L'azione |
L'intuizione sensibile sembra perfettamente chiara e coerente, di una semplicità assoluta.
Perché allora non ci siamo attenuti a questo primo dato della vita, a questo rudimento di una conoscenza che sembra perfetta fin dall'inizio?
E che cosa c'è di naturale, di necessario nel bisogno scientifico?
A quale segreta ambizione corrisponde questo desiderio rinascente di ricerche?
E con quali soddisfazioni provvisorie ci sembra di metterlo a tacere?
I.
A prima vista l'impressione sensibile costituisce per ciascuno tutto quello che può essere, l'unico punto sul quale non si possa mai discutere, perché non si comunica mai la realtà stessa di ciò che si sente.
La qualità della sensazione che provo è unica nel suo genere, di specie incomparabile, senza analogia.
E quello che è proprio di questa intuizione non potrebbe essere né analizzato, né misurato, né descritto: dei gusti e dei colori non si discute.
In questo ordine della qualità pura non c'è nulla che non sia eterogeneo.
Io sono ciò che sento nel momento in cui lo sento.
Ma perché lo senta non c'è bisogno che nella stessa sensazione vi sia dell'altro?
La qualità sensibile non è il solo dato immediato dell'intuizione.
Se lo fosse, svanirebbe, perché essendo discontinua, sufficiente, incomparabile, sempre perfetta e sempre sparita, non sarebbe mai altro che un sogno senza ricordo, senza passato, né presente, né futuro.
Perché non è così? Perché dal momento in cui appare, la sensazione cela un'incoerenza e come un'antinomia interna: non sussiste se non in quanto è sentita; e non è sentita se non in quanto è rappresentata allo stesso tempo che presente, immaginata al tempo stesso che percepita.
Di modo che in essa sono incluse necessariamente queste due affermazioni all'apparenza inconciliabili: « io sono ciò che sento, io sento ciò che è ».
È una dicotomia anteriore alle stesse leggi che governano la successione e i contrasti degli stati di coscienza, e nella quale tuttavia qualcuno ha preteso di scoprire la forma primitiva di ogni intuizione.
Perché, anche supponendo che le sensazioni non siano percepite se non per « discriminazione », occorre che in ognuno degli stati contrastanti vi sia qualcosa che lo renda possibile.
Qui dunque si tratta di ciò che nel fenomeno sensibile fa sì che sia un fenomeno, facendo sì allo stesso tempo che sia sensibile.
Ora tra questi due termini c'è un'opposizione di fondo che non è stata rilevata a sufficienza, sebbene essa costituisca il punto di partenza di qualsiasi indagine scientifica o filosofica.
In effetti riflettiamo su questa cosa curiosa, che è strana e universale: in ciò che si vede si percepisce, nel momento stesso in cui ci si convince che l'impressione percepita è Ia realtà assoluta e integrale, si cercar qualcos'altro rispetto a ciò che si percepisce e si vede.
Pascal da ragazzo vuole afferrare il suono che ha percepito, come se il suono fosse al tempo stesso altro e quale lo percepisce.
A nostra insaputa tutti siamo portati ineluttabilmente a fare la stessa cosa.
Io non ho sensazione che a queste due condizioni: che da una parte ciò che percepisco sia totalmente mio, e che dall'altra ciò che percepisco mi appaia del tutto esterno a me ed estraneo alla mia azione.
Non è questa la credenza e l'aspirazione della gente?
Essa immagina che il visibile non sia nulla più di quello che viene visto, come se la sensazione fosse di fatto la misura di tutte le cose, e rimane convinta che quello che si vede è la cosa stessa, come se la sensazione non fosse nulla e l'oggetto tutto.
È una incoerenza perenne che si rileva nei minimi dettagli della vita.
Allo stesso modo non siamo forse portati, e quasi allo stesso momento, a volere che tutti sentano come noi, compenetrati come siamo della verità universale dei nostri gusti, e a volere essere soli a percepire, gioire e soffrire come facciamo noi, con la convinzione che gli altri ne sarebbero incapaci o indegni?
E quando la riflessione critica si impegna a dimostrare che i dati immediati e le forme necessarie della sensibilità non possono avere una sussistenza propria al di fuori di noi, senza dubbio con ciò constata giustamente che la percezione umana non potrebbe essere indipendente dall'uomo, ma non sfugge totalmente alla credenza che intende combattere.
Perché non combatte ciò che essa chiama l'illusione metafisica se non a condizione di ritenere che dietro il dato sensibile vi sia un dato differente da esso, quale che sia.
E qui non si tratta di una semplice dicotomia logica; no, si tratta di un'incoerenza reale e di una instabilità di fatto.
Alla scaturigine stessa dell'intuizione più elementare c'è come una rottura dell'equilibrio che non ci permette di fermarci a essa, perché in verità abbiamo questa intuizione solo superandola già, e affermando implicitamente che essa in qualche modo è più di quello che è.
Perché, affinché essa sia, occorre che le assegniamo una consistenza che non ha senza di noi, e non comincia a essere se stessa che al momento il cui si cerca e si pone in essa qualcosa d'altro rispetto a noi, e in noi qualcosa d'altro rispetto a essa.
Riusciremo mai a risolvere queste difficoltà? e malgrado la sua incoerenza fonderemo la realtà del fenomeno sensibile?
Sarà possibile deciderlo solo alla fine di questa ricerca.
La cosa che adesso merita la nostra attenzione è proprio questa ambiguità, è la necessità in cui siamo di rappresentarci il visibile a un tempo come è visto e tuttavia diversamente da come lo vediamo.
Senza dubbio la pratica insegnandoci con un'esperienza molteplice a decifrare le nostre sensazioni e a servircene, non registra l'equivoco che sconcerta la riflessione.
E in effetti è straordinario che l'azione più insignificante risolva, senza farsene una preoccupazione, un problema di cui nessuna filosofia è venuta a capo totalmente, perché nessuna filosofia ha fatto uno studio completo dell'azione.
Nonostante tutto siamo indotti da un processo naturale a cercare dietro la sensazione bruta, quale è impressa in noi, ciò che essa è.
Anche quando la si crede quale appare, e si ammette ingenuamente l'identità di ciò che si percepisce con ciò che è percepito, c'è fin nell'intuizione più elementare una dualità e un'opposizione che non può non esplodere: è l'origine di ogni bisogno di sapere.
II.
Finché si scambia la sensazione per l'oggetto stesso, non si risveglia alcuna curiosità speculativa.
Questa curiosità nasce dal momento in cui per le smentite che l'esperienza sembra dare a se stessa, per il conflitto tra i gusti individuali, per il movimento della riflessione nasce l'idea che ciò che percepiamo non è la sola, vera e totale realtà di ciò che percepiamo.
Per parecchi secoli questa semplice scoperta ha alimentato le discussioni della filosofia e della scienza insieme.
In effetti partendo dal sensibile si è inteso discernere il reale, indipendente dalla sensazione stessa anche se simile a essa, a meno che non sia il suo contrario.
Si è cercato il principio universale delle cose, l'elemento di cui sono composte, il numero o l'idea di cui partecipano, il genere di cui sono la specie, la forma sostanziale che esse custodiscono sotto i loro accidenti sensibili, le qualità primarie che le costituiscono, la loro caratteristica matematica, gli equivalenti della forza la cui unità si manifesta nella diversità dei fenomeni fisici.
Dal momento in cui si pone sotto la sensazione un'altra conoscenza, sembra che questo mondo nuovo di fatti inaccessibili ai sensi restituisca al pensiero l'equilibrio perduto, e soddisfi in definitiva il bisogno naturale dell'essere nascosto da scoprire.
Quanti dei nostri contemporanei ne rimangono convinti!
A certi uomini di cultura dietro le percezioni immediate, che le menti semplici continueranno per lungo tempo a prendere per moneta sonante, la realtà sembra tale, assolutamente tale quale la presentano le scienze positive.
E per essi l'universo, tutto sommato, è un sistema di movimenti variati e ritmati nel quale rientrano le nostre azioni.
Essi immaginano per analogia con il sensibile ciò che non possono percepire direttamente; e siccome hanno fornito ai loro occhi una sorta di duplice vista, pensano che questo visibile, che non vedono più, in definitiva sia la vera realtà, la quale, è pacifico, non può essere ciò che vediamo.
Come si è sviluppato questo realismo fenomenista?
È interessante farlo vedere, per prepararsi a osservare se davvero le scienze positive ci bastano in tutto e se sono sufficienti a se stesse.
Le scienze e la critica hanno intaccato il valore delle vecchie distinzioni metafisiche.
Le qualità primarie non significano nulla più e nulla meno delle qualità secondarie della materia.
È un'illusione, ormai smascherata, intendere le une come il rovescio reale dell'apparenza sensibile, o di far svolgere loro vicendevolmente il ruolo di fenomeno e di sostanza.
Ma questa relazione tra due termini così sproporzionati, come quella tra le qualità sensibili e una presunta realtà sostanziale, una relazione della quale abbiamo riconosciuto l'inutilità nell'ordine ontologico, viene ricostituita nel campo scientifico come relazione tra calcolo e natura.
Ecco in che modo e con quali pretese.
Per lungo tempo le scienze matematiche, le più antiche, le più rigorose, le meglio concatenate di tutte, parvero avere nell'ordine ideale e astratto in cui sembrano essere circoscritte, un'indipendenza e una sufficienza totali.
Se se ne ricavavano alcune applicazioni, ciò avveniva senza pensare di riconnettere questo impiego concreto di verità astratte ai principi stessi, e senza vedervi una conseguenza veramente scientifica del calcolo.
Ce ne servivamo nella pratica, ma senza considerarle come costitutive dell'esperienza e immanenti alla natura.
Lo scarto tra il matematico e il sensibile era troppo grande perché ci venisse in mente di vedere nel sensibile medesimo un oggetto di scienza, e nella natura un calcolo realizzato.
Ma quando, grazie alla precisione di un metodo differente dalle vecchie forme di dimostrazione, le conoscenze attraverso l'osservazione hanno preteso il rango di scienza, è sorto un nuovo problema.
È possibile collegare la deduzione matematica con i fatti di esperienza; e non bisogna considerare la formula dell'analisi matematica e la legge fisica come un duplice aspetto della medesima soluzione?
Questa appare un'ipotesi feconda consacrata dal successo.
Le scienze esatte e le scienze sperimentali, che procedono parallele e solidali nei loro progressi, sembrano in qualche modo afferrare la natura dai due capi insieme; e congiungendosi nel bene comune di loro applicazioni mutue, sembrano chiudere il cerchio in cui la vita dell'uomo si sviluppa naturalmente.
Esse governano insieme i numeri e i fenomeni, governano gli uni per mezzo degli altri: sicché anche l'azione diventa esatta e scientifica, e senza oltrepassare quest'ordine della conoscenza positiva sembra trovare una stabilità, una certezza e una sufficienza assolute.
E se è vero che l'analisi del reale non è mai terminata, e mai deve esserlo, lungi dal preoccuparcene ne facciamo un punto di forza.
Perché, anche di fronte all'ignoto la scienza non deve temere di incontrare il nulla, l'essere, l'inconoscibile.
Quello che ignora ancora, lo potrà sapere un giorno.
Quello che ignora non vanifica quello che già da adesso sa, e non le impedisce di sfruttare ciascuna delle sue conquiste successive.
In tal modo sulle cose risultano aperte due visuali ugualmente scientifiche, due visuali del tutto differenti, due visuali che, non si sa come, di fatto concordano, e si compenetrano al punto da formare, a quanto pare, una sola prospettiva, e da concorrere con la loro stessa duplicità all'unità e alla sufficienza universale della Scienza.
E l'associazione diventa talmente inseparabile che non se ne rileva la stranezza, ma si valorizza questa duplicità implicita per ammettere che esse rendono ragione a vicenda l'una dell'altra, che soddisfano il bisogno sempre insorgente di un enigma da spiegare o di un sostrato da attingere, e che dappertutto c'è un problema e dappertutto c'è una soluzione scientifica, dato che l'una funge da incognita e da limite dell'altra e viceversa.
Così non c'è bisogno, si ritiene, di ricercare qualcosa al di là di questa doppia e unica spiegazione, perché essa ha un'efficacia pratica.
Di fatto ha successo, è sufficiente all'azione, è sufficiente alla vita.
Ecco dunque come le scienze positive ( e con questi termini si indicano soprattutto le certezze sperimentali, precisamente perché si sottintendono le matematiche, le quali da quando Comte ha classificato tutte le scienze in una serie continua sembrano implicate nelle altre ) paiono soddisfare tutti i nostri bisogni speculativi e pratici.
È dunque necessario vedere in maniera più ravvicinata possibile se questa pretesa è giustificata.
Ci sono o no nella scienza questa coerenza e questa sufficienza che in definitiva insediano la mente e la volontà nella piena pace della certezza e nel pieno successo pratico?
O non si scambia invece come soluzione un dato nuovo della stessa questione?
È la scienza che spiega tutto dell'azione, o è invece l'azione che fornisce alla scienza la materia per sussistere?
* * *
Mi propongo ora di mostrare che tra le scienze matematiche e le scienze Sperimentali, all'origine, nel corso e al termine del loro sviluppo, c'è contemporaneamente rottura e solidarietà.
Questa collaborazione silenziosa e costante, questa unità, questa stessa esistenza delle scienze non è possibile che per una mediazione dalla quale, lungi dal renderne conto, esse dipendono.
Resterà quindi da definire questo fatto mediatore, punto di partenza e materia di una ricerca ulteriore.
Sicché, dopo aver messo in evidenza l'insufficienza della sensazione e anche l'inconsistenza delle spiegazioni fornite dalle scienze positive, passeremo, con un procedimento inevitabile, dal fenomeno esteriore al fenomeno interiore della coscienza, è dalla scienza dei fatti alla scienza dell'azione, constatando la necessità e l'originalità dello studio del soggetto.
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