Il potere della croce |
Che significa il rito che stiamo compiendo? Perché ci siamo riuniti questa sera?
La risposta più ovvia è: per commemorare la morte del Signore! Ma non basta.
La Pasqua - ha scritto sant'Agostino - non si celebra a modo di anniversario, ma a modo di mistero ( sacramentum ).
Ora, si ha una celebrazione a modo di mistero, quando non ci si accontenta di rievocare un avvenimento del passato nel giorno in cui esso accadde, ma lo si rievoca in modo da prendere parte a esso.1
I riti del triduo pasquale non hanno dunque un significato soltanto storico o morale ( commemorare degli eventi, esortarci all'imitazione ), ma hanno un significato mistico.
In essi deve avvenire qualcosa.
Non si può rimanerne fuori, come semplici spettatori o ascoltatori; bisogna entrarvi dentro, diventarne "attori" e parte in causa.
Noi siamo dunque qui, questa sera, per compiere una "azione", e non soltanto una "rievocazione".
E l'azione da compiere è questa: essere battezzati nella morte di Cristo!
Ascoltiamo l'apostolo Paolo; egli scrive: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte.
Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» ( Rm 6,3-4 ).
Viene spontaneo domandarsi: Ma tutto questo non è avvenuto già il giorno del nostro battesimo?
Cosa ci resta ancora da fare che non sia già compiuto?
Dobbiamo rispondere: sì e no.
Tutto questo è avvenuto e deve avvenire.
Se essere battezzati significa essere « sepolti insieme con Cristo nella morte », allora il nostro battesimo non è ancora concluso.
Nel rituale del battesimo c'è, da sempre, una formula breve destinata a essere usata per i bambini che vengono battezzati in articulo mortis, cioè in pericolo di morte.
Una volta superato il pericolo, questi bambini devono essere condotti nuovamente in chiesa, per completare su di essi i riti mancanti.
Ebbene, noi cristiani di oggi siamo un po' tutti dei battezzati in articulo mortis.
Siamo stati battezzati in fretta, nei primi giorni di vita, per timore che la morte ci cogliesse senza battesimo.
È una prassi legittima; risale addirittura alle soglie dell'era apostolica.
Solo che, una volta diventati adulti, bisogna, anche in questo caso, completare il battesimo ricevuto.
E completarlo, non con dei riti supplementari e accidentali, ma con una cosa essenziale, che decide dell'efficacia stessa del sacramento, anche se non della sua validità.
Di che cosa si tratta? Gesù dice: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo » ( Mc 16,16 ).
Chi crederà e sarà battezzato; due cose appaiono sempre unite, nel Nuovo Testamento, quando si parla dell'inizio della salvezza: fede e battesimo. ( Gv 1,12; At 16,30-33, Gal 3,26-27 )
Il battesimo è il « sigillo divino posto sulla fede del credente ».2
Si tratta però di una fede speciale che coinvolge tutta la persona, la fede-conversione: « Convertitevi e credete al Vangelo » ( Mc 1,15 ), o anche di una fede-pentimento: « Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo » ( At 2,38 ).
All'inizio della Chiesa, si arrivava al battesimo attraverso un processo di conversione che coinvolgeva tutta la vita.
La rottura con il passato e l'inizio di una vita nuova erano resi visibili dal simbolismo del rito.
Il catecumeno si spogliava delle sue vesti e si calava nelle acque; per un istante, veniva a trovarsi senza luce, senza respiro, scomparso al mondo e come sepolto.
Quindi riemergeva alla luce del mondo.
Ma non erano più, per lui, la luce e il mondo di prima; erano una nuova luce e un nuovo mondo.
Era « rinato dall'acqua e dallo Spirito ».
È possibile ripetere, nell'attuale situazione, questa esperienza così forte?
Sì, è possibile; anzi, è volontà di Dio che ciò avvenga una volta nella vita di ogni cristiano.
Gesù disse un giorno: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! » ( Lc 12,49-50 ).
Era alla sua morte che Gesù pensava nel pronunciare queste parole, come indica l'immagine del battesimo usata anche altre volte in tale senso ( Mc 10,38 ).
Con la sua morte di croce, Gesù ha come acceso un fuoco nel mondo e inaugurato, nel suo fianco squarciato, un battistero.
Essi restano aperti fino alla fine del mondo, perché Gesù « messo a morte nella carne, vive nello Spirito» ( 1 Pt 3,18 ).
Anzi, quel fuoco sempre acceso è proprio il suo Spirito, di cui è detto che «resterà con noi per sempre» ( Gv 14,16 ).
Grazie a questo Spirito che vive, tutto ciò che riguarda Gesù, è di oggi, è attuale.
Noi possiamo dire che oggi Cristo muore, oggi scende agli inferi e fra due giorni risorgerà.
Ogni anno è come se le acque di questo misterioso battistero tornassero ad agitarsi, come l'acqua della piscina di Betesda, perché chi vuole possa tuffarvisi ed essere risanato.
Essere battezzati nella morte di Cristo è entrare nel roveto ardente; è passare attraverso un'agonia, perché sono purificazioni, aridità, croci.
Ma un'agonia che, anziché preludere alla morte, prelude alla nascita; un'agonia-parto.
Essere battezzati nella sua morte è entrare nel cuore di Cristo, prendere parte al dramma dell'amore e del dolore di Dio.
Essere battezzati nella sua morte è qualcosa che non si può descrivere, ma che si deve vivere.
Da esso si esce creature nuove, pronte per servire, in modo nuovo, il Regno.
Ma diamo un contenuto concreto a tutto ciò.
Cosa significa essere battezzati nella morte di Cristo?
Paolo continua dicendo: « Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio.
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù » ( Rm 6,10-11 ).
Essere battezzati nella morte di Cristo significa dunque questo: morire al peccato e vivere per Dio!
Morire al peccato, o « rompere definitivamente con il peccato » ( 1 Pt 4,1 ) implica una cosa precisa: prendere la decisione ferma e, per quanto sta in noi, irrevocabile di non commettere più il peccato volontario, specialmente "quel peccato" al quale siamo ancora un po' segretamente attaccati.
Lo scopo e la meta ultima non è la morte, ma la vita; anzi, la novità di vita, la risurrezione, la gioia, l'esperienza indicibile dell'amore del Padre.
Ma tutto questo è la parte di Dio; è come la veste nuova che egli tiene pronta per chi risale dalle acque del battesimo.
Dobbiamo lasciare a Dio di fare la sua parte, sapendo che la sua fedeltà è fondata nei cieli.
Noi dobbiamo fare la nostra parte e la nostra parte è: morire al peccato; uscire dalla connivenza con il peccato, dalla solidarietà, anche tacita, con esso.
Uscire da Babilonia.
Babilonia - spiega sant'Agostino nel De civitate Dei - è la città costruita sull'amore di sé che si spingè fino al disprezzo di Dio; è la città di satana.
Babilonia è perciò la menzogna, è il vivere per se stessi, per la propria gloria.
A questa Babilonia spirituale allude la parola di Dio, quando dice: « Uscite, popolo mio, da Babilonia, per non associarvi ai suoi peccati e non ricevere parte dei suoi flagelli » ( Ap 18,4 ).
Non si tratta di uscire materialmente dalla città e dalla solidarietà con gli uomini.
Si tratta di uscire da una situazione morale, non da un luogo.
Non è una fuga dal mondo, ma una fuga dal peccato.
Morire al peccato significa entrare nel giudizio di Dio.
Dio guarda questo mondo e lo giudica.
Il suo giudizio è l'unico che traccia una linea precisa di demarcazione tra bene e male, tra luce e tenebre.
Il suo giudizio non muta con le mode.
Convertirci vuoi dire attraversare il muro della menzogna e andare a stare dalla parte della verità, cioè di Dio.
Tutto si decide quando un uomo dice a Dio, con il salmista: « Riconosco la mia colpa…; sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio » ( Sal 51,5s ).
Cioè: io accetto, o Dio, il tuo giudizio su di me; esso è retto e santo; esso è amore, è salvezza per me!
Con la venuta di Gesù, questo "giudizio" di Dio si è fatto visibile, si è come materializzato e storicizzato: è la croce di Cristo!
Egli disse prima di morire, alludendo proprio alla sua morte di croce: « Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori » ( Gv 12,31 ).
La croce è il potente "no" di Dio al peccato.
Essa è stata piantata, come albero di vita, in mezzo alla piazza della città ( Ap 22,2 ), in mezzo alla Chiesa e al mondo, e nessuno più potrà svellerla di lì, o sostituirla con altri criteri.
Anche oggi, come al tempo dell'apostolo Paolo, "i greci", cioè i dotti, i filosofi, i teologi, cercano sapienza; "i giudei", cioè i pii, i credenti, cercano segni, cercano realizzazioni, efficienza, risultati; ma la Chiesa continua a predicare Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,22-23 ).
L'11 novembre del 1215, il papa Innocenze III aprì il concilio ecumenico Lateranense IV, tenendo un memorabile discorso.
Partì dalle parole di Gesù che, mettendosi a tavola prima di morire, disse: « Ho desiderato ardentemente fare questa Pasqua con voi » ( Lc 22,15 ).
Pasqua - spiegò il Pontefice - significa passaggio.
C'è un triplice passaggio che Gesù desidera fare con noi anche oggi: un passaggio corporale, un passaggio spirituale e un passaggio eterno.
Il passaggio corporale era, per il Pontefice, il passaggio verso Gerusalemme per riconquistare il Santo Sepolcro; il passaggio spirituale era il passaggio dai vizi alla virtù, dal peccato alla grazia, dunque il rinnovamento morale della Chiesa; il passaggio eterno era il passaggio definitivo da questo mondo al Padre, la morte.
Il Papa insisteva, nel suo discorso, soprattutto sul passaggio spirituale: la riforma morale dellaChiesa, e specialmente del clero; era la cosa che più gli stava a cuore.
Anzi, vecchio com'era, diceva di voler passare lui stesso attraverso tutta la Chiesa, come l'uomo vestito di lino con una borsa da scriba al fianco, di cui parla il profeta Ezechiele ( Ez 9,1ss ), per segnare il Tau penitenziale sulla fronte degli uomini che, come lui, piangevano e si affliggevano per gli abomini che si commettevano nella Chiesa e nel mondo.
Non potè realizzare questo sogno, perché giunse per lui, dopo pochi mesi, la morte ed egli compì il terzo passaggio, quello alla Gerusalemme celeste.
Ma nella basilica del Laterano, dove Innocenze III tenne il suo discorso, confuso tra la folla e forse non conosciuto da nessuno, c'era - secondo la tradizione - un poverello: c'era Francesco d'Assisi!
È certo, in ogni caso, che egli raccolse l'ardente desiderio del Papa e lo fece suo.
Tornando tra i suoi, da quel giorno cominciò a predicare, ancora più intensamente di prima, la penitenza e la conversione e cominciò a segnare un Tau sulla fronte di coloro che si convenivano sinceramente a Cristo.
Il Tau, questo segno profetico della croce di Cristo, divenne il suo sigillo.
Con esso firmava le sue lettere, lo disegnava sulle celle dei frati, tanto che san Bonaventura potè dire, dopo la sua morte: « Egli ebbe dal cielo la missione di chiamare gli uomini a piangere, a lamentarsi, a radersi la testa e a cingere il sacco, e di imprimere, con il segno della croce penitenziale, il Tau sulla fronte di coloro che gemono e piangono ».3
Fu questa la "crociata" che Francesco scelse per sé: segnare la croce, non sulle vesti o sulle armi, per combattere gli "infedeli", ma segnarla nel cuore, suo e dei fratelli, per eliminare l'infedeltà dal popolo di Dio.
Egli ebbe questa missione « dal cielo », scrive san Bonaventura; ma ora sappiamo che la ebbe anche
dalla Chiesa, dal Papa.
Volle essere un umile strumento a servizio della Chiesa e della gerarchia, per realizzare il rinnovamento voluto dal Concilio ecumenico del suo tempo.
Celebrando quest'anno l'ottavo centenario della nascita del Poverello di Assisi, noi chiediamo a Dio che mandi alla sua Chiesa di oggi, impegnata anch'essa a realizzare il rinnovamento voluto da un Concilio ecumenico, il Vaticano II, uomini come Francesco, capaci di mettersi, come lui, a servizio della Chiesa e di chiamare gli uomini a riconciliarsi con Dio e tra di loro mediante il pentimento e la conversione.
Indice |
1 | Agostino, Epistola 55,1,2 |
2 | Basilio Magno, Contro Eunomio, 3, 5 (PG 29, 665) |
3 | Bonaventura, Leggenda maggiore, Prologo (Fonti Francescane, n. 1022) |