Il potere della croce |
La parte centrale della liturgia che stiamo celebrando è l'adorazione della croce che inizierà, tra breve, con il rito dello svela mento.
Il Santo Padre riceve dal diacono la croce coperta da un velo viola e ne scopre ogni volta una parte, per tre volte, fino al suo pieno svelamento.
Il gesto è accompagnato dalle solenni parole: « Ecce lignum crucis in quo salus mundi pependit »: « Ecco il legno della croce a cui fu appesa la salvezza del mondo ».
Io vedo simboleggiata in questo antico rito la progressiva rivelazione del mistero della croce nel corso dei secoli.
Ognuno dei tre svelamenti rappresenta un'epoca o una fase della storia della salvezza: il primo svelamento rappresenta la croce prefigurata nell'Antico Testamento; il secondo, la croce realizzata nella vita di Gesù, la "croce della storia"; il terzo, la croce celebrata nel tempo della Chiesa, la "croce della fede".
La croce attraversa, come si vede, l'interà storia della salvezza.
È presente nell'Antico Testamento come figura, è presente nel Nuovo Testamento come evento ed è presente nel tempo della Chiesa come sacramento, o come mistero.
Cosa rappresenta il "legno", o "l'albero" nell'Antico Testamento?
Esso è l'albero della vita piantato in mezzo al giardino, l'albero della conoscenza del bene e del male, intorno al quale si consuma la ribellione, pretendendo l'uomo di stabilire lui stesso ciò che è bene e ciò che è male.
Nel Deuteronomio ricompare il legno associato alla maledizione: « Maledetto - è scritto - colui che pende dal legno » ( Dt 21,23 ).
Ma si annuncia anche un ruolo positivo del legno in passi che, alla luce del futuro compimento, saranno visti come profezie della croce.
Con il legno fu fabbricata l'arca nella quale l'umanità si salvò dal diluvio; con il legno di un bastone Mosè percosse le acque del Mar Rosso che si aprirono ( Es 14,16 ) e con un legno rese dolci le acque amare di Mara ( Es 15,25ss ).
Cosa rappresenta il legno della croce nella vita di Gesù, cioè non più nella figura, ma nella realtà della storia?
Rappresenta lo strumento della sua condanna, della sua distruzione totale come uomo, il punto più basso della sua kenosis.
Il "legno" ( xulon ) ( così era spesso chiamata la croce ) era il supplizio più infame, riservato agli schiavi colpevoli dei maggiori delitti.
Cicerone dice che perfino il suo nome doveva essere tenuto lontano dagli orecchi di un cittadino romano.
Tutto vi era predisposto per rendere tale supplizio degradante al massimo.
Il condannato veniva prima frustato, caricato, fino al luogo dell'esecuzione, se non della croce intera, almeno del palo trasversale, legato nudo, quindi inchiodato al patibolo, dove agonizzava in preda a convulsioni e sofferenze atroci, con tutto il corpo che faceva peso sulle ferite.
« Crocifisso! »: non si poteva, al tempo degli apostoli, ascoltare questa parola senza che un brivido di spavento passasse per tutto il corpo.
Per un giudeo, a tutto ciò si aggiungeva la maledizione di Dio, poiché stava scritto, appunto: « Maledetto colui che pende dal legno » ( Gal 3,13 ).
Ma cosa rappresenta la croce alla luce della risurrezione, nella rivelazione che lo Spirito fa di essa, per mezzo degli apostoli, nel tempo della Chiesa?
Essa è il luogo dove si è compiuto "il mistero della pietà", dove il nuovo Adamo ha detto sì a Dio per tutti e per sempre.
Dove il vero Mosè, con il legno, ha aperto il nuovo Mar Rosso e, con la sua obbedienza, ha trasformato le acque amare della ribellione nelle acque dolci della grazia e del battesimo.
Dove Cristo « ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi » ( Gal 3,13 ).
La croce è potenza di Dio e sapienza di Dio ( 1 Cor 1,24 ).
È il nuovo albero della vita piantato in mezzo alla piazza della città ( Ap 22,2 ).
Che cosa è avvenuto di tanto decisivo sulla croce da giustificare queste affermazioni?
È avvenuto che Dio ha vinto definitivamente il male, senza distruggere con esso la libertà che l'ha prodotto.
Non lo ha vinto sbaragliandolo con la sua onnipotenza e ricacciandolo fuori dei confini del suo regno, ma prendendolo su di sé, soffrendone lui, in Cristo, le conseguenze e vincendo il male con il bene, che è come dire: l'odio con l'amore, la ribellione con l'obbedienza, la violenza con la mitezza, la menzogna con la verità.
Sulla croce, Gesù « ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l'inimicizia » ( Ef 2,15s ).
Distruggendo "l'inimicizia", non il nemico; distruggendola "in se stesso", non negli altri.
Questa, in breve, la rivelazione del mistero della croce a opera degli apostoli.
Essa continuerà sotto altra forma - non più come Scrittura, ma come Tradizione - nella vita della Chiesa.
In un'omelia tenuta nel II secolo, durante una liturgia come la nostra, in onore della Passione, un vescovo elevava questo ispirato inno alla croce nuovo albero di vita: « Quest'albero è per me salvezza eterna: di esso mi nutro, di esso mi pasco.
Per le sue radici affondo le mie radici, per i suoi rami mi espando, della sua rugiada mi inebrio, del suo Spirito, come da soffio delizioso, sono fecondato.
Quest'albero è nutrimento alla mia fame, sorgente per la mia sete, manto per la mia nudità …
Quest'albero è mia protezione quando temo Dio, appoggio quando vacillo, premio quando combatto, trofeo quando vinco.
Quest'albero è per me "il sentiero angusto e la via stretta" ( Mt 7,13s ), la scala di Giacobbe, la via degli angeli, alla cui sommità è davvero "appoggiato il Signore" ( Gen 28,13 ) »1
La croce assume, agli occhi della Chiesa, dimensioni cosmiche.
Non è più solo un episodio della storia, ma qualcosa che ha cambiato la faccia della terra.
« Quest'albero dalle dimensioni celesti - prosegue quell'inno - si è elevato dalla terra al cielo, fondamento di tutte le cose, sostegno dell'universo, supporto del mondo intero, vincolo cosmico che tiene unita l'instabile natura umana, assicurandola con i chiodi invisibili dello Spirito, affinché, stretta alla divinità, non possa più distaccarsene ».
Negli atti del martirio di sant'Andrea che si leggevano una volta nel Breviario, l'Apostolo, prima di stendersi sopra la croce, le rivolge questo saluto: « O croce strumento di salvezza dell'Altissimo!
O croce trofeo della vittoria di Cristo sui nemici! O croce che sei piantata sulla terra e hai il tuo frutto nel cielo!
O nome della croce che sei pieno di ogni cosa! Conosco il tuo mistero! ».2
L'arte cristiana ha dato il suo contributo a questa celebrazione del mistero della croce.
In certi mosaici absidali, come in Sant'Apollinare a Ravenna, sullo sfondo di un cielo stellato, si staglia, a tutto campo, una grande croce gemmata, con in basso la scritta Salus mundi: Salvezza del mondo.
Nell'anno 569 dopo Cristo una reliquia della croce fu mandata in dono dall'imperatore bizantino Giustino II alla regina Radegonda a Poitiers.
Per l'occasione, un poeta cristiano, Venanzio Fortunato, compose due inni in cui tutta questa comprensione del mistero della croce, raggiunta dalla Chiesa, si trasformò in canto.
Sono gli inni che stanno accompagnando anche questa nostra liturgia.
Da allora, essi sono serviti ininterrottamente, a generazioni e generazioni di cristiani, per esprimere la loro Commossa gratitudine e il loro entusiasmo per la croce di Cristo.
Per la comunione dei santi, tali inni giungono a noi impregnati di tutta questa ricchezza di fede e di pietà.
E Dio li ascolta così, con questo immenso accompagnamento, come un unico coro che attraversa i secoli.
« Vexilla Regis prodeunt, fulget crucis mysterium »: « Avanza il vessillo del Re, rifulge il mistero della croce ».
« O crux, ave spes ùnica »: « Salve, o croce, unica nostra speranza! ».
Il tema della croce albero di vita percorre da cima a fondo il secondo dei due inni: « O croce fedele, il più nobile tra gli alberi, nessuna selva ne produce di simili quanto a fronde, fiori e frutti ».
« Dulce lignum, dulces davos, dulcepondus sustinet », sentiremo cantare tra breve: « Dolce legno, dolci chiodi che sostengono l'amato peso ».
Neppure il tema della croce cosmica va perduto: « Terra, pontus, astro., mundus: quo lavantur flamine! »: « La terra, il mare, gli astri, il mondo: da quale fiume sono lavati! ».
A un certo punto il poeta si rivolge alla croce, come a una creatura vivente, con quest'apostrofe commossa: « Flecte ramos arbor alta, tensa laxa viscera »: « Piega i rami, albero eccelso, allenta alquanto le tue fibre.
Ammorbidisci la tua durezza naturale e sostieni con mite stipite le membra del nostro Re ».
Questo lo "svelamento" del mistero della croce nel corso della storia della salvezza.
Ma esso deve rinnovarsi a ogni epoca.
Anche oggi, agli occhi della nostra generazione, bisogna che "rifulga il mistero della croce".
Lo svelamento rituale che ha luogo nella liturgia deve essere accompagnato da uno svelamento esistenziale che avviene nella vita e nel cuore di ognuno.
Dell'albero della vita piantato al centro della nuova Gerusalemme, si legge che « da dodici raccolti e produce frutti ogni mese » ( Ap 22,2 ).
La croce ha in serbo un raccolto e un frutto anche per la presente stagione della storia e dobbiamo cercare di raccoglierlo.
Ma come far comprendere il mistero della croce a una società, come la nostra, che alla croce oppone, a tutti i livelli, il piacere; che crede di aver finalmente riscattato il piacere, di averlo sottratto all'ingiusto sospetto e alla condanna che gravavano su di esso; che eleva inni al piacere, come in passato si elevavano inni alla croce?
Una cultura che dal piacere, edonè in greco, ha ricevuto addirittura l'appellativo di "edonistica" e della quale purtroppo, chi più chi meno, tutti facciamo parte, almeno di fatto, anche se a parole la condanniamo?
Molti nodi, molte incomprensioni tra la Chiesa e la cosiddetta cultura laica odierna si radicano qui.
Noi possiamo almeno tentare di individuare dove risiede il vero nocciolo del problema e scoprire che forse c'è un punto da cui partire per un sereno dialogo.
Il punto comune è la constatazione che in questa vita piacere e dolore si seguono l'un l'altro con la stessa regolarità con cui al sollevarsi di un'onda nel mare segue un avvallamento e un vuoto che risucchia indietro il naufrago che tenta di raggiungere la riva.
Piacere e dolore sono contenuti l'uno nell'altro, inestricabilmente.
L'uomo cerca disperatamente di staccare questi due fratelli siamesi, di isolare il piacere dal dolore.
A volte si illude di esserci riuscito e nell'ebbrezza del godimento dimentica tutto e celebra la sua vittoria.
Ma per poco tempo. Il dolore è lì, come una bevanda inebriante che, ossidandosi, si trasforma in veleno.
Non un dolore diverso, indipendente, o dipendente da altra causa, ma proprio il dolore derivante dal piacere.
È lo stesso piacere disordinato che si trasforma in sofferenza.
E questo, o improvvisamente, tragicamente, o un po' alla volta, a causa della sua incapacità di durare e della morte.
È un fatto che l'uomo ha constatato per conto suo e rappresentato in mille modi nella sua arte e nella sua letteratura.
« Un non so che d'amaro sorge dall'intimo stesso d'ogni piacere e ci angoscia anche in mezzo alle delizie ».3
I "fiori del male" - ci assicura il loro stesso cantore - non hanno finito di spuntare che già mandano odore di decomposizione e di morte.
La Chiesa dice di avere una risposta a questo che è il vero dramma dell'esistenza umana.
Perché rifiutare la sua spiegazione, prima ancora di averla una volta veramente ascoltata?
La spiegazione è questa. C'è stata, fin dall'inizio, una scelta volontaria dell'uomo, resa possibile dalla sua stessa natura composita, che lo ha portato a orientare esclusivamente verso le cose visibili la capacità di gioia, di cui era stato dotato perché aspirasse a godere di Dio.
Al piacere, scelto contro Dio e contro ragione, Dio, attraverso la stessa natura, ha legato il dolore e la morte ( Gen 3,16ss ), più come rimedio che come punizione: perché non avvenisse che, seguendo a briglie sciolte il suo egoismo, l'uomo si distruggesse del tutto e distruggesse ognuno il suo prossimo.
Così al piacere vediamo ormai aderire, come la sua ombra, la sofferenza.
Ma piacere e dolore non si compensano a vicenda; questo dolore non redime il piacere, perché è esso stesso frutto del piacere, parte della stessa dialettica di peccato.
La croce di Cristo ha finalmente spezzato questa catena.
Egli, « in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce » ( Eb 12,2 ).
( Secondo un'altra traduzione possibile che però viene a dire la stessa cosa: « in vista della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce » ).
Fece, insomma, il contrario di ciò che fece Adamo e che fa ogni uomo.
Introdusse cosi nel mondo una nuova qualità di dolore: il dolore che non è frutto di piacere e di colpa, dolore puramente subito, ma dolore innocente e volontario.
« La morte del Signore - ha scritto uno dei pensatori più profondi del cristianesimo, san Massimo il Confessore -, a differenza di quella degli altri uomini, non era un debito pagato per il piacere, ma piuttosto qualcosa che era gettato contro il piacere stesso.
E così, attraverso questa morte, cambiò il destino meritato dall'uomo ».4
Ma non tutto finisce qui. Cristo è risorto.
La croce è inghiottita dalla vittoria.
Egli ha inaugurato una nuova gioia, una nuova qualità di piacere: quello che non precede il dolore, come sua causa, ma lo segue come suo frutto; quello che trova nella croce la sua sorgente e la speranza di non finire neppure con la morte, di essere eterno.
E non solo il piacere puramente spirituale, ma ogni piacere onesto, anche quello che l'uomo e la donna sperimentano nel dono reciproco, nel generare la vita e nel vedere crescere i propri figli, il piacere dell'arte e della creatività, della bellezza, dell'amicizia, del lavoro felicemente portato a termine. Ogni gioia.
Cristo soltanto può redimere davvero il piacere e la gioia umana dalla condanna che pesava, e pesa, su di essi, dovuta non solo al peccato, ma anche alla loro stessa natura di realtà corruttibili, destinate alla morte: « La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte » ( Rm 8,2 ).
La croce non ti obbliga a rinnegare il piacere, ma a sottomettere il piacere alla volontà di Dio, a perseguirlo e a viverlo in obbedienza alla sua Parola e alla legge che egli ha dato non per rovinare all'uomo il piacere, ma per preservarglielo dal dolore e dalla morte.
Perché attraverso le piccole gioie che l'uomo incontra sul suo cammino, aspiri alla gioia che non ha fine.
La volontà di Dio è la "croce" del piacere.
Ma se cadi ancora, se non sei stato pronto ad accettare subito tutta la volontà di Dio, ti ricordi che la croce è anche promessa di perdono e di misericordia per chi è caduto.
Non sei costretto a consumarti nella colpa.
Nel nostro secolo è stato scritto un romanzo intitolato Il Processo.
In esso si parla di un uomo che un giorno, senza che nessuno sappia il perché, viene dichiarato in arresto, pur continuando la sua solita vita e il suo lavoro.
Comincia un'estenuante ricerca per conoscere i motivi, il tribunale, le imputazioni, le procedure.
Ma nessuno sa dirgli niente, se non che c'è veramente un processo in corso a suo carico.
Finché un giorno verranno a prelevarlo per l'esecuzione.
È la storia dell'umanità che lotta, fino alla morte, con il senso di un'oscura colpa, di cui non riesce a liberarsi.
Nel corso della vicenda si viene a sapere che vi sarebbero, per quest'uomo, tre possibilità: l'assoluzione vera, l'assoluzione apparente e il rinvio.
L'assoluzione apparente e il rinvio però non risolverebbero nulla; servirebbero solo a tenere l'imputato in un'incertezza mortale per tutta la vita.
Nell'assoluzione vera invece « gli atti processuali devono essere totalmente eliminati, scompaiono del tutto dal procedimento, non solo l'accusa, ma anche il processo e persino la sentenza vengono distrutti, tutto viene distrutto ».5
Ma di queste assoluzioni vere, tanto sospirate, non si sa se ne sia esistita mai alcuna; ci sono solo voci in proposito, null'altro che "bellissime leggende".
L'opera finisce così, come tutte quelle di questo autore: con qualcosa che si intravede da lontano, si sogna, ma che non c'è possibilità alcuna di raggiungere.
Nel giorno del Venerdì Santo, noi possiamo gridare ai milioni di uomini che si vedono rappresentati in quell'imputato: l'assoluzione vera esiste, non è solo una leggenda, una cosa bellissima ma irraggiungibile. No.
Gesù ha distrutto il « documento scritto della nostra colpa; lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce » ( Col 2,14 ).
Ha distrutto tutto. « Non c'è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù » ( Rm 8,1 ).
Nessuna condanna! Di nessun genere! Per quelli che credono in Cristo Gesù!
Rifulge così, anche oggi, il mistero della croce: « Fidget crucis my stermini ».
Continua a rischiarare il nostro cammino.
Un sociologo ha scritto di recente, a proposito della crisi attuale del sacro: « L'anima dell'occidente si è inaridita.
C'è un pantheon aperto a tutti gli dei, ma povero di sacralità.
La religione formale, la religione sociale, la religione delle buone opere non parlano a tutti.
Dal profondo della società appare il bisogno di un nuovo contatto col divino.
Che espanda l'anima e dia forza, gioia, speranza e un senso glorioso dell'esistenza ».6
Questo fu ciò che la predicazione della croce operò agli inizi del cristianesimo.
Come un'ondata di incontenibile speranza e di gioia, essa spazzò via tutto ciò in cui l'uomo del decadente impero romano cercava rifugio: culti misterici, magia, teurgia, nuove religioni.
Si ebbe la sensazione come di una "nuova primavera del mondo".
Questo può fare anche oggi, nella nostra "epoca di angoscia", la predicazione della croce di Cristo, se solo sappiamo ridare a essa l'afflato, l'entusiasmo, la fede di allora.
Una Chiesa nazionale europea si è rivolta di recente a un'agenzia pubblicitaria per sapere come presentare il messaggio cristiano in occasione della Pasqua e il consiglio che si è sentita dare è stato di eliminare, come prima cosa, il simbolo della croce perché troppo antiquato e triste!
Quale terribile fraintendimento!
Quello che occorre è che avvenga uno "svelamento" della croce anche nel cuore dei cristiani, come è avvenuto nella storia e avviene nella liturgia.
Che passiamo anche noi dalla croce segno di condanna e di maledizione, alla croce salvezza, perdono, « unica speranza », vanto.
Fino a sentirci spinti a gridare, giubilanti, con san Paolo: « Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo! » ( Gal 6,14 ).
Il Papa che ora eleverà sopra il nostro capo la croce e che, nel giubileo del Duemila, varcherà la porta santa recando innanzi a sé la croce di Cristo, è il simbolo della Chiesa che da un anno all'altro, da un secolo all'altro e, fra poco, da un millennio all'altro, consegna intatta al mondo la cosa più preziosa che ha: il mistero della croce di Gesù Cristo.
Davvero, rifulge in questo giorno il mistero della croce: « Fulget crucis my stermini ».
Indice |
1 | Antica omelia pasquale, 51 (SCh 27, p. 177 s) |
2 | Atti di Andrea, in Lipsius-Bonnet, Acta Apostolorum Apochrypha, II, 1, p. 54 s |
3 | Lucrezio, De rerum natura, IV, 1129 s |
4 | Massimo il Confessore, Capitoli vari, IV cent. 39; in Filocalia, II, Torino 1983, p. 249 |
5 | F. Kafka, Il Processo, Garzanti, Milano 1993, p. 129 s |
6 | F. Alberoni, su « Il Corriere della sera », 27 Marzo 1995, p.1 |