Compendio di Teologia Ascetica e Mistica |
818. Questa lotta è in sostanza una specie di mortificazione.
Per dar compimento alla purificazione dell'anima e impedirle di ricadere nel peccato, bisogna prendere di mira la fonte del male in noi, cioè la triplice concupiscenza.
L'abbiamo già descritta nei suoi caratteri generali, n. 193-209; ma, essendo ella radice dei sette peccati capitali, conviene pur conoscere e combattere queste cattive tendenze.
Più che peccati sono infatti tendenze; si dicono però peccati perché ci portano al peccato; e peccati capitali, perché sono fonte o capo d'una moltitudine di altri peccati.
Ecco come queste tendenze si connettono con la triplice concupiscenza: dalla superbia nasce l'orgoglio, l'invidia e la collera; la concupiscenza della carne genera la gola, la lussuria e l'accidia; la concupiscenza poi degli occhi s'identifica con l'avarizia o amore disordinato delle ricchezze.
819. La lotta contro i sette peccati capitali tenne sempre gran posto nella spiritualità cristiana.
Cassiano ne tratta a lungo nelle Conferenze e nelle Istituzioni; ma ne enumera otto invece di sette, separando l'orgoglio e la vanagloria.
S. Gregorio Magno distingue nettamente i sette peccati capitali che fa derivare tutti dall'orgoglio.
Anche S. Tommaso li connette all'orgoglio, e mostra come se ne può fare una classificazione filosofica, tenendo conto dei fini speciali a cui l'uomo tende.
La volontà può portarsi verso un oggetto per un doppio motivo che è o la ricerca di un bene apparente, o l'allontanamento da un male apparente.
Ora il bene apparente a cui tende la volontà può essere:
1) la lode o l'onore, beni spirituali perseguiti disordinatamente: è questo il fine speciale dei vanitosi;
2) i beni corporali, che hanno per fine la conservazione dell'individuo o della specie, cercati in modo eccessivo, sono il fine particolare dei golosi e dei lussuriosi;
3) i beni esterni, amati in modo sregolato, sono il fine dell'avaro.
Il male apparente da cui uno rifugge può essere:
1) lo sforzo necessario all'acquisto d'un bene, sforzo sfuggito dall'accidioso;
2) la diminuzione della propria eccellenza che è temuta e sfuggita, sebbene in modo diverso, dal geloso e dal collerico.
Così la distinzione dei, sette peccati capitali si trae dai sette fini speciali a cui tende il peccatore.
In pratica noi seguiremo la divisione che connette i vizi capitali con la triplice concupiscenza, perché è la più semplice.
820. L'orgoglio è una deviazione di quel legittimo sentimento che ci porta a stimare il bene che è in noi, e a ricercare la stima altrui fin dove è utile alle buone relazioni che dobbiamo avere con loro.
Si può e si deve certamente stimare quanto di buono Dio ha messo in noi, riconoscendonelo come primo principio e ultimo fine: è sentimento che onora Dio e ci fa rispettare noi stessi.
Si può anche desiderare che gli altri vedano questo bene, lo stimino e ne rendano gloria a Dio, come noi dobbiamo riconoscere e stimare le buone qualità del prossimo: questa mutua stima fomenta le buone relazioni che corrono tra gli uomini.
Ma vi può essere deviazione o eccesso in queste due tendenze.
Si dimentica talora che autore di questi doni è Dio e uno li attribuisce a se stesso: il che è disordine, perché è negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro primo principio.
Parimente si è tentati di operare per sé, per guadagnarsi la stima altrui, in cambio di operare per Dio e riferire a lui tutto l'onore di ciò che facciamo: il che pure è disordine, perché é negare, almeno implicitamente, che Dio è il nostro ultimo fine.
Tale è il doppio disordine che si trova in questo vizio; onde si può definirlo: un amore disordinato di sé, per cui uno, esplicitamente o implicitamente, si stima come primo suo principio o ultimo suo fine.
È una specie d'idolatria, perché uno fa di sé il proprio Dio, come ben fa notare Bossuet, n. 204.
A meglio combattere l'orgoglio, ne esporremo:
1° le principali forme;
2° i difetti che produce;
3° la malizia;
4° i rimedi.
821. 1° La prima forma consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio primo principio.
A) Pochi sono quelli che esplicitamente si amino in modo così disordinato da considerare se stessi come il loro primo principio.
a) è il peccato degli atei che volontariamente rigettano Dio perché non vogliono padrone: né Dio né padrone; di costoro parla il Salmista quando dice: "]Dixit insipiens in corde suo non est Deus]Lo stolto ha detto nel suo cuore, Dio non esiste".
b) Fu equivalentemente questo il peccato di Lucifero, che, volendo essere autonomo, ricusò di assoggettarsi a Dio; dei nostri progenitori, che, desiderando essere come Dei, vollero conoscere da sé il bene ed il male; degli eretici, che, come Lutero, ricusarono di riconoscere l'autorità della Chiesa stabilita da Dio; è il peccato dei razionalisti, che, superbi della loro ragione, non vogliono assoggettarla alla fede.
Ed è pure il peccato di certi dotti che, troppo orgogliosi da accettare la tradizionale interpretazione dei dogmi, li attenuano e deformano per conciliarli con le proprie idee.
822. B) Altri in maggiore numero cadono implicitamente in questo difetto, operando come se i doni naturali e soprannaturali da Dio largitici fossero intieramente nostri.
In teoria si riconosce, è vero, che Dio è il nostro primo principio; ma in pratica poi uno ha tale smodata stima di sé come fosse egli stesso l'autore delle buone qualità che sono in lui.
a ) Ce ne sono di quelli che si compiacciono delle proprie doti e dei propri meriti come ne fossero essi i soli autori: "L'anima, vedendosi bella, dice Bossuet, se ne compiacque in se stessa e s'addormentò nella contemplazione della propria eccellenza; cessò un momento di riferire se stessa a Dio, dimenticò la sua dipendenza, prima sì fermò e poi s'abbandonò alla propria libertà.
Ma, cercando di essere libero fino al punto di emanciparsi da Dio e dalle leggi della giustizia, l'uomo divenne schiavo del suo peccato".
823. b) Più grave è l'orgoglio di coloro che attribuiscono a se stessi la pratica della virtù, come gli Stoici; o che pensano che i doni gratuiti di Dio siano frutto dei nostri meriti; che le nostre opere buone appartengano a noi più che a Dio, mentre in verità ne è lui la causa principale; e che vi si compiacciono come fossero unicamente nostre.
824. C) è questo stesso principio che fa esagerare le proprie doti.
a ) Si chiudono gli occhi sui propri difetti o si guardano le proprie doti con lenti d'ingrandimento; si giunge ad attribuirsi pregi che non si hanno o che hanno la sola apparenza di virtù: così si fa l'elemosina per ostentazione e si crede di essere caritatevoli mentre invece si è superbi; uno crede di essere santo perché ha consolazioni sensibili, o perché scrisse bei pensieri o buone risoluzioni, ed è invece ancora ai primi scalini della perfezione.
Altri credono di avere mente larga perché fanno poco conto delle piccole regole, volendo santificarsi con le grandi virtù.
b) Di qui a preferirsi ingiustamente agli altri non vi è che un passo; si esaminano gli altrui difetti coi microscopio e dei propri è gran cosa se uno ne ha coscienza; si vede la pagliuzza che è nell'occhio del vicino e non la trave che è nel nostro.
Si giunge talora, come il Fariseo, a disprezzare i fratelli; altre volte, senza arrivare a tanto, uno ingiustamente li abbassa nella propria stima e se ne crede migliore mentre in realtà ne è inferiore.
È sempre in virtù dello stesso principio che si cerca di dominarli e di far riconoscere la propria superiorità su di loro.
c ) Riguardo ai Superiori, quest'orgoglio si palesa nello spirito di critica e di malcontento che induce a spiarne i minimi gesti o i passi per biasimarli: si vuole verificare tutto e giudicare tutto.
Così l'obbedienza si fa molto più difficile: si stenta a sottomettersi alla loro autorità, alle loro risoluzioni, a chiederne i permessi, si aspira all'indipendenza, ossia in sostanza a essere il proprio primo principio.
825. 2° La seconda forma dell'orgoglio consiste nel considerarsi, esplicitamente o implicitamente, come il proprio ultimo fine, facendo le azioni senza riferirle a Dio, e desiderando di esserne lodati come se fossero intieramente nostre.
É difetto che deriva dal primo; perché chi si considera come il proprio primo principio vuole anche esserne l'ultimo fine.
Bisognerebbe ripetere qui le distinzioni che abbiamo già fatto.
A ) Sono pochi che si considerino esplicitamente come loro ultimo fine, se ne togli gli atei e gli increduli.
B ) Ma in pratica molti operano come se partecipassero di questo errore.
a) Vogliono essere lodati e complimentati per le opere buone, come ne fossero essi i principali autori, e come se avessero il diritto di operare per proprio conto, per soddisfare la propria vanità.
In cambio di riferire tutto a Dio, vogliono essere applauditi per i pretesi buoni successi, come se avessero diritto a tutto l'onore che ne deriva.
b) Operano per egoismo, per i propri interessi, poco curandosi della gloria di Dio e meno ancora dei bene del prossimo.
Arrivano perfino all'eccesso di pensare in pratica che gli altri debbano ordinare la vita a far loro piacere e a rendere loro servizi: si fanno quindi centro degli altri e, a così dire, loro fine.
Non è questa un'inconscia usurpazione dei diritti di Dio?
c ) Senza giungere a questo punto, ci sono persone pie che nella pietà cercano se stesse, si lagnano di Dio quando non le inonda di consolazioni, si desolano quando sono nell'aridità, falsamente pensando che il fine della pietà sia di godere consolazioni, mentre in realtà la gloria di Dio dev'essere il nostro fine supremo in tutte le azioni e soprattutto nella preghiera e negli esercizi spirituali.
826. Bisogna dunque confessare che l'orgoglio, sotto una forma o sotto un'altra, è comunissimo difetto anche tra quelli che si danno alla perfezione, difetto che ci segue in tutte le tappe della vita spirituale e che muore solo con noi.
Gli incipienti non ne hanno gran fatto coscienza, perché non si studiano abbastanza profondamente.
Conviene assai chiamarne l'attenzione su questo punto, indicando le forme più ordinarie di tale difetto, perché ne facciano materia dell'esame particolare.
I principali sono la presunzione, l'ambizione e la vanagloria.
827. 1° La presunzione è il desiderio e la speranza disordinata di voler fare cose superiori alle proprie forze.
Nasce dal fatto che uno ha troppo buona opinione di sé, delle proprie facoltà naturali, della propria scienza, delle proprie forze, delle proprie virtù.
a ) Sotto l'aspetto intellettuale, uno si crede capace d'affrontare e di risolvere i problemi più difficili e le più ardue questioni, o almeno di imprendere studi sproporzionati al proprio ingegno.
Un altro si persuade facilmente di aver molto giudizio e molto senno, e, in cambio di saper dubitare, risolve con gran disinvoltura le più controverse questioni.
b) Sotto l'aspetto morale, uno crede di avere lumi sufficienti per regolarsi da sé e che non sia poi gran che utile consultare un direttore.
Altri crede che, nonostante i peccati passati, non vi sia da temere ricadute, e imprudentemente si getta in occasioni di peccato in cui soccombe; onde poi scoraggiamenti e dispetti che diventano spesso causa di nuove ricadute.
c ) Sotto l'aspetto spirituale, si ha poco gusto per le virtù nascoste e penose, preferendole virtù appariscenti; e invece di costruire sul fondamento sodo dell'umiltà, si va fantasticando di grandezza d'animo, di forza di carattere, di magnanimità, di zelo apostolico, di trionfi immaginari che si assaporano già nell'avvenire.
Ma alle prime gravi tentazioni uno s'accorge subito quanto ancora debole e vacillante è la volontà.
Qualche volta pure si disprezzano le preghiere comuni e quelle che si chiamano le piccole pratiche di pietà; e si aspira a grazie straordinarie quando invece si è appena ai principi della vita spirituale.
828. 2° Questa presunzione, congiunta all'orgoglio, genera l'ambizione, vale a dire l'amore disordinato degli onori, delle dignità, dell'autorità sugli altri.
Presumendo troppo delle proprie forze e stimandosi superiore agli altri, uno vuole dominarli, governarli, imporre loro le proprie idee.
Il disordine dell'ambizione, dice S. Tommaso, può manifestarsi in tre modi:
1) cercando onori che non si meritano e che sono superiori alle nostre facoltà;
2) cercandoli per sé, per la propria gloria, e non per la gloria di Dio;
3) compiacendosi degli onori in se stessi, senza farli servire al bene altrui, contrariamente all'ordine stabilito da Dio, il quale vuole che i superiori lavorino pel bene degli inferiori.
Quest'ambizione invade tutti i campi:
1) il campo politico, dove si aspira a governare gli altri, a costo qualche volta di molte bassezze, di molti compromessi, di mille viltà che si commettono per avere i voti degli elettori;
2) il campo intellettuale, ostinatamente cercando d'imporre agli altri le proprie idee, anche in questioni liberamente discusse;
3) la vita civile, ove avidamente si cercano i primi posti, gli uffici più pomposi, gli ossequi della folla;
4) e anche la vita ecclesiastica perché, come dice Bossuet, "quante precauzioni non si dovettero prendere per impedire nelle elezioni, anche ecclesiastiche e religiose, l'ambizione, gli intrighi, le brighe, le segrete sollecitazioni, le promesse e le pratiche più criminali, i patti simoniaci e gli altri disordini troppo comuni in questa materia; eppure non si è riusciti a intieramente estirpare questi vizi, ma forse solo a coprirli o a palliarli".
Anche nel clero, osserva S. Gregorio Magno, vi sono di quelli che vogliono essere chiamati dottori, e cercano avidamente i primi posti e i complimenti.
É dunque difetto più comune di quello che a prima vista si crederebbe e che si connette con la vanità.
829. 3° La vanità è l'amore disordinato della stima altrui; si distingue dall'orgoglio che si compiace nella propria eccellenza, ma ne è ordinariamente una derivazione, perché, quando uno si stima in modo eccessivo, è naturale che desideri d'essere stimato anche dagli altri.
830. A) Malizia della vanità.
Vi e un desiderio d'essere stimato che non è disordine: chi desidera che le sue doti, naturali o soprannaturali, siano riconosciute perché Dio ne sia glorificato e se avvantaggi la sua influenza nel fare il bene, per sé non fa peccato, essendo conforme all'ordine che ciò che è buono venga stimato, a patto però che se ne riconosca Dio come autore e a lui solo se ne dia lode.
Tutto al più si potrà dire che è pericoloso fissare il pensiero sopra desideri di questo genere, correndo rischio di desiderare la stima altrui per fini egoistici.
Il disordine quindi consiste nel voler essere stimati con la mira a sé, senza riferire questo onore a Dio che pose in noi quanto c'è di buono; o nel voler essere stimati per cose vane che non meritano lode; o infine nel cercare la stima di quelli il cui giudizio non ha valore, dei mondani, per esempio, che pregiano solo le vanità.
Nessuno descrisse questo difetto meglio di S. Francesco di Sales: "Vana chiamasi la gloria che uno si dà o per cosa che non sia in noi, o per cosa che sia in noi ma non nostra, o per cosa che sia in noi e nostra ma non meritevole che uno se ne glori.
La nobiltà della famiglia, il favore dei grandi, l'aura popolare sono cose che non sono in noi ma o nei nostri antenati o nell'opinione altrui.
Vi sono di quelli che vanno superbi e pettoruti perché cavalcano un bel destriero; perché hanno un bel pennacchio al cappello; perché sono riccamente vestiti; ma chi non vede che questo è follia?
Poiché se in ciò vi è gloria, la gloria spetta al cavallo, all'uccello, al sarto …
Altri si stimano e si pavoneggiano per due baffi ben rilevati, per la barba ben ravviata, per i capelli crespi, per le mani delicate, per saper danzare, suonare, cantare bene; ma non sono vili costoro a volersi rialzare in valore e in riputazione per ragioni così frivole e così goffe?
Altri poi, per un poco di scienza, vogliono essere da tutti onorati e rispettati, come se ognuno dovesse andare a scuola da loro e tenerli per maestri; onde sono chiamati pedanti.
Altri si pavoneggiano pensando alla propria bellezza e credono che tutti li vagheggino.
Tutto ciò è grandemente vano, goffo e insulso, e la gloria che si trae da cose così meschine si chiama vana, goffa e frivola".
831. B) Difetti che derivano dalla vanità.
La vanità produce parecchi difetti, che ne sono come la manifestazione esteriore, in particolare: la millanteria, l'ostentazione e l'ipocrisia.
1) La millanteria o iattanza è l'abitudine di parlare di sé o di ciò che può tornare a proprio vantaggio con la mira di farsi stimare.
Ce ne sono di quelli che parlano di sé, della propria famiglia, dei propri trionfi con un'ingenuità che fa sorridere gli ascoltatori; altri fanno destramente, piegare la conversazione su un argomento in cui possono brillare; altri poi parlano timidamente dei propri difetti con la segreta speranza di trovare chi li scusi ponendone in rilievo le buone qualità.
2) L'ostentazione consiste nell'attirarsi l'attenzione con certi modi di fare, col fasto di cui si fa pompa, con certe singolarità.
3) L'ipocrisia prende la veste o le apparenze della virtù, nascondendo sotto veri vizi segreti.
A ben giudicare questa malizia, si può considerare l'orgoglio in se o negli effetti.
832. 1° In sé:
A) l'orgoglio propriamente detto, quello che coscientemente e volontariamente usurpa, anche solo implicitamente, i diritti di Dio, è peccato grave, anzi il più grave dei peccati, dice S. Tommaso, perché non vuole sottomettersi al sovrano dominio di Dio.
4) Voler quindi essere indipendente e rifiutare d'obbedire a Dio o ai suoi legittimi rappresentanti, in materia grave, è peccato mortale, perché in tal modo uno si rivolta contro Dio, legittimo nostro sovrano.
b ) è pur peccato grave l'attribuire a sé ciò che viene chiaramente da Dio, massime i doni della grazia; perché è implicitamente negare che Dio è il primo principio di tutto il bene che è in noi.
Eppure molti lo fanno, dicendo, per esempio io mi sono fatto da me.
c ) Si pecca anche gravemente quando si vuole operare per sé, escludendone Dio; è infatti negargli il diritto d'essere l'ultimo nostro fine.
833. B ) L'orgoglio attenuato, che, pur riconoscendo Dio come primo principio e come ultimo fine, non gli rende tutto ciò che gli è dovuto e implicitamente gli toglie parte della sua gloria, è peccato veniale qualificato.
Tale è il caso di quelli che si gloriano delle loro buone qualità e delle loro virtù, quasi che tutto ciò fosse cosa di loro esclusiva proprietà; oppure di quelli che sono presuntuosi, vanitosi, ambiziosi, senza però far nulla che sia contrario a una legge divina od umana in materia grave.
Questi peccati possono anche farsi mortali, se spingono ad atti gravemente riprensibili.
Così la vanità, che in sé è solo peccato veniale, diventa peccato grave quando fa contrarre debiti che non si potranno poi pagare, o quando si cerca di eccitare in altri amore disordinato.
Bisogna quindi esaminare l'orgoglio anche negli effetti.
834. 2° Negli effetti:
A) l'orgoglio, non represso, riesce talora a perniciosissimi effetti.
Quante guerre non furono suscitate dall'orgoglio dei governanti e qualche volta degli stessi popoli!
E senza andare, tanto lontano, quante divisioni nelle famiglie, quanti odii tra gli individui devono attribuirsi a questo vizio!
I Padri giustamente insegnano che è radice di tutti gli altri vizi, e che corrompe pure molti atti virtuosi, facendoli fare con egoistica intenzione.
835. B) Se guardiamo la cosa sotto il rispetto della perfezione, che è quello di cui stiamo trattando, si può dire che l'orgoglio è il gran nemico della perfezione perché produce nell'anima una desolante sterilità ed è fonte di numerosi peccati.
a ) Ci priva infatti di molte grazie e di molti meriti:
1) Di molte grazie, perché Dio, il quale dà liberalmente la grazia agli umili, la nega ai superbi: [Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam] Dio resiste ai superbi, e dà grazia agli umili.
Pesiamo bene queste parole: Dio resiste ai superbi, "perché, dice l'Olier, il superbo assale direttamente Dio e se la prende con la stessa sua persona, onde Dio resiste alle insolenti e orribili sue pretese; e poiché vuole conservarsi in ciò che è, abbatte e distrugge quanto si leva contro di lui".
2) Di molti meriti: una delle condizioni essenziali del merito è la purità d'intenzione; ora l'orgoglioso opera per sé, o per piacere agli uomini, invece di operare per Dio, e merita quindi il rimprovero rivolto ai Farisei che facevano le opere buone con ostentazione, per essere visti dagli uomini, onde non potevano aspettarsi di essere ricompensati da Dio: "[alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum qui in caelis est…. amen, amen dico vobis, receperunt mercedem suam] altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli …. In verità, in verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa".
836. b) è pure fonte di numerose colpe;
1) colpe personali: per presunzione uno si espone al pericolo e vi soccombe; per orgoglio non si chiedono istantemente le grazie di cui si ha bisogno e si cade; viene poi lo scoraggiamento e si corre pericolo di dissimulare i peccati in confessione;
2) colpe contro il prossimo: per orgoglio non si vuole cedere anche quando si ha torto; si è mordaci nelle conversazioni, si intavolano discussioni aspre e violenti che generano dissensioni e discordie; quindi parole amare e anche ingiuste contro i rivali per umiliarli, critiche acerbe contro i Superiori e rifiuti d'obbedienza ai loro ordini.
837. c) Finalmente è causa di disgrazie per chi si abbandona abitualmente all'orgoglio: l'orgoglioso, volendo grandeggiare in tutto e dominare il prossimo, non trova più ne pace né riposo.
Non è infatti tranquillo finche non abbia potuto trionfare degli emuli; or ciò non riuscendogli mai intieramente, ne resta turbato, agitato, infelice.
Conviene dunque cercare rimedio a vizio così pericoloso.
838. Abbiamo già detto ( n. 207 ) che il grande rimedio dell'orgoglio sta nel riconoscere che Dio è l'autore di ogni bene, onde a lui solo spetta ogni onore e ogni gloria.
Da noi non siamo che nulla e peccato e non meritiamo quindi che oblio e disprezzo ( n. 208 )
839. 1° Noi siamo un nulla.
Di questo devono gl'incipienti ben convincersi nella meditazione, lentamente ruminando al lume divino i seguenti pensieri: io sono un nulla, io non posso nulla, io non valgo nulla.
A) Io sono un nulla: piacque, è vero, alla divina bontà di scegliermi tra miliardi di esseri possibili per darmi l'esistenza, la vita, un'anima spirituale ed immortale, e io me lo devo quotidianamente benedire.
Ma: a) io esco dal nulla e per mio peso tendo al nulla, ove infallantemente ricadrei se il Creatore con la incessante sua azione non mi conservasse: il mio essere dunque non appartiene a me ma è intieramente di Dio, e a lui ne devo fare omaggio.
b) Quest'essere che Dio mi diede è una vivente realtà, un immenso beneficio di cui non potrei ringraziarlo mai troppo; ma, per quanto ammirabile, quest'essere, paragonato con l'Essere divino, è come un nulla, "[Tanquam nihilum ante te] Come niente prima di", tanto è imperfetto:
1) è un essere contingente, che potrebbe sparire senza che nulla venisse a mancare alla perfezione del mondo;
2) è un essere mutuato, che non mi fu dato che sotto l'espressa riserva del supremo dominio di Dio;
3) è un essere fragile, che non può sussistere da sé, bisognoso ad ogni istante d'essere sorretto da colui che lo creò.
É dunque un essere essenzialmente dipendente da Dio, la cui unica ragione di esistere è di rendere gloria al suo autore.
Chi dimentichi questa dipendenza, chi operi come se le sue buone qualità fossero intieramente sue e se ne vanti, commette un inconcepibile errore, una follia e un'ingiustizia.
840. Quanto diciamo dell'uomo nell'ordine della natura è anche più vero nell'ordine della grazia: questa partecipazione della vita divina, che costituisce la mia nobiltà e la mia grandezza, è dono essenzialmente gratuito che ricevetti da Dio e da Gesù Cristo, che non posso conservare a lungo senza la divina grazia e che non può crescere in me senza il soprannaturale suo concorso ( n. 126-128 ), onde è il caso di ripetere: "[gratias Deo super inenarrabili dona ejus] Grazie a Dio per il suo dono ineffabile".
Quale ingratitudine e quale ingiustizia l'attribuire a sé una minima particella di questo dono essenzialmente divino?
"[Quid autem habes quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis?] Che cosa hai tu che tu non hai ricevuto? Se hai ricevuto, perché ti glori come se tu non l'avessi ricevuto?".
841. B) Io da me non posso nulla: è vero che ricevetti da Dio preziose facoltà che mi fanno conoscere e amare la verità e la bontà; che queste facoltà furono poi perfezionate dalle virtù soprannaturali e dai doni dello Spirito Santo; che non potrò mai ammirare abbastanza questi doni di natura e di grazia che si integrano e si armonizzano tra loro così bene.
Ma da me, di mia volontà, io non posso nulla né per metterle in moto né per perfezionarle: nulla nell'ordine naturale senza il concorso di Dio; nulla nell'ordine soprannaturale senza la grazia attuale, neppure formare un buon pensiero salutare, ne un buon desiderio soprannaturale.
Ciò sapendo, potrei inorgoglirmi di queste naturali e soprannaturali facoltà, come se fossero intieramente mie?
Anche questa sarebbe ingratitudine, follia, ingiustizia.
842. C) Io non valgo nulla: se considero ciò che Dio ha posto in me e ciò che vi opera con la sua grazia, io sono certamente un essere di gran pregio e di grande valore: "[empti enim estis pretio magno] Infatti siete stati comprati a caro prezzo … [tanti vales quanti Deus] Dio vale il prezzo": valgo quello che sono costato e sono costato il sangue di un Dio!
Ma l'onore della mia redenzione e della mia santificazione spetta a me o a Dio?
La risposta non potrebbe essere dubbia.
Ma insomma, dice l'amor proprio vinto, io ho pur qualche cosa che è mia e mi dà valore, è il libero mio consenso al concorso e alla grazia di Dio.
Certo qualche parte ve l'abbiamo ma non la principale: questo libero consenso non è che l'esercizio delle facoltà dateci gratuitamente da Dio, e nel momento stesso in cui lo diamo, Dio l'opera in noi come causa principale: "[operatur in vobis et velle et perficere] opera in voi il volere e di fare ".
E poi per una volta che consentiamo a seguire l'impulso della grazia, quante altre volte le abbiamo resistito! quante volte vi cooperiamo solo imperfettamente!
Non c'è veramente di che vantarci ma piuttosto di che umiliarci.
Quando un gran maestro dipinge un capolavoro, a lui viene attribuito e non agli artisti di terzo o di quart'ordine che ne furono i collaboratori.
A più forte ragione dobbiamo noi attribuire i nostri meriti a Dio che ne è causa prima e principale, tanto che, come canta la Chiesa con S. Agostino, Dio corona i doni suoi coronando i meriti nostri "[coronando merita coronas dona tua] coronamento dei meriti dei pneumatici dei vostri doni".
Da qualunque parte dunque ci consideriamo, e per quanto immenso sia il pregio dei doni che sono in noi e dei nostri meriti, abbiamo diritto di vantarcene ma dovere di farne omaggio a Dio e di ringraziarlo dal fondo del cuore.
E dobbiamo pure chiedergli perdono del cattivo uso che abbiamo fatto di questi doni.
843. 2° Io sono un peccatore, e come, tale, merito disprezzo, tutti i disprezzi che piacerà a Dio di addossarmi.
A convincercene, basti richiamare quanto dicemmo del peccato mortale e del veniale.
A ) Se ebbi la disgrazia di commettere un solo peccato mortale, merito eterne umiliazioni, perché ho meritato l'inferno.
Ho, è vero, la dolce fiducia che Dio m'abbia perdonato; ma non resta con ciò meno vero che ho commesso un delitto di lesa Maestà divina, una specie di deicidio, una sorta di suicidio spirituale, n. 719, e che, per espiare l'offesa alla divina Maestà, debbo essere pronto ad accettare, a desiderare anzi tutte le umiliazioni possibili, le maldicenze, le calunnie, le ingiurie, gli insulti; perché tutto ciò è assai al di sotto di quanto merita colui che offese anche una volta sola l'infinita Maestà di Dio.
Che se ho offeso Dio moltissime volte, quale non dev'essere la mia rassegnazione, anzi la gioia, quando mi si presenti l'occasione d'espiare i peccati con obbrobri di così breve durata!
844. B) Abbiamo tutti commesso dei peccati veniali e veniali deliberati, volontariamente preferendo la volontà e il piacere nostro alla volontà e alla gloria di Dio.
Or questo, come abbiamo detto, al n. 715, è offesa alla divina maestà, offesa che merita umiliazioni così profonde da non poter mai da noi stessi, fosse pure con una vita passata tutta nella pratica dell'umiltà, restituire a Dio tutta la gloria di cui l'abbiamo ingiustamente spogliato.
Se pare esagerato questo linguaggio, si pensi alle lacrime e alle austere penitenze dei Santi che non avevano commesso se non peccati veniali e che non credevano d'aver fatto mai abbastanza per purificarsi l'anima e riparare gli oltraggi inflitti alla divina maestà.
I santi vedevano le cose meglio di noi, e se noi non la pensiamo come loro è perché siamo accecati dall'orgoglio.
Dobbiamo dunque, come peccatori, non solo non cercare la stima altrui, ma disprezzarci e accettare tutte le umiliazioni che Dio vorrà mandarci.
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