del Vangelo.

Del resto, al fedele scrupoloso ( intendendo questo termine nel suo stretto senso ) si raccomanda in Italia, come altrove, d'interdirsi l'eccessive e lunghe considefermarsi sull'idee ilari e confortevoli di fiducia in Dio, razioni sopra ogni azione e sopra ogni pensiero, e di e della sua misericordia.

Non sarà qui fuori di proposito l'osservare come questa malattia morale attesti nello stesso tempo, e la miseria dell'uomo, e la bellezza della religione.

Lo scrupoloso ci mette del suo l'incertezza, la trepidazione, la perturbazione, la diffidenza, disposizioni purtroppo naturali all'uomo, e che in alcuni sono predominanti a segno che governano, o piuttosto intralciano tutte le loro operazioni.

Ma è una cosa molto notabile, che quell'angustia che l'avaro mette nella conservazione della roba, l'ambizioso nel mantenimento e nell'aumento della sua potenza, quella penosa e minuta sollecitudine che tanti hanno, per gli oggetti delle loro passioni, si eserciti da alcuni cristiani, intorno a che? all'adempimento dei loro doveri.

ia tendenza alla perfezione è tanto propria alla religione, che si manifesta perfino ne' traviamenti e nelle miserie dell'uomo che la professa.

Un animo occupato dal timore di non essere giusto abbastanza, fino a perderne la tranquillità, potrebbe quasi parere un miracolo di virtù, se la religione stessa, tanto superiore al discernimento umano, non ci facesse vedere in quell'animo delle disposizioni contrarie alla fiducia, all'umiltà e alla libertà cristiana; se non ci desse l'idea d'una virtù da cui è escluso ogni movimento disordinato, e la quale, quanto più si perfeziona, tanto più si trova vicina alla calma e alla somma ragione.

E ogni volta che egli ( lo scrupoloso ) incontra un dubbio, ogni volta che la sua posizione diviene difficile, deve ricorrere alla sua guida spirituale.

Così la prova dell'avversità, che è fatta per elevare l'uomo, lo rende sempre più servo.

Non c'è forse scoperta più amara all'orgoglio, che l'accorgersi d'essere stato, per troppa semplicità, un cieco istrumento d'un'astuta dominazione, d'avere ubbidito a dei voleri ambiziosi, credendo di seguire dei consigli salutari.

A quest'idea, le passioni compagne dell'orgoglio si sollevano con tanto più di veemenza, in quanto trovano un appoggio nella ragione.

Perchè, è certo che Dio vuole che la mente si perfezioni nella considerazione dei suoi doveri, e nella libera scelta del bene e l'uomo che si lascia rapire arbitrariamente il governo della sua volontà, rinunzia alla vigilanza delle sue azioni, delle quali non renderà meno conto per ciò.

Il solo sospetto di questa debolezza può quindi portar l'uomo ai pensieri più inconsiderati, e fargli dire senza cagione, e a suo gran danno: Spezziamo le loro catene, e buttiamoci d'addosso il loro giogo.

Importa perciò sommamente di separare la voce dell'orgoglio da quella della ragione, perchè unite non ci facciano forza, e d'esaminare tranquillamente quale deva essere, in questa parte, la condotta ragionevole e dignitosa d'un cristiano.

Si possono considerare nel sacerdozio due sorte d'autorità: quella che viene da Dio, e forma l'essenza della missione, l'autorità d'insegnare, di sciogliere e di legare; e un'altra autorità che può esser data volontariamente, in riguardo della prima, da questo e da quel fedele, a questo o a quel sacerdote, per una venerazione e per una fiducia speciale.

In quanto alla prima, essa è essenziale al cristianesimo: il sottomettercisi non è servitù, ma ragione e dignità.

Non c'è atto di questa, che non sia un atto di servizio, in cui il sacerdote non comparisca come ministro di un'autorità divina, alla quale è sottomesso anche lui, come tutti i fedeli; non ce n'è alcuno che offenda la nobiltà del cristiano.

Sì, noi, cioè tutti i cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal papa, c'inginocchiamo davanti a un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni.

Ma quando un sacerdote, fremendo in spirito della sua indegnità e dell'altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell'alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da' suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà.

C'eravamo forse stati a mendicare speranze terrene?

Gli abbiamo forse parlato di lui?

Abbiamo forse tollerata una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli?

Non s'è trattato tra di noi, che d'una miseria comune a tutti, e d'una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno.

Siamo stati ai piedi d'un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l'animo alla bassezza, il giogo delle passioni, l'amore delle cose passeggiere del mondo, il timore dei suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi, e di figlioli di Dio ( Sal 2,3 ).

In quanto all'autorità del secondo genere, essa è fondata su un principio ragionevolissimo; ma può avere e ha purtroppo i suoi abusi.

Per non giudicare precipitosamente in ciò, un cristiano deve, a mio credere, non perder mai di vista due cose: una, che l'uomo può abusare delle cose più sante; l'altra, che il mondo suol dare il nome d'abuso anche alle cose più sante.

Quando siamo tacciati di superstizione, di fanatismo, di dominazione, di servilità, riconosciamo pure, che la taccia può purtroppo esser fondata; ma esaminiamo poi se lo sia, giacché queste parole sono spesso impiegate a qualificare l'azioni e i sentimenti che prescrive il Vangelo.

Ricorrere, per consiglio, alla sua guida spirituale, nei casi dubbi, non è farsi schiavo dell'uomo; è fare un nobile esercizio della propria libertà.

Ed è forse superfluo l'osservare che una tal massima e una tal pratica non sono punto particolari all'Italia, ma comuni ai cattolici di qualunque paese.

L'uomo che deve esser giudice in causa propria, e che desidera d'operare secondo la legge divina, non può a meno di non accorgersi che l'interesse e la prevenzione inceppano la libertà del suo giudizio; ed è savio se ricorre a un consigliere, il quale, e per istituto e per ministero, deve aver meditata quella legge, e esser più capace d'applicarla imparzialmente; a un uomo che dev'esser nutrito di preghiera, e che, avvezzo alla contemplazione delle cose del cielo, e al sagrifizìo di se stesso, deve sapere, in particolar maniera, stimar le cose col peso del santuario.

Ma del consiglio che gli vien dato, è sempre giudice lui: la decisione dipende dal suo convincimento; tanto è vero, che gli sarà chiesta ragione, non solo di questa, ma della scelta medesima del consigliere.

E non s'è mai lasciato di predicare nella Chiesa, che se un cieco ne guida un altro, tutte due cadono nella fossa ( Mt 15,14 ).

Purtroppo, quelle due miserabili e opposte tendenze di servilità e di dominazione hanno radice l'una e l'altra nel nostro cuore indebolito dalla colpa.

Pigri e irresoluti, buttiamo volentieri sugli altri il peso dell'anima nostra, e siamo facili a contentarci di tutto ciò che ci risparmia una deliberazione.

E dall'altra parte, quando un uomo confidi in noi, rincorati dal suffragio, superbi d'estendere il dominio della nostra piccola volontà, siamo subito tentati di servire a questa più che all'utilità degli altri, siamo tentati di dimenticare che l'uomo è nato a un ben più alto esercizio delle sue facoltà, che a signoreggiare le altrui.

Queste debolezze della natura umana possono purtroppo produrre degl'inconvenienti nell'uso del consiglio; e ciò dev'essere per tutti i cristiani un soggetto di confusione e di vigilanza.

Ma abbandonare le guide che Dio ci ha date, ma buttar via il sale della terra ( Mt 5,13 ), ma privarsi d'un aiuto necessario perchè può aver con sé dei pericoli, ma non vedere altro che dominatori e che intriganti, tra tanti pastori zelanti e disinteressati, che tremano nel dare il consiglio, e che si riputerebbero stolti, se volessero usurpare un'autorità eccessiva, e esporsi con ciò a un giudizio spaventoso; lungi da noi questi pensieri che ci condurrebbero a rendere in parte inutile il ministero istituito per noi.

E quegli stesso che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe render conto delle regole che egli sì e imposte.

I precetti del Decalogo, le massime e lo spirito del Vangelo, le prescrizioni della Chiesa, ecco le regole che il cattolico virtuoso si propone, e delle quali può rendersi conto quando voglia.

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