L'azione

Indice

L'incoerenza delle scienze positive e la mediazione dell'azione2

Capitolo II

È un fatto che tra le scienze deduttive e le scienze sperimentali c'è un fecondo commercio.

La scienza stessa sembra avere ragion d'essere e potere di progresso solo in forza di questo scambio continuo; è l'unità che costituisce la sua forza e che assicura il suo impero.

Ma la stessa scienza rende conto di questa unità reale e incontestata?

Poniamo mente al suo duplice punto di partenza.

Da un lato le matematiche, grazie a una finzione che ha successo, suppongono che l'analisi del reale è terminata; ora siccome di fatto non lo è, e non può esserlo mai, in questo senso esse hanno un carattere ideale e trascendente in rapporto alla conoscenza empirica.

Quindi senza perdersi in una regressione infinita, esse si fondano sull'uno, come se l'esperienza attingesse l'atomo o il punto, sull'omogeneo e il continuo dello spazio, della grandezza e del numero, come se fossero il limite accertabile o verificato della discontinuità e dell'eterogeneità sensibile.

In esse si pensa risolta l'antinomia del semplice e del molteplice, dell'indivisibilità e della divisibilità indefinita.

È questo il principio stesso di ogni calcolo.

E con questo audace artificio del pensiero, che il successo giustifica, ci si atteggia come se si fosse in possesso di ciò che sfuggirà sempre alla nostra presa, l'unità e il continuo omogeneo.

Dall'altro lato, mentre le scienze deduttive, supponendo preliminarmente l'analisi ultimata, procedono per sintesi a priori per determinare il nesso necessario che costituisce una continuità perfetta, le scienze della natura, descrivendo gli esseri o definendo i fatti quali li osservano o li producono, suppongono sempre la realtà originale, la perfezione relativa, la sufficienza di ogni sintesi in quanto sintesi.

In esse l'unità concreta è considerata come un totum che per quanto divisibile non è risolvibile nelle sue parti.

Solo a questa condizione le scienze sono possibili e valide; perché, siccome noi non conosciamo il tutto di niente, non conosceremmo niente del tutto se non potessimo aggrapparci saldamente a ogni grado che ci fa raggiungere l'ordine delle composizioni o delle decomposizioni.

Così il vero dominio di pertinenza di ogni scienza fondata sull'esperienza è esattamente ciò che non si dedurrà mai, la natura complessa, la discontinuità e l'eterogeneità degli oggetti che essa assume come materia delle proprie ricerche.

E le determinazioni quantitative che riesce a utilizzare ( come, per esempio, nello studio dei composti chimici ), servono solo a mettere in evidenza la distinzione precisa, le discontinuità, le differenze specifiche e irriducibili che separano gli affini più prossimi delle medesime famiglie e le combinazioni dei medesimi elementi.

No, la perfetta teoria della natura non la potrebbe risolvere in termini puramente intellettuali, così come l'intera conoscenza che ne avrebbero i nostri sensi non la potrebbe rivelare nella sua piena verità.

C'è dunque nella scienza, alla sua stessa origine, un evidente dualismo.3

Talvolta essa cerca, al di fuori dei fenomeni percepiti immediatamente, ciò che è generalità astratta e concatenamento necessario.

Avendo messo tra parentesi la natura dei composti e le qualità proprie degli elementi, il calcolo appare come la forma continua dell'universo.

Talaltra, messa tra parentesi l'unità di composizione, si impegna a dotare l'intuizione sintetica di una precisione quantitativa e di una individualità definita.

Ricondurre tutto all'omogeneo, riconoscere ovunque e definire l'eterogeneità: queste due tendenze sono ugualmente scientifiche, questi due metodi sono ugualmente completi e sufficienti, ciascuno nel suo senso.

L'uno e l'altro usano in parte l'analisi e in parte la sintesi; per il primo l'analisi è ipotetica, per il secondo lo è la sintesi.

Per il primo la sintesi è, se così si può dire, analitica a priori; per il secondo l'analisi è sintetica a posteriori.

In altri termini l'uno si costruisce con gli elementi di un'analisi ideale e l'altro nelle sue scomposizioni attinge unicamente sintesi reali.

Per il primo l'azione è un'integrazione di cui un calcolo perfetto potrebbe fornire la formula rigorosa; per il secondo l'azione è un fatto sui generis, di cui nessuna approssimazione matematica rivela l'originalità, e che come ogni altra sintesi può essere conosciuta solo per osservazione diretta.

Dunque la concezione positivistica, oggi dominante, per la quale le scienze sarebbero concatenate in una serie unilineare secondo un ordine crescente di complicazione, è radicalmente sbagliata.

Allo stesso tempo ciascuna delle forme della scienza ha senso e ragion d'essere solo in quanto l'una in qualche modo reduplica l'altra e la eguaglia.

Sebbene nello stile dei matematici il tutto e la parte siano omogenei, le matematiche costituiscono sintesi specifiche e usano simboli ricavati dall'eterogeneità delle conoscenze sensibili.

Sebbene le scienze della natura si fondino sul quid proprium dell'intuizione, esse hanno la pretesa di introdurvi la continuità causale e la legge del numero.

Così ciascuna sembra essere una materia, un metodo e uno scopo per l'altra.

È sufficiente delineare in tal modo questa soluzione di continuità, questo parallelismo e questa cooperazione tra le due forme generali della scienza.

Quello però che meno è messo a fuoco, ed è forse più meritevole di esserlo, è che all'interno di ogni disciplina scientifica, nel dettaglio dei procedimenti di calcolo o di esperienza, nella costituzione delle verità positive si cela un dissidio analogo, e si stabilisce un accordo analogo che la scienza non giustifica.

Dunque non soltanto nel suo insieme la scienza è, per così dire, spezzata in due tronconi, i quali tuttavia non vivono che mantenendosi accostati; la medesima incoerenza e la medesima solidarietà si rivela nel dettaglio della costruzione di ciascuna scienza.

All'inizio, nel corso e al termine ideale di qualsiasi scienza c'è un'antinomia, e un'antinomia risolta di fatto.

È dunque importante ricercare a quali mutui indiretti e impliciti ciascuna di esse deve la propria esistenza e il proprio progresso, e come in definitiva sia necessaria una mediazione per questa perenne trasposizione di elementi estranei gli uni agli altri e per questa costante collaborazione tra metodi irriducibili.

Perché, se si mostra che ciò che nelle scienze positive è loro trascendente ed estraneo è esattamente ciò che le rende possibili e impiegabili, questo significherà mettere in luce ciò che nella stessa scienza esige che la scienza sia oltrepassata.

Se ognuna di esse avesse una specie di indipendenza o di sufficienza, avremmo il diritto di fermarci a essa e di accontentarci dei suoi successi anche se provvisori.

Ma non è così; e questa imperfezione non riguarda la carenza dei suoi risultati, peraltro sempre parziali, ma la stessa natura delle verità che essa raggiunge e del metodo che adopera.

Non solo la scienza è carente mentre è in fieri, ma anche se la si suppone fatta e perfetta, è ancora carente.

La verità è che c'è un difetto iniziale e finale di ciascuna separatamente e di tutte insieme nel loro mutuo commercio.

Le scienze positive non ci soddisfano perché non sono sufficienti in se stesse.

I.

Le scienze esatte ricavano le loro sintesi a priori dal semplice e dall'omogeneo, che esse suppongono di primo acchito al termine dell'analisi, e pongono al principio delle loro costruzioni.

Ora da dove nasce l'idea stessa di questo procedimento sintetico che è loro essenziale?

In base a che cosa si può considerare la costruzione come un tutto in seno al quale i materiali hanno relazioni determinate, un ordine, un valore che non avevano prima di farne parte?

Senza dubbio parlando propriamente nulla è empirico né negli elementi, né sul piano stesso dell'edificio matematico.

Ma niente in esso è concepibile senza un prestito primordiale, senza un plagio mimetizzato, senza una continua imitazione del concreto.

Perché il carattere proprio del calcolo infinitesimale, di questo calcolo che è la forma eminente di ogni altro calcolo, che inserisce la matematica fin nel cuore della fisica e della stessa vita pratica, è quello di essere al tempo stesso una finzione e una finzione utile, di restare nell'ideale e di adattarsi al concreto, insomma di convenire alla natura delle cose senza pretendere di rendere conto della natura delle cose.4

In effetti non rileviamo che più la scienza astratta si immerge in calcoli nei quali sembra fuggire la realtà, più essa tende a ritornarvi, e meglio si applica alla realtà?

In verità fin dall'inizio in essa si verifica, per renderla possibile, una sorta di inserimento inavvertito di altro da essa.

Secondo quanto osserva Helmholtz,5 se prendiamo come base sperimentale questo semplice fatto, questo semplice « sentimento » che nella nostra vita interna un fatto conservato dal ricordo ha preceduto il fatto attuale, possiamo costruire razionalmente tutto il vasto edificio dell'Analisi moderna.

Che altro significa ciò se non che tutte le sintesi successive sono a priori, ma l'idea stessa di sintesi e l'esistenza di tutte le relazioni matematiche è fondata su un'esperienza reale, sul « sentimento » di un'unità complessa quale quella di uno stato di coscienza o di un'azione mentale?

L'ambizione delle scienze esatte è di produrre col continuo e l'omogeneo di cui dispongono in partenza tutta la diversità delle formule e dei teoremi che adeguano sempre meglio la molteplicità delle forme della vita.

Con gli elementi che esse combinano costituiscono una sorta di specie ideali, delle quali considerano le proprietà e, per così dire, l'individualità generica.

Ma se nel cuore di ciascuno di questi raggruppamenti analitici si forma un'unità, se c'è un'integrazione distinta degli elementi integrati, ciò avviene per un'audacia da cui le matematiche traggono profitto, senza giustificarla ad alcun livello: una sintesi costituita a priori, un sistema di elementi omogenei considerato come eterogeneo da essi, un tutto formato analiticamente e considerato indecomponibile nelle sue componenti.

È la stranezza per antonomasia, ma nessuno se ne meraviglia.

Grazie a uno schematismo, mutuato dall'intuizione sensibile per trasposizione e analogia, che è come una percezione dell'irreale o un'immaginazione dell'immaginario, il pensiero si esercita su un materiale fittizio, astratto dall'esperienza positiva.

Ed eliminata la qualità sensibile, vinculum perceptionis, in questa sorta di sintesi analitica esso si appoggia su un'esperienza pura e su un mondo di fenomeni intellettualizzati.

Se per un istante esaminiamo da questa visuale lo sviluppo delle scienze esatte, vedremo in esse l'immagine dell'evoluzione che le scienze della natura pretendono descrivere nel mondo organico.

E attraverso questo parallelismo meritevole d'attenzione scopriremo nelle matematiche l'influenza costante e indispensabile di una concezione estranea alle matematiche.

Queste scienze sono nate solo nel momento in cui nell'omogeneo e nel continuo hanno supposto una differenziazione e delle relazioni possibili di grandezza e di numero; è la materia ideale alla quale imporranno la forma delle loro deduzioni.

Siccome all'inizio non posseggono che questo puro elemento astratto, esse dapprima considerano l'elemento come isolato e inerte, anche in seno alla composizione e alla spontaneità.

Per mezzo di questa semplicità astratta, esse accedono al rigore, alla chiarezza e all'esattezza.

Nel tutto l'elemento solo è di fronte all'elemento solo.

E secondo questa prima concezione meccanicistica il sistema universale e ciascuna sintesi particolare non è nulla più che la relazione elementare e l'ordine delle parti costituenti.

Per mezzo dell'analisi ogni problema può essere ricondotto al semplice, senza aver bisogno di considerare in sé e per sé l'organizzazione intrinseca del composto.

Così si costituisce il primo luogo, interamente astratto e omogeneo, in cui si dispiegheranno come in una gerarchia di forme sempre più organizzate le complicazioni crescenti della scienza; così con un'elaborazione originale dall'esperienza vengono fuori i principi fondamentali della meccanica razionale.

È questo un punto d'appoggio necessario, ma non è che un punto di partenza.

« I composti hanno per simboli i semplici », come osserva Leibniz; vale a dire che a loro volta essi possono essere considerati come unità, ma come unità complesse; e che tra l'elemento e il tutto si inserisce una gerarchia di costruzioni definite.

Quindi ricompare sempre il medesimo postulato: la costruzione matematica, senza ricorrere e senza sfociare mai nel quid proprium dell'intuizione empirica, è costituita dalla sola forza dell'analisi come una novità originale e come una sintesi a priori.

E in questo mondo razionale si formano dei sistemi chiusi e tutto un insieme di funzioni subordinate, come nel mondo degli esseri animati si stabiliscono delle relazioni molteplici, un'organizzazione di parti e un'accumulazione di forza viva.
Il composto si comporta dunque come un centro unico, come un tutto.

E sotto l'unità del suo sviluppo c'è un mondo di movimenti interni, echi e ripercussioni intime di energia.

Così al meccanismo si aggiunge o addirittura si sostituisce, senza eliminarlo, il dinamismo.

Il progresso del calcolo ( da Cartesio a Leibniz ) sta nel comprendere questa unità complessa, con l'infinito che nasconde, lo sforzo che include, l'azione che produce.

In questo modo le stesse qualità sensibili, tramite questa nozione mediatrice dell'infinito, sono riducibili, o meglio sono convertibili in espressioni matematiche.

Anche qui che altro significa ciò, se non che le scienze deduttive non vanno oltre, e non avanzano, che accettando una nozione che le contraddice, e inserendo sul loro terreno come il riconoscimento della loro incoerenza?

Leibniz nel momento stesso in cui si rende conto quanto sia contraddittorio il concetto di un numero infinito attuale, ammette che ogni realtà finita include un infinito attuale.

Vale a dire che il calcolo può raggiungere i dati empirici solo collegandovi il reale e il nulla a livello dell'infinito, in questo infinito matematico il cui carattere è del tutto negativo, perché è proprio del limite non essere mai raggiunto.

Qui dunque è la stessa finzione che permette di attingere la realtà.

Senza dubbio Cartesio ebbe la viva percezione di questa difficoltà; era stata questa la molla di tutta la sua impresa metafisica.

Ma egli aveva collegato la conoscenza sperimentale alla deduzione soltanto con un legame artificiale.

Sacrificando interamente uno degli aspetti del problema, e subordinando l'intuizione sensibile alla matematica universale che sognava di fondare, egli non ebbe l'idea di una vera e originale scienza della natura.

Viceversa Leibniz mediante una relazione intima e intrinseca innesta il calcolo nel cuore stesso della realtà fisica, e gli subordina persino la spontaneità della forza.

A sua volta ogni sistema diventa elemento di sintesi superiori.

Dopo averlo considerato, per comodità della progressione deduttiva, come un sistema chiuso e indipendente, lo si fa entrare in composizione con altri sistemi, per portare tutta la gerarchia di queste costruzioni sintetiche a partecipare al sistema universale.

Ma a sua volta questo sistema dell'universo è considerato nella sua unità come un tutto determinato?

Resta possibile far esprimere all'omogeneità dello spazio indefinito l'eterogeneità illimitata delle relazioni che contiene, e formulare nel linguaggio delle relazioni della quantità tutte le variazioni della qualità.

In tal modo, considerando uno spazio a n dimensioni, la geometria superiore introduce nello studio del movimento la caratteristica dell'orientamento e della qualità; quest'ultima è άπειρος, non determinata, non determinabile, ma comporta una infinità di determinazioni o di direzioni particolari.

La stessa contingenza dunque è ricondotta al determinismo e alla necessità matematica, senza perdere nulla del suo carattere.6

Ma non è ancora tutto. Dal momento in cui si concepisce l'unità del sistema universale, grazie a una nuova iniziativa di questa immaginazione razionale che persegue le sue esperienze nell'a priori, si è indotti a concepire la possibilità di altri sistemi, a non considerare il primo che come un caso particolare di una geometria più generale di quella volgare, come un elemento di combinazioni nuove o di sintesi ulteriori.

È questo il senso di quei tentativi recenti compiuti dal pensiero per liberarsi dei postulati, o persino delle leggi, che gli erano sempre parsi estremamente necessari.

Come ci induce a pensare il progresso della matematica, il mondo non è un sistema chiuso: è illimitato, άόριστος;7 ciò che si chiama vita e libertà vi possono intervenire senza sconvolgere il calcolo.

Il fatto che vi si produca incessantemente il nuovo e, per così dire, il miracolo, costituisce forse disordine o violazione della legge della conservazione dell'energia? No, è un ordine più completo.

Anche leformule più ampie di un'algebra generale consentono allo spirito di esprimere rigorosamente questa improvvisazione del movimento e questo lato arbitrario della spontaneità.

L'indeterminazione rientra così nello stesso determinismo.

E si capisce che la maternatica perfetta possa offrire per ogni punto una soluzione assolutamente singola; sicché essa sarebbe l'immagine della sensibilità che riproduce sotto un'infinità di forme individuali una medesima realtà e una sola vita, o il simbolo di una Provvidenza speciale che farebbe di ogni atomo un mondo intero e un centro di prospettiva, o ancora l'espressione di questa carità che è tutta per tutti e che realizza la perfezione del calcolo.

Che cosa c'è di più bello e di più solido, sembra di poter dire, di questa superba costruzione di una scienza capace di costruire un universo e di incasellare il mondo, tutti i mondi possibili, nelle sue formule!

Ma è solo un incanto da rompere.

Le matematiche si adattano all'esperienza, ma non partono da essa.

Esse mutuano dall'esperienza il materiale della loro sussistenza, ma non vi approdano.

Esse paiono trovare nei fatti la conferma della loro realtà, ma sono senza alcuna relazione di natura con i fatti.

E mentre da un lato sembrano necessarie come l'unica forma dei fenomeni che esse servono a determinare e a governare, dall'altro i loro simboli sono arbitrari; questi sono posti da un atto dello spirito.

Vogliamo cogliere nel vivo questo atto?

Il limite matematico non è mai raggiunto, e tuttavia bisogna cominciare ammettendo che esso è dato di fatto.

In altre parole, al termine occorre ancora supporre il punto di partenza, la certezza finale rimane fondata sulla finzione iniziale, e la garanzia suprema del calcolo è al di fuori del calcolo.

Non arriviamo al limite, ma ne partiamo per potervi ritornare inserendo all'ombra del fatto tutto il mondo delle determinazioni matematiche.

O meglio vi ritorniamo come se ne partissimo; partiamo da esso come se vi ritornassimo.

Pur essendo esterno alla scienza, il limite è necessario a essa.

E questa finzione, che rende possibile il calcolo infinitesimale, è identica alla semplice operazione che pone l'unità.

Ovunque troviamo la stessa cesura e la stessa sutura.

Ovunque si dà lo stesso carattere arbitrario e necessario dei simboli.

Le scienze esatte restano dunque segnate da questo triplice marchio, e ciò fin nel loro tessuto più capillare:

1. Non rendono conto in alcun modo né del modo in cui emanano dalla realtà, né del modo in cui vi ritornano e vi si adattano.

Esse non spiegano la loro efficacia, non conoscono quello che operano.

2. Per quanto sembrino essere fondate sulla realtà e regnare su di essa, le sono estranee.

Non sono in grado di render conto della più semplice sensazione, del minimo atto.

Nella qualità, che in quanto qualità sfugge loro, nella gerarchia di ciascuna sintesi che forma come un mondo nuovo, c'è un elemento che è assolutamente refrattario a esse: per esempio quello che rimarrà peculiare dei composti chimici quando saremo riusciti a tradurre le loro combinazioni nello spirito e nel linguaggio della fisica matematica, quello che è dato nella prima intuizione, πρότερονπρός ήμάς.

Quello che ci fanno conoscere, non ce lo fanno conoscere quale noi lo conosciamo.

3. Nel loro lavoro di integrazione continua esse si appellano costantemente a un procedimento sintetico, l'unico capace di fornire loro una materia che sia, per così dire, completamente formale.

Ma questa stessa iniziativa del pensiero sfugge loro; esse sono estranee in casa loro.

In queste scienze in cui tutto sembra pervaso dalla luce, e in cui la distinzione delle idee raggiunge la sua perfezione, la molla della scienza non rientra nella scienza; ciò che esse conoscono non lo conoscono così come lo conoscono.

In tal modo dunque all'origine, nel corso e al termine delle scienze esatte, nella loro costituzione interna come nelle loro relazioni naturali con le altre scienze, dappertutto sussiste in esse un postulato tacito e come una frattura permanente.

Indubbiamente per questo motivo le scienze sperimentali hanno rapporti con esse,8 e grazie a questi rapporti la scienza può ambire all'unità e alla sufficienza di una spiegazione universale.

Ma almeno dal lato delle matematiche la sutura non è operata, e non lo sarà mai: tale sutura non può essere operata da queste, così come non può esserlo in esse.

Per quanto le supponiamo sviluppate, esse non esauriscono e non attingono la realtà percepita; ma portano sempre, fin nelle loro deduzioni più remote, la tara del loro principio, il carattere fittizio del loro postulato iniziale.

E se pure hanno successo nella pratica, ciò avviene senza giustificare questo successo e persino questo impiego.

In tal modo, al contrario dei Pitagorici o dello stesso Cartesio, i quali vedevano nelle matematiche il fondo più reale delle cose in opposizione all'apparenza sensibile, sembra che ormai si sia indotti a trovare questa realtà più solida nelle verità sperimentali.

Perché da quando queste comportano un rigore scientifico, sembrano svolgere nei confronti del loro surrogato matematico il ruolo che le matematiche parevano svolgere nei confronti dei fenomeni sensibili.

È dunque in queste scienze positive che alla fine troveremo il riposo del nostro spirito, il limite della nostra curiosità volontaria e la definizione della nostra azione?

II.

Non è facile individuare con precisione il punto di partenza delle scienze sperimentali.

Perciò queste scienze sono nate veramente e sono cresciute tardi.

Ma fin da questa origine ricompare un'incoerenza analoga a quella che rimane conficcata nel cuore delle matematiche, un postulato segreto che si insinuerà in tutti i loro sviluppi; e anche quando saranno alla meta verso cui tendono, non saranno libere da esso.

Il fondamento di qualsiasi conoscenza sperimentale sembra essere la semplicità complessa della percezione immediata e l'irriducibile intuizione dei sensi.

Infatti ogni tentativo di analisi ulteriore deforma questo dato concreto senza renderne conto.

Ma questo dato primordiale è assolutamente confuso; e in seno a tale confusione la differenziazione è infinita: per i sensi l'universo sensibile è un caos.

È in questo disordine che l'osservazione analitica si sforza di scoprire un ordine e delle leggi.

Ora in base a che cosa si riesce a considerare il mondo un tutto in cui vi sono delle parti distinte?

In base a che cosa nasce l'idea di questo procedimento analitico che sotto la pristina indeterminazione della qualità introduce la chiarezza e la distinzione numerica?

Nessuna conoscenza sperimentale è concepibile senza un'analisi fittizia e senza un'astrazione iniziale che delimita artificialmente la stessa materia dell'osservazione.

In tal modo ogni fatto percepito, per quanto indeterminato, suppone un lavoro di elaborazione di cui l'esperienza non rende affatto conto nel momento stesso in cui lo constata.

Quindi il carattere sintetico dei dati sensibili è il risultato di un'analisi estranea a questi stessi dati: la possibilità dell'osservazione è già un postulato.9

E adesso seguiamo il progresso delle scienze induttive: vedremo che da una parte esse cercano di collegare con un determinismo rigoroso tutte le forme discontinue che l'analisi della realtà presenta loro, dall'altra tentano di definire in termini precisi queste forme distinte e originali presenti nel seno stesso della continuità universale.

In ogni caso esse hanno sempre bisogno, per le loro analisi e le loro sintesi, di addentrarsi su un terreno che non è più il loro.

I - In effetti vi sono stati ritardi e difficoltà per giungere a considerare il fatto sensibile ( il primo atto della scienza era stato quello di smentire in qualche modo questo fenomeno ) come oggetto specifico e diretto della scienza.

Tutta l'antichità aveva ritenuto che si da scienza unicamente del generale.

Ma ormai la prospettiva pare quasi rovesciata, e sembra che non vi sia scienza che del concreto, del positivo, del particolare.

Come una volta si disdegnava il fatto e l'individuo, adesso si ama scoprire nella singolarità e nell'anomalia una lezione preziosa; e si riesce a far produrre all'eccezione mostruosa un'abbondanza di nuove verità.

Come dunque si è potuto introdurre nello studio del fenomeno qualitativo e discontinuo un ordine, una precisione, una determinazione che hanno reso o renderanno possibile una vera scienza dell'esperienza?

Ciò è avvenuto col concorso di queste due concezioni che si sono sviluppate separatamente, e che a tutt'oggi non sono ancora riuscite a ricongiungersi su tutti gli aspetti: da una parte l'idea di una successione necessaria dei fenomeni; dall'altra una caratteristica numerica delle diverse specie sensibili; - scienza del concatenamento dei fatti; - scienza delle forme reali e delle loro relazioni.

1. Ciò che dapprima è sembrato rivestire il carattere dell'universalità e della necessità scientifica in mezzo all'infinita confusione dei fatti singoli è stata la costanza dei loro rapporti e la stabilità del loro concatenamento.

Ora per istituire queste grandi serie di fatti integrati in una legge, analoghe alle lunghe catene delle verità deduttive, non soltanto bisogna ricorrere sempre a questa analisi artificiale di cui si è rilevato il ruolo indispensabile in qualsiasi osservazione dei fatti, ma bisogna altresì, con un nuovo lavoro che l'intuizione sensibile non giustifica, astrarre provvisoriamente dal contenuto originale di ciascun fenomeno contingente, per considerarne solo la forma necessaria.

In tal modo, affermando il determinismo universale, il fisico, con un ricorso indiretto alle concezioni matematiche, non fa altro che designare sotto un'espressione simbolica questa formula unica che governa e determina l'immenso concatenamento dei fenomeni con la loro crescente complicazione.

Ecco come l'ipotesi dell'unità delle forze fisiche esprime ciò che nell'osservazione è estraneo o addirittura contrario all'osservazione, la quale non coglie mai l'omogeneo e il continuo.

In altri termini, pur non essendo una matematica della natura, perché non risalgono all'unità pura e fittizia attinta solo dall'analisi ideale, nondimeno queste scienze sono una sorta di « matematizzazione » dell'esperienza.

Perché, partendo dall'unità concreta che esse mutuano dall'osservazione, riprendono la forma « matematoide », se così si può dire, delle scienze esatte.

Pur essendo fondamentalmente indipendenti da esse, tuttavia non vivono e non si sviluppano che incorporando a sé, a titolo subalterno e sussidiario, tutte le risorse del calcolo.

Scire est mensurare, secondo il detto di Keplero.

Quindi l'introduzione delle matematiche nelle scienze della natura non costituisce una matematica autonoma; esse sono solo uno strumento subordinato a un metodo opposto.

Qui i calcoli non sono il calcolo; tanto che per studiare da vicino le più elementari misure della fisica, occorre in qualche modo essere guerci.10

E tuttavia la convergenza di questi raggi divergenti sembra naturale e perfetta.

In effetti al fisico è sufficiente stabilire una relazione continuativa tra le intuizioni dell'esperienza, che non comportano nessuna misura diretta, e certi simboli, che sono soggiacenti unicamente alla duplice condizione di essere misurabili e di rappresentare convenzionalmente i dati empirici.

Quello di cui va in cerca è una sintesi maneggevole e una coordinazione sistematica, non una spiegazione delle leggi sperimentali.

E quello che c'è di arbitrario nella sua convenzione iniziale permane lungo tutti gli sviluppi e fin nei risultati meglio verificati della scienza.

2. Ma la fisica matematica non è tutta la scienza della natura.

In parallelo a essa, e persino anteriormente, si è sviluppata un'altra forma dell'esperienza scientifica.

In effetti mentre si scoprivano le leggi che esprimono la successione costante dei fenomeni, ci si impegnava d'altra parte a determinare le specie sensibili e le forme viventi, senza supporre in un primo momento che tra quelle scienze dei fatti e queste scienze dell'essere11 vi potessero essere una solidarietà e una continuità reali.

E già occorreva un difficile sforzo di analisi per discernere i caratteri distintivi e gerarchici di ciascuna delle sintesi realizzate nella natura.

Tutte le antiche classificazioni si sono esaurite in tale lavoro.

In effetti come sostituire ai dati sfuggenti dell'intuizione concezioni fisse e definizioni precise?

Del resto si avrebbe torto a immaginare che le definizioni per genus proximum et differentiam speci ficam, come quelle di Aristotele e degli scolastici, o le stesse classificazioni metodiche dei naturalisti moderni abbiano un rigore soddisfacente.

Il loro valore non è ne propriamente filosofico, perché esse concernono solo i rapporti tra fenomeni subordinati senza cogliere il fondo degli esseri, ne propriamente scientifico, perché quelle descrizioni, per quanto esatte siano, queste classificazioni, per quanto naturali appaiano, non fanno altro che rilevare, in dettaglio certo ma con una precisione « letteraria » che mantiene in esercizio solo l'esprit de finesse, caratteri sensibili e qualità complesse di cui non abbiamo penetrato né la composizione interna né la legge di produzione né gli equivalenti numerici.

Così lo zoologo, per istituire la sue distinzioni, ha sempre bisogno di fare ricorso a nozioni di psicologia soggettiva.

Come dunque introdurre, nello studio delle sintesi reali di cui l'esperienza ci rivela le qualità diverse, questa precisione necessaria sulla quale avrà presa il calcolo?

La chimica, e sappiamo come, ha cominciato a scoprire quella che si potrebbe chiamare l'istologia quantitativa dei corpi.

Essa non solamente definisce le relazioni numeriche degli elementi nei composti, ma fissa anche delle leggi generali, le leggi degli equivalenti definiti e delle proporzioni multiple, che permettono di estendere il calcolo a tutta la varietà delle combinazioni.

Ora se la prima osservazione che isola un fatto dal contesto universale suppone già un'analisi artificiale, la sperimentazione chimica, che decompone una sintesi qualitativa in elementi quantitativi, traspone allo stesso tempo un ordine di fenomeni in un ordine completamente eterogeneo, senza che questo passaggio risulti spiegato.

Per introdurre il bilancino nel laboratorio, e per esprimere in funzione di un'unità di peso il corpo sottomesso all'esperimento, occorreva avere in mente ben altro che una banale pesatura ( la quale del resto implica un'operazione mentale analoga all'associazione della durata continua con le divisioni di uno spazio misurato da un movimento regolare ); occorreva cercare di tradurre la qualità di una sintesi in quantità definite dei suoi elementi.

Questa iniziativa da cui è nata la chimica costituisce la vita della chimica; ma questa non la giustifica: in essa la coesione della scienza non è scientifica.

3. Ma dopo che il calcolo è entrato nelle scienze fisiche, dopo che si è stabilito nelle scienze naturali, si presenta un nuovo problema.

Si possono collegare tra loro la conoscenza dei fatti concatenati e la conoscenza delle forme coordinate?

E si capisce bene la portata di questo problema?

In effetti ricondurre la diversità « degli esseri percepiti » al concatenamento « dei fenomeni integrati » significherebbe esprimere la natura sensibile in funzione di quei simboli astratti di cui dispongono le matematiche; significherebbe ottenere che nello stesso a posteriori tutto sia calcolabile a priori in un certo modo; significherebbe rappresentare con una formula precisa l'ordine di produzione dei fenomeni e le trasformazioni possibili o reali delle specie naturali.

Ma in questo modo come raccordare, nel quadro di un'alleanza comune con le scienze esatte, lo studio delle classificazioni allo studio delle leggi genetiche o meccaniche?

I recenti progressi della nomenclatura chimica e della cristallografia paiono costituire un duplice avvio verso la soluzione di questo problema.

- Infatti da una parte, fondandosi sulla duplice idea dell'analogia e della sostituzione che serve a determinare il tipo chimico, si riesce, per eliminazione progressiva dell'elemento arbitrario introdotto dall'apprezzamento di quei caratteri meramente qualitativi, a mettere in evidenza tutti i tipi ai quali è possibile riconnettere uno stesso composto, e a stabilire quella che si chiama la formula di costituzione.

Grazie a essa è possibile classificare e anche prevedere le reazioni alle quali darà luogo un corpo; è possibile riprodurre questo corpo per mezzo di altri corpi tramite sostituzione; è possibile operare una sintesi.

Il segreto numerico della combinazione sembra diventare così il segreto pratico della produzione.

- D'altra parte la cristallografia arriva a stabilire una relazione determinata tra la disposizione dei sistemi che essa studia e la stessa struttura delle molecole.

E se per definire le analogie chimiche l'isomorfismo è un carattere essenziale, ciò non significa ammettere che tra la natura qualitativa delle combinazioni e la costituzione geometrica degli elementi c'è un rapporto costante da scoprire?

Allora la formula di costituzione e quest'altra formula, non più chimica ma matematica, che esprime la struttura architettonica degli atomi12 nella molecola, possono essere collegate da un sistema di simboli continuativi.

E su questo punto le scienze fisiche si saldano alle scienze naturali, essendo ambedue innestate reciprocamente sul calcolo.

Ma stiamo attenti. Dai termini astratti alle sintesi più complesse è ben possibile che si aprano sempre di più larghe strade al passaggio della Scienza vittoriosa; ma non dobbiamo farci ingannare dal suo stesso successo.

Senza dubbio i simboli costruiti dallo scienziato finiscono per essere così coerenti tra loro, per avere una tale efficacia, per realizzarsi con tale evidenza tra le sue mani, che per lui diventa grande la tentazione di considerare tutto questo simbolismo come l'immagine fedele della realtà, come la realtà stessa.

Lo si proietta al di fuori di sé con la convinzione che le leggi della meccanica razionale, le costruzioni del cristallografo o gli schemi del chimico siano l'espressione di un meccanismo reale al quale conviene attribuire, col pretesto della certezza scientifica, una portata oggettiva e veramente metafisica.

È questo l'errore fondamentale da combattere.

Perché il punto di partenza di ciascuna scienza nasconde un germe la cui natura arbitraria può essere mimetizzata dalla crescita felice, ma non rimossa.

Dappertutto all'origine dei procedimenti scientifici occorre che un artificio mimetizzi il passaggio inspiegato dall'ordine della qualità all'ordine della misura; dappertutto interviene un decreto per stabilire una relazione fittizia che sola permette all'uno di esprimersi in simboli con l'altro.

Ma per il solo fatto che nuove convenzioni raccorderanno scienza a scienza in maniera ogni giorno più completa e più efficace, svanirà forse il carattere arbitrario dell'istituzione originaria? Niente affatto.

Dunque non è di sicuro la convergenza, anch'essa artificiale, di tutte queste finzioni che consentirà alla scienza di esprimere la realtà medesima, e che farà di essa l'ultima parola delle cose.

In tal modo, che si tratti di costruzioni matematiche, di teorie fisiche, di forme cristalline e di ordinamenti molecolari, di combinazioni atomiche o di leggi biologiche, in tutti i casi non potrebbe essere questione che di simboli coerenti, senza che mai si debbano proiettare i simboli stessi in una realtà distinta da essi.

Supporre un'entità intermedia e un meccanismo sussistente tra i dati empirici e il simbolismo scientifico significa addossarsi una difficoltà del tutto gratuita; significa far nascere complicazioni che limitano la fecondità della scienza, inibendole la diversità di teorie utili che possono essere sviluppate insieme dal momento in cui, invece di vedervi una spiegazione delle cose, vi si cerca solo un mezzo per coordinare le leggi sperimentali; significa esporre a illusioni capaci di falsare al tempo stesso lo spirito della scienza e lo spirito della filosofia con una confusione delle competenze.

Senza dubbio le teorie e i calcoli devono sempre rapportarsi a una verifica sperimentale: essendo partiti dal fatto, ritornano al fatto, che rimane l'arbitro.

Ma né le teorie sono omogenee con i dati iniziali, né le conseguenze pratiche dedotte dall'analisi hanno la minima relazione di natura con le teorie che esse servono a controllare.

Il termine intermedio sfugge alla scienza, anche se essa lo deve attraversare.

Per essa dunque tutto si riduce a coordinare i fatti e le leggi che l'esperienza ci fa conoscere, ma che solo l'ausilio delle matematiche ci consente di enunciare con precisione.

Essa non si preoccupa di sapere se le sue finzioni simboliche sono vere in assoluto, e neppure se sono verosimili, purché stabiliscano una relazione per quanto possibile continuativa tra il calcolo e i fatti.

Se c'è bisogno di istituire allo stesso tempo molte convenzioni differenti, essa vi ricorre, alla sola condizione che tra queste ipotesi diversamente utili non si riscontri alcuna incompatibilità formale.

Pertanto non bisogna, sotto il pretesto della scienza, restaurare il falso misticismo della sensibilità, restituendo ai dati dell'intuizione la consistenza che non hanno.

Le scienze sperimentali non esauriscono la conoscenza più semplice, così come neppure le matematiche.

Esse possono benissimo allearsi tra loro; la loro stessa alleanza rimane un problema.

Ciascuna per conto suo da una spiegazione che sembra completa, sembra persino assorbire l'altra spiegazione correlativa, la quale resta distinta da essa.

E ciascuna sussiste veramente solo nella misura in cui diventa una funzione dell'altra.

Ma le due serie sono reali, insieme o in alternativa, non perché si corrispondono.

Pertanto a differenza dei pregiudizi correnti le leggi fisiche o chimiche sono simboli che non hanno sussistenza ne più ne meno delle formule geometriche.

La continuità e la discontinuità non sono dunque le tesi incompatibili di un'antinomia metafisica, ma i termini solidali del simbolismo scientifico.

Il ruolo della scienza sperimentale è di mettere in evidenza la discontinuità nella stessa continuità.

Perché in essa la deduzione matematica resta e resterà sempre subordinata alla conoscenza di ciò che ciascuna sintesi ha di irriducibile agli elementi dell'analisi.

Per esempio supporre, come fa Kékulé,13 che la combinazione degli atomi si operi in forza di loro proprietà specifiche secondo i numeri più semplici, non significa forse riconoscere che l'intuizione di un dato qualitativo deve precedere l'applicazione della meccanica, e che l'intervento delle matematiche, lungi dal sopprimere l'originalità delle specie sensibili, serve a metterla in rilievo?

Perciò l'ambizione delle scienze della natura deve essere, senza attribuire ai loro risultati il valore di una storia reale della natura, quella di trovare proprio in seno alla continuità e al determinismo un metodo nuovo per individualizzare i corpi, considerandoli come specie polizoiche.

Formati dagli stessi elementi, combinati secondo leggi uniformi, i composti costituiscono una nuova forma, del tutto differente dalla somma delle loro parti, e di cui nessuna formula può esprimere la fisionomia.

L'acqua è acqua e nient'altro, non ossigeno né idrogeno.

Siccome la scienza sperimentale parte necessariamente da un datop empirico, essa ritorna quindi necessariamente all'intuizione empirica.

Man mano che si sviluppa, essa riconosce, con una più profonda unità di composizione e con leggi più generali, una distinzione più radicale e più precisa dei composti.

Così ai limiti estremi che l'analisi riesce a raggiungere troviamo sempre la medesima diversità definita tra i dati dell'esperienza.

Nell'analisi spettrale le bande caratteristiche di ciascun elemento hanno la loro disposizione o, per così dire, la loro organizzazione specifica.

E mai un sistema di queste bande spettroscopiche si trasforma, attraverso passaggi insensibili, in un sistema sia pure di poco differente.

Uno stato di equilibrio cambia solo per passare a un altro stato di equilibrio ugualmente preciso.

Il progresso della chimica non consiste certo nel ricondurre tutto a un determinismo omogeneo; al contrario, esso consiste nel poggiare sul determinismo, precisando e definendo l'eterogeneità delle sintesi discontinue.

Questo punto è di tale importanza che vale la pena insistervi un po' di più esaminando i passi compiuti di recente dalle scienze della natura.

Mettendo da parte la temerarietà delle loro nuove pretese, vedremo a quali condizioni sono soggetti i loro progressi e la loro stessa esistenza; e ci prepareremo a scoprirne le irrimediabili lacune.

II - È nel campo della biologia che probabilmente oggi si fa il massimo sforzo per riunire e subordinare lo studio descrittivo degli esseri alla determinazione rigorosa dei fatti concatenati.

L'evoluzionismo ambisce sostituire alla distinzione palese delle forme viventi la continuità di un'evoluzione progressiva.

Essa pretende di scoprire la formula del concerto totale ed elevare l'insieme delle relazioni definite nel tempo e nello spazio in spiegazione reale della natura.

Che c'è di scientifico in questo tentativo?

E che eredità lascerà nello sviluppo generale della scienza sperimentale?

L'evoluzionismo è un'alchimia della natura.

Ecco indicato con una sola parola ciò che esso ha di utile e fecondo, e ciò che ha di transitorio e incompleto.

Vediamo in primo luogo l'utilità che ha.

È quella di supporre un legame continuo sotto la bruta diversità e l'apparente indipendenza degli esseri che coesistono e che si succedono; quella di preparare così il terreno a una nuova estensione del determinismo matematico, e di percepire che anche negli organismi più flessibili si dovrà trovare la legge del numero, mensura et pondero.

L'evoluzionismo congettura che i rapporti viventi formanti l'unità del mondo hanno i loro equivalenti in altri rapporti astratti, che spetta alla deduzione fissare nel suo linguaggio tecnico.

Le azioni cosmiche, fisiche, biologiche, sociali, passando dall'omogeneo all'eterogeneo, risultano da un adattamento all'ambiente universale. In tal modo ogni fatto, così come ogni essere, è un'espressione della continuità, della solidarietà, dell'unità totale, un prodotto della storia comune, una soluzione particolare e transitoria del problema generale del mondo.

E questo problema si complica man mano che le soluzioni successive lo arricchiscono di nuovi dati attraverso la costante ricerca di un equilibrio rotto incessantemente.

È una grande e feconda idea quella di questa solidarietà simpatetica tra tutti gli esseri che si costruiscono in qualche modo gli uni gli altri, così come i membri di un organismo in perenne crescita si corrispondono; ipotesi divinatoria, la quale simbolizza, ma senza rigore scientifico, la formula esatta del concerto composto dall'universo; intuizione di verità, che una scienza più avanzata dovrà precisare e limitare completandole.

Ecco adesso quello che di fatto manca all'evoluzionismo, quello che ne fa un romanzo, più che una scienza della natura.

Come l'alchimista, fondandosi sulle trasmutazioni che vedeva operarsi misteriosamente sotto i suoi occhi, aveva la pretesa di estrarre alla fine l'oro da tutti i corpi che riteneva di indirizzare alla loro perfezione, così l'evoluzionista è persuaso di scoprire l'avviamento degli embrioni elementari della vita verso le forme superiori e verso l'umanità.

Non si deve forse applicare al secondo per analogia ciò che si rimprovera al primo?

Per quale ragione allora l'alchimia merita la qualifica negativa di falsa scienza annessa al suo nome?

Accontentandosi di solito di somiglianze o di verosimiglianze superficiali, essa mischiava alle sue esperienze positive le ipotesi più ardite, senza distinguere la parte dell'immaginazione nella percezione del reale.

Mancando di un metodo atto a eliminare le possibilità di errore e di determinare l'oggetto preciso delle sue ricerche, essa con la sua curiosità perseguiva un fine esterno alla scienza medesima.

E astraendo da tutte le qualità irriducibili dei corpi che l'esperienza diretta gli esibiva, cercava in ogni caso di ridurli tutti a una stessa qualità, con un'inconseguenza inavvertita.

Così l'evoluzionista: egli sembra attestarsi, con tutte le debite differenze, al punto in cui, ignorando le leggi positive della combinazione chimica, si credeva ancora alla trasmutazione degli elementi.

Quando invoca la lotta per l'esistenza o la selezione naturale, quando coglie attraverso le anomalie dell'eredità certe trasformazioni visibili per suffragare una tesi che si affretta a dichiarare scientifica, non significa che ancora una volta gioca la convinzione secondo cui nella scienza sono sufficienti verosimiglianze e approssimazioni descrittive?

Non significa procedere con pressappochismo, senza avere prima la cura di definire e delimitare le affermazioni tramite questo metodo negativo della controprova che, essendo il solo in grado di eliminare le cause di illusione e di imporre conclusioni rigorose, conferisce loro un valore dimostrativo?

Se, in base alla semplice osservazione di apparenze favorevoli, egli ritiene che le specie viventi sono derivate le une dalle altre attraverso trasformazioni insensibili, si comporta se non come l'alchimista che chiama argento vivo il mercurio, almeno come quel chimico che immaginasse tra l'ossido di carbonio e l'acido carbonico una gradualità di stati con tasso di ossigeno più o meno elevato attraverso cui si passerebbe dall'uno all'altro.

Ma dare un giudizio sommario delle modificazioni o delle somiglianze organiche, ipotizzare transizioni impercettibili, sperare che avvicinando all'infinito le tappe della metamorfosi universale si faccia svanire ogni difficoltà e ogni discontinuità, come una domestica che sparpaglia un mucchio di polvere per renderlo invisibile a uno sguardo poco attento, significa abusare delle analogie matematiche e del prestigio dell'immaginazione contro il metodo e l'originalità delle scienze naturali.

Tanto è legittimo e scientifico stabilire la stretta dipendenza di parti che si sostengono a vicenda, e far circolare da un capo all'altro del mondo gli stessi elementi e le stesse leggi di composizione, altrettanto temerario e inconseguente risulta non riconoscere in seno all'omogeneità certa l'eterogeneità altrettanto certa.

Perché anche supponendo che nel laboratorio della natura si vedesse nascere da una specie determinata una nuova specie sotto l'influsso di cause complesse, come in un alambicco in cui sono presenti parecchi corpi si formano combinazioni impreviste, non per questo risulterebbe risolto il problema della trasmissione e della trasformazione dell'organismo.

Se l'alchimista era incoerente eliminando tutte le qualità specifiche dei corpi per ricercare una qualità finale, l'evoluzionista lo è ugualmente quando fa astrazione dalla specie derivata come se questa non avesse la sua irriducibile originalità, polarizzandosi sulla specie originale, sulla cellula primitiva considerata come un dato fisso.

Quello non credeva alla specificità dei metalli, e tuttavia voleva ottenere una specie fissa, l'oro; questo non crede alla specificità degli organismi, e vuole ricondurre tutti gli esseri a uno stesso tipo.

In altri termini, astraendo dalla qualità eterogenea, forza la continuità omogenea per restaurare in definitiva una qualità iniziale o finale, come se ci potesse essere un tipo unico da cui gli altri derivano per composizione, allo stesso modo in cui le quantità nascono dalle unità numeriche.

Dunque bisogna ammettere sempre, fin dal punto di partenza, dal primo germe di vita, un coordinamento infinitesimale delle parti, un sistema specifico, una combinazione del tutto sui generis degli elementi organizzati.

Altrimenti non vi sarebbe né chimica biologica né scienza della vita possibile, perché tutto sarebbe amorfo.

Se una sintesi definita cambia, non può formare che un'altra sintesi definita, come un individuo distinto nasce da un individuo distinto.

Quindi qualunque sia l'origine delle specie viventi, rimane intatta la questione della loro differenza fondamentale: distinzione essenziale da cui dipende il carattere positivo delle scienze della natura.

Il problema dell'origine reale e della costituzione degli esseri è totalmente differente dal problema della discendenza storica e della composizione organica delle forme viventi.

E per non fare della metafisica senza saperlo occorre separare i due problemi, perché la scienza è assolutamente incompetente sul primo.

A quali condizioni le teorie della filogenesi e dell'ontogenesi rivestiranno un carattere propriamente scientifico?

E che resterà dell'evoluzionismo quando, cessando di essere una dottrina e di aspirare a possedere l'ultima parola e il grande segreto delle cose, avrà preso posto nel sistema delle scienze sperimentali, le quali conserveranno e supereranno la verità di questa ipotesi, come di tante altre, dopo averne evitato e condannato l'eccesso?

Se è consentito fare una previsione, resterà senz'altro questo: si saprà scientificamente che dall'ultimo elemento sempre provvisorio cui l'analisi perverrà fino alle sintesi più complesse della vita circolano, per così dire, una stessa linfa e una stessa formula di composizione.

Già la cristallografia studia la struttura architettonica degli atomi nella molecola.

Aspettiamo che essa determini come gli elementi si combinano e si compongono, come si giustappongono cristallizzando secondo leggi meccaniche sulle quali il calcolo avrà presa, e allora anche i composti organici potranno essere definiti rigorosamente in funzione della loro struttura istologica; allora si conoscerà senza dubbio come la connessione degli organi e la correlazione delle forme, la cui armonia negli esseri superiori sembra obbedire più a una legge di finalità estetica che a un ordine geometrico, dipende dalla natura specifica delle combinazioni elementari che si esprime nell'insieme dell'essere vivente; allora si saprà come la sintesi organica è soggetta alle leggi precise di una sorta di cristallizzazione,14 e come persino la varietà delle razze secondo l'ambiente è un caso di polimorfismo.

In tal modo l'unità di composizione nella natura e il concatenamento universale dei fatti, delle forme e degli esseri non sarebbe più un'ipotesi indeterminata o una vaga approssimazione basata su verosimiglianze o generalità.

Sarebbe una formula che la deduzione potrebbe sfruttare, e che confermerebbe fin nel minimo particolare l'antico adagio: Homo de limo terrae.

Ecco in che modo non solo l'astronomia, ma anche la fisica, la chimica, ormai persino la biologia, e forse ben presto anche la sociologia sembrano appese a un problema di meccanica razionale.

Questo risultato ovviamente è chimerico; ma è utile ipotizzare perfetta la scienza, per vedere che neppure in quel caso esisterebbe la coesione scientifica.

Ma come può essere determinata in termini matematici questa continuità reale?

Forse a condizione che tra tutte le forme dell'organizzazione vi siano gradazioni impercettibili e indeterminazione informe, come in una pasta pronta a essere modellata a poco a poco da ogni sorta di influenze indefinibili? Niente affatto.

Perché al contrario il determinismo della continuità matematica nella natura esige che in ciascuna delle tappe, per quanto le supponiamo ravvicinate, in ciascuna delle sintesi particolari, per quanto analoghe siano, vi sia determinazione esatta e organizzazione intrinseca del composto originale.

Quindi nelle scienze sperimentali l'impiego della deduzione continua è subordinata alla discontinuità delle sintesi reali, e la quantità vi è immessa solo per far emergere quello che la qualità ha sempre di proprio e di irriducibile.

Una volta introdotto il numero, il dato sensibile è sostenuto contro le stesse matematiche dalla precisione e dalla rigida fissità delle matematiche.

Così quando nella genesi delle molecole si studia la struttura architettonica degli atomi, a quali condizioni il problema può essere concepito, posto e risolto?

A condizione di avere presente che la diversità delle parti concorrenti forma un ordinamento sistematico.

Ora qualsiasi disposizione, τάζις, qualsiasi unità complessa, qualsiasi forma intelligibile, qualsiasi sistema in quanto sistema organico esiste solo come percezione e qualità.

Lungi dall'essere riducibile integralmente ai suoi elementi, sono al contrario gli elementi che hanno il loro nome e svolgono il loro ruolo solo in funzione del tutto da cui dipendono.

Ciò a più forte ragione quando si tratta non tanto di combinazioni della chimica organica, ma degli organi stessi e della loro coesione.

Se nel corpo vivo le parti elementari sono determinate rigorosamente come nel cristallo, l'insieme non è qualificato da una malleabilità indefinita.

Al contrario è dalla sua qualità totale, dalla sua originalità specifica che procede qualsiasi dettaglio della chimica biologica proprio di ciascun organismo.

La scienza sperimentale è una scienza solo a patto che, determinando con una continuità matematica le leggi precise delle combinazioni e della solidarietà universale, fissi con ciò stesso la distinzione e la qualità propria delle sintesi di cui la primitiva esperienza offre la percezione indeterminata.

Così nello studio della gerarchia delle forme, ormai connesso a quello del concatenamento dei fatti, bisogna evitare un duplice scoglio.

Da una parte a torto si vedono solo rapporti di giustapposizione tra le specie che la natura presenta all'osservazione, come se, realizzando con la loro diversità un piano del tutto ideale, le loro analogie non rivelassero alcuna parentela e alcuna mutua dipendenza.

Dall'altra a torto si crede a una trasformazione indeterminata degli esseri, prestando fede a osservazioni sempre raffazzonate e incompetenti quando concernono i caratteri meramente apparenti delle forme viventi.

Come nelle combinazioni inorganiche vi sono generi e famiglie naturali, nel mondo della vita vi sono sistemi organici che, quale ne sia l'origine e la filiazione, costituiscono casi di equilibrio definito e di sintesi originali.

Senza dubbio gli stessi elementi si possono ritrovare in tutta la serie.

Ma la diversità della loro unione è in un certo senso qualcosa di più reale e di più essenziale della stessa unità della loro composizione: è il fatto refrattario a qualsiasi riduzione, anche dopo che la deduzione ne avrà determinato la generazione infinitesimale, o anche dopo che l'osservazione ne avesse riconosciuto la discendenza storica.

Nessun composto è riducibile ai suoi componenti.

Se pure non può farne a meno, li trascende sempre.

Perciò il rapporto tra la causa e gli effetti non potrebbe essere analitico.

E chi riconosce questa verità non ha più il diritto di ridurre tutto nella natura al determinismo dei fatti.

In sintesi, mai il legame tra gli stati più vicini è percepito per esperienza diretta, anche quando se ne conoscono le condizioni, le relazioni e i nessi.

L'analisi omette necessariamente la x la cui azione presiedeva all'organizzazione interna.

La stessa ricomposizione non rivela all'osservatore l'operazione profonda che si realizza sotto i suoi sensi e all'insaputa dei suoi calcoli.

Dopo che sono resi presenti gli elementi e sono messe insieme le condizioni, tocca alla natura compiere segretamente il resto.

Ogni generazione avviene nell'oscurità.

Potremo senz'altro scoprire tipi intermedi e specie di passaggio: la continuità empirica sarà sempre un'approssimazione, e rappresenterà solo in modo simbolico la continuità matematica, la sola che ha un rigore assoluto.

L'errore dell'evoluzionismo è di credere che tutte le forme della scienza si raccordino da sole tra loro, senza accorgersi che in esse e tra esse c'è un'incoerenza perenne.

Attribuendo il valore di spiegazione universale proprio a ciò che ha bisogno di essere spiegato, esso falsa il suo apporto di verità scientifiche dandogli un'estensione illegittima.

Non è dunque che una costruzione ibrida.

Ma la vera scienza della natura è quella che, sapendo determinare rigorosamente il concatenamento continuo degli esseri discontinui, s'interessa a ciò che ogni sintesi ha di proprio, τόδε τι, senza scambiare relazioni per esseri, e addirittura una successione storica per una spiegazione reale.

Così appare, non più soltanto al primo esame dei sensi ignoranti ma allo sguardo più illuminato dello scienziato, una gerarchia di forme tutte distinte, tutte solidali.

La spiegazione del mondo da parte delle scienze sperimentali, pur fondandosi su una continuità astratta, deve essere e resterà discontinua.

E sull'insieme come sul dettaglio degli oggetti di esperienza si aprono diversi punti di vista, sono ugualmente legittime diverse forme e, per così dire, diversi gradi di spiegazione.

La meccanica, la fisica o la chimica, pur collegandosi tra loro sempre di più, conservano la loro competenza peculiare.

Esse fanno presa su fenomeni che peraltro sfuggono alla loro presa.

Lo studio della sintesi non esonera dal determinare le condizioni elementari, e neppure la conoscenza degli elementi surroga lo studio diretto della stessa sintesi.

È così che l'inerzia del corpo bruto manifesta già un dinamismo interno senza il quale l'urto che ha estratto il mobile dal suo stato di riposo non produrrebbe il suo effetto.

Allo stesso modo il germe vivo opera una vera creazione con i materiali che accumula, e finché c'è vita si ha un fenomeno di sovrapproduzione.

Tra l'impulso delle circostanze esteriori e lo stimolo del proprio organismo, è il proprio organismo che l'animale subisce maggiormente.

Nel sistema nervoso ogni cellula è per così dire un cuore che, ricevendo una corrente, la scarica con un aumento di energia.

La psicofisica rivela la progressione vittoriosa dello sforzo sulla resistenza da vincere, e l'intensità di quelli che chiama i riflessi psichici.

La coscienza emerge dalle funzioni organiche, senza averne coscienza e senza lasciarvisi ridurre.

Nella riflessione appare un potere di inibizione o di impulso che l'esperienza popolare chiama libertà, e che essa crede capace di dominare le energie della natura o di regolare gli istinti della vita animale.

A sua volta l'operazione volontaria procede dal pensiero, dall'organismo, dal mondo senza rapportarsi alla pluralità confusa dei germi sconosciuti di cui essa è il compimento.

Dunque ogni grado ha una caratteristica propria, senza comune misura con nessun altro.

Sintesi del tutto e al tempo stesso novità eminente, esso può essere conosciuto scientificamente solo se è collegato al determinismo universale tramite la continuità della deduzione, e insieme è percepito dall'osservazione diretta nella sua unità sintetica.

Ora è di questo concorso che la scienza sperimentale non rende affatto conto.

Essa non sussiste che ammettendo la congiunzione di due ordini che dal suo punto di vista sono incoerenti.

A essa sfugge, all'inizio, durante e al termine ideale del suo sviluppo, la relazione tra il calcolo e l'intuizione, tra il determinismo intelligibile dei fatti e la discontinuità sensibile dei dati dell'osservazione.

E tuttavia vive di questa stessa relazione.

Ecco dunque, in tutta la loro crudezza, le constatazioni che si ricavano da una visione chiara dei procedimenti scientifici:

- c'è vera scienza dei fenomeni solo se le loro leggi sono determinate dal calcolo;

- c'è vera scienza delle specie solo se la loro costituzione intima può essere definita con una precisione numerica;

- c'è unità reale di queste scienze solo se la continuità matematica entra nel loro impianto e le collega, perché nella loro visuale gli esseri non sono che un sistema di fenomeni integrati.

Ora se è apparso che l'applicazione delle scienze esatte alla realtà non era giustificato da esse, è ugualmente palese che neppure il ricorso necessario delle scienze sperimentali al calcolo è giustificato.

Tra le scienze e al loro interno c'è una frattura che non sparirà mai, qualunque sia il grado di progresso cui sono giunte in ipotesi.

Le matematiche possono benissimo inserirsi nella natura, la fisica può benissimo munirsi del calcolo, come se svolgessero a vicenda il ruolo di contenente e di contenuto: malgrado questa doppia coincidenza e questo mutuo inserimento c'è una incrinatura invisibile nell'unità apparente della spiegazione scientifica.

La scienza non può limitarsi alla scienza.

III.

Come dunque operare di fatto l'avvicinamento di questi tronconi separati?

E dato che esiste, da dove la scienza ricava, con la coesione che non possiede e senza la quale tuttavia non sussiste, la vita e l'efficacia che ha?

Raccogliamo con uno sguardo i risultati delle analisi precedenti: si intravede il postulato finale, il punto preciso nel quale si opera il raccordo da cui dipende qualsiasi certezza positiva, nell'insieme come nel minimo particolare della conoscenza.

In effetti da una parte l'analisi matematica non raggiunge mai la realtà sensibile al termine delle sue astrazioni.

Dall'altra l'osservazione diretta può benissimo sforzarsi di rendere scientifico il concreto, il particolare, la qualità, inserendo sotto l'intuizione dei sensi un mondo di determinazioni quantitative; ma lungi dal far svanire il fenomeno qualitativo nello spazio di una formula astratta, ne fa emergere l'irriducibile originalità.

Né l'esperienza può offrirci il mero astratto, né il calcolo il vero concreto.

Perché il calcolo è fondato esattamente sul fatto che l'analisi reale procede all'infinito, e la sperimentazione sul fatto che le costruzioni matematiche non producono la sintesi reale.

Senza dubbio per una sottile illusione ci si persuade che, siccome le scienze esatte partendo dall'astratto mettono capo ad applicazioni pratiche, siccome le scienze sperimentali fondandosi sull'intuizione sensibile riescono a scoprirvi determinazioni numeriche, vi sia coincidenza e saldatura tra questi due metodi, inversamente simmetrici, del calcolo e dell'esperienza.

Ma non è così; perché il senso dell'unità, dell'analisi o della sintesi non è affatto identico nell'uno e nell'altro.

Nei suoi calcoli la scienza sperimentale non perviene mai al calcolo, perché essa ha come unità non il principio astratto dell'analisi ideale, ma un elemento concreto.

Ma c'è di più. Non esiste una verità scientifica di un ordine qualsiasi in cui non si riscontri questa dualità.

Perché qualsiasi costruzione matematica suppone, per così dire, un'esperienza immaginaria della sintesi in quanto sintesi, e qualsiasi osservazione distinta richiede un lavoro di astrazione che determini, nella massa confusa dell'intuizione, una unità e delle relazioni numeriche cui la qualità sensibile rimane irriducibile.

Ora definire la difficoltà in questo modo significa dire che è risolta di fatto; e tuttavia, lungi dal vedere in questo successo effettivo una soluzione, bisogna scorgervi un problema.

I - La difficoltà è risolta di fatto.

Tutte le antinomie che si è voluto scoprire nel campo della speculazione risiedono nella stessa scienza.

Considerando le cose a fondo, esse non riguardano l'essere, e in gioco non è l'ontologia.

Col pretesto di combattere l'illusione metafisica, Kant ha subito a sua volta, per la forza dell'abitudine, l'illusione metafisica, quando ha trasposto il problema.

Continuità e discontinuità, determinismo e contingenza, analisi e sintesi, deduzione e produzione di effetti distinti dalle loro condizioni: sono senz'altro questi i termini del conflitto, e il conflitto insorge nel cuore delle conoscenze positive.15

È dunque la scienza ad essere compromessa.

Ma nessuno se ne allarma, nessuno se ne accorge.

Perché? Perché il problema è deciso prima ancora che si senta il bisogno di formularlo.

Esso è risolto a livello pratico, ossia l'azione da cui procedono le scienze non si esaurisce in esse, ma mentre le sorregge, le eccede e le trascende, mentre consente la loro crescita e il loro successo, dimostra che in essa c'è più di quanto le scienze conoscano e attingano.

Ecco perché tutte le sottigliezze di Zenone non impediscono ad Achille di raggiungere la tartaruga.

Tutte le incoerenze della scienza non impediscono allo scienziato di dominare i fenomeni e di realizzare le concezioni e i calcoli astratti della mente, grazie all'industriosa attività di quest'uomo che recenti classificazioni gratificano del nome di Homo industriosus.

Egli è mago a suo modo, tanto da far entrare la sua opera specifica nell'opera universale.

Il nostro potere va sempre più in là della nostra scienza.

Quest'ultima, scaturita dal nostro potere, ha ancora bisogno di esso per trovarvi il suo appoggio e la sua meta.

Al punto d'arrivo c'è di più, perché fin dall'origine c'era di più.

È quindi impossibile che la scienza si limiti a quello che sa, perché essa è già di più di quello che sa.

In forza della volontà che la pone e l'alimenta c'è in essa quello che si vorrebbe escludere al di qua o al di là di essa.

Pertanto in quel qualcosa che avevamo ammesso al principio, con la speranza che la conoscenza positiva lo esaurisse, sussiste un elemento irriducibile, il quale dalla visuale di queste scienze positive rimane trascendente, senza però cessare di essere immanente a esse.

Vogliamo vedere la presenza e una sorta di sigillo di questa azione mediatrice in qualsiasi conoscenza?

Ricordiamo come all'inizio dell'analisi matematica è stato necessario un fatto, un'esperienza semplice finché si vuole, la sola successione di due stati di coscienza, il dato puro e semplice di una sintesi effettiva: azione generatrice, la quale mentre all'ingresso della scienza è necessaria, al suo esito consente il successo finale.

Cerchiamo di vedere anche come dalla combinazione dei numeri si possono far sorgere le leggi dell'aritmetica musicale o delle proporzioni chimiche, senza mutuare nulla dall'esperienza, o come dall'algebra superiore l'ingegnere può ricavare del tutto a priori la conoscenza dei materiali resistenti, senza l'iniziativa combinata del pensiero e dell'osservazione.

Ovunque intravediamo la necessità di un'azione che fornisca a ognuna delle scienze quello che le manca dell'altra; intervento indispensabile affinché ciascuna guadagni il proprio punto di partenza, e affinché ciascuna, legittimandosi col successo pratico, si attesti sul proprio punto d'arrivo.

Ciò significa che qualsiasi disciplina scientifica per sussistere esige il postulato dell'azione, e che l'azione stessa deve diventare oggetto di una scienza vera e propria, se la volontà rimane coerente al movimento iniziale del sapere. L'azione risolve l'antinomia delle scienze positive soltanto ponendo un nuovo problema di un altro ordine.

II - La scienza è un risultato: dunque bisogna rendere conto di questo risultato.

Invano tenteremmo di accontentarci di quel risultato, di chiuderci in esso munendoci contro qualsiasi desiderio, qualsiasi curiosità e qualsiasi fede superiore.

Poiché nella scienza è già incluso quello che ne vorremmo escludere, poiché non possiamo farne a meno, ne limitarci a essa, bisogna andare oltre, indagando su ciò che nella scienza è ulteriore alla scienza stessa.

Questo fatto non è spiegato, e non lo sarà mai agli occhi dello scienziato.

Ma è un fatto certo e positivo che lo scienziato non può fare a meno di ammettere e di volere implicitamente dal momento in cui ammette la scienza.

Senza dubbio egli talvolta è convinto che nonostante questa insufficienza di fondo le conoscenze positive provvedono quanto basta ai bisogni della vita individuale o sociale.

Ma se lo afferma, lo fa in nome di una credenza arbitraria, per un decreto che non ha affatto la sua motivazione e la sua giustificazione nella scienza.

Egli non ha fatto niente per risolvere il vero problema, ma lo suppone risolto nel momento stesso in cui ricade sotto la legge comune della coscienza ingenua.

Forse che conoscendo le funzioni abeliane16 o le branchie dei gasteropodi abbiamo guadagnato una maggiore chiarezza sulla vita?

Se dunque si cerca sinceramente una luce nella scienza, non ci si può fermare alle scienze positive, perché in esse il punto vitale rimane oscuro.

Al contrario bisogna interessarsi a questa x che compendia nella sua indeterminazione tutto quello che rimane da sapere, facendone oggetto di una nuova scienza ugualmente positiva, anche se in maniera diversa.

L'indeterminato, come osserva Aristotele, è la categoria dell'azione.

Non si tratta di penetrare nel campo contestato della speculazione metafisica con un balzo temerario.

Al contrario, tutto il nostro sforzo deve essere di attenerci al fatto, di determinare con precisione l'ignoto, e di scoprirne la caratteristica scientifica.

Sarà questo l'oggetto del capitolo seguente.

Dalle analisi pregresse risultano conseguenze rilevanti.

1. Le scienze positive derivano, in tutta la loro estensione, dall'associazione costante di due ordini irriducibili.

2. Proprio a motivo di questa incoerenza e di questa solidarietà esse costituiscono semplicemente un simbolismo, arbitrario nel suo principio, ininterrotto e collegato nel suo sviluppo continuo, verificato in base alle sue applicazioni.

3. Ma né le teorie hanno un rapporto essenziale con le conseguenze sperimentali nelle quali sembrano sfociare, ne i dati dell'esperienza hanno un rapporto essenziale con i calcoli che sembrano realizzarsi in essi.

Anzi, sia le une sia gli altri, senza avere una relazione di natura tra loro, non hanno alcuna relazione di natura con un terzo termine qualsiasi.

Nella scienza nessuna realtà intermedia deve inserirsi tra le due serie funzionali dei suoi simboli.

Ciascuna serie trova nell'altra la sua materia e la sua apparente realtà.

Ciascuna serie, per quanto irriducibile all'altra, deve usare l'altra per i suoi simboli.

Insomma c'è dunque un doppio simbolismo reciproco, che conferisce alle conoscenze positive la loro solidità relativa.

Esse sono tanto più vere, quanto con maggiore facilità, con maggiore precisione e con maggiore coerenza si adeguano l'una all'altra.

Ma in sé le une non sono più vere delle altre.

4. Da ciò deriva che le scienze non devono preoccuparsi di spiegare il fondo delle cose.

Esse devono unicamente costituire un sistema di relazioni coerenti, partendo da differenti convenzioni e nella misura in cui ciascuna delle loro differenti ipotesi è controllata di fatto.

Come vi sono parecchi modi di dimostrare e di esprimere una verità conosciuta, vi sono parecchi modi di raggiungere una verità sconosciuta, e diversi modi di conoscerla.

Pertanto la varietà, la fecondità e, per così dire, la libertà della scienza è illimitata.

5. Cadono così gli intralci che assoggettavano le scienze alla necessità illusoria di rappresentare fedelmente e di costruire pezzo per pezzo un mondo oggettivo; un mondo da poter offrire come la realtà stessa allo spirito affascinato dalla certezza e dalla precisione dei loro risultati; un mondo quale meccanismo stupendo, di cui non si sapeva dire se era opera dei sensi o della ragione, della fisica o della metafisica.

Così, invece di cercare di realizzare gli schemi della cristallografia o le costruzioni della metageometria, bisogna evitare di attribuire una verità sostanziale persino allo spazio della geometria euclidea o alle ipotesi atomistiche del chimico.

6. Cadono ugualmente le antiche catene che sembravano legare strettamente la scienza e la filosofia.

Ogni costruzione speculativa che assume come materiali i simboli scientifici e le verità positive è deleteria.

Alla scienza appartiene la nozione delle sequenze invariabili e della causalità incondizionata.

Ma dalla necessità delle verità da essa stabilite non si deve indurre alcuna necessità di natura, perché in essa non vi è natura, vi sono solo rapporti; e il carattere arbitrario delle definizioni e delle convenzioni iniziali limita la necessità delle relazioni scientifiche a queste stesse relazioni.

7. Ma ciò significa forse che le scienze vedono la rottura di tutti i loro rapporti con la filosofia, e che esse non fanno parte integrante del problema umano? Niente affatto.

Questi legami, che bisogna spezzare dal punto di vista della conoscenza, vengono riannodati dal punto di vista dell'azione.

Le ipotesi, i simboli, le spiegazioni potranno cambiare, e di sicuro cambieranno.

Quello che resterà è il procedimento dello spirito nella costruzione e nel mutuo adattamento di queste teorie, è il senso stesso delle indagini scientifiche.

La conoscenza positiva non si esaurisce nella propria opera; e ciò che la fa essere non si restringe a ciò che essa fa e sa.

Non si può credere che le scienze non abbiano una portata reale.

E in effetti esse ne hanno una, ma diversamente da come si pensa e al contrario di quanto si immagina comunemente.

Perché la parte arbitraria e il marchio soggettivo dell'intervento umano risiede in ciò che è determinato scientificamente e, per così dire, oggettivamente.

E quel tanto di realtà che esse hanno va ricercato in ciò che le determina, non in ciò che esse determinano.

8. Così diventa palese il vizio della concezione positivistica o evoluzionistica: « Il soggetto, si dice, non è oggetto di scienza per se stesso; esso è conosciuto mediante gli altri metodi scientifici, in funzione dei fatti positivi; è un epifenomeno interamente riducibile alla facciata esterna, un rovescio ».

Errore indubbio: la conoscenza soggettiva ha un oggetto proprio, perché la sua ragion d'essere è precisamente quella di essere ciò che non sono le altre scienze e senza cui le altre scienze non esisterebbero.

9. Inoltre, in questo modo, viene risolto, da un punto di vista positivo, uno dei problemi essenziali che la Filosofia Critica aveva lasciato aperto su un altro terreno.17

Perché in effetti, invece di prendere come punto di partenza le intuizioni immediate della sensibilità, non approfittare del fortunato sforzo fatto dalla scienza per chiarire questo primo dato della vita?

L'utilità delle analisi pregresse è di dare un contributo per lo studio critico delle nostre conoscenze, facendovi entrare tutta l'opera della scienza; è di mostrare, con la sola considerazione dei procedimenti e dei risultati
della scienza, che tutta questa porzione della nostra ricchezza intellettuale e della nostra efficacia pratica non concerne che le relazioni dei fenomeni.

10. Con ciò stesso l'antico problema circa l'originalità o l'innatismo del nostro pensiero viene ridotto ai suoi termini positivi.

Ciò che i sensi o le scienze attingono relativamente al loro oggetto, anziché spiegare il resto, non può sussistere che in funzione del resto.

Se è stato utile insistere sull'incoerenza dei metodi e delle verità più incontrovertibili, ciò è avvenuto per far emergere al tempo stesso la certezza di ciò che ne rinsalda la solidarietà.

In tal modo risultano stabilite in una sola volta due conclusioni che in apparenza sono contrarie, ma in realtà sono correlative: le scienze non gettano alcuna luce sul fondo delle cose; le scienze esigono la mediazione di un atto che è irriducibile a esse.

Esse non si risolvono nel loro oggetto, e non riconducono mai la conoscenza al conosciuto.

11. Non è necessario aver penetrato tutto questo complicato meccanismo per essere immune dal fascino delle scienze positive.

Al contrario, subire questo fascino significa dimostrare in base all'effetto che la volontà è incoerente verso le sue proprie esigenze, perché si arresta a una meta prematura, e che si affida a chi non è alla sua altezza.

12. Il risultato finale di questa ricerca è dunque quello di mettere in luce ciò che giustifica l'ignorante e lo autorizza a risolvere il problema del proprio destino senza tutto questo lusso di conoscenze.

La scienza della vita rimane accessibile a chi non ne ha altra.

Si voleva ridurre l'uomo e i suoi atti ai soli fenomeni definiti dalla conoscenza positiva, ovvero, ma è la stessa cosa sotto una forma differente, si riteneva che il fenomeno positivo potesse sussistere senza l'uomo e la sua azione.

Ed ecco che questa pretesa è insostenibile.

Essa è contraddittoria, perché escludere quello che rende le scienze possibili e valide significa rinnegarle nel momento stesso in cui le ammettiamo e le sfruttiamo.

Per il fatto stesso di porle, si esige qualche altra cosa al di fuori di esse.

Si riconosce che la soluzione completa dell'enigma non sta in esse, ma esse stesse sono enigmatiche.

Così cade, con la superstizione della Scienza, l'indegna presunzione di colui che, abusando presso i semplici del prestigio di una parola magica, si erge a loro guida, come se sul segreto della vita lo scienziato la sapesse più lunga dell'ultima delle persone umili.

Per quanto facciamo, non vivremo mai con le sole idee scientifiche; e nonostante i tanti progressi recenti, per questa via non abbiamo fatto, e non faremo, un solo passo verso il fondo ultimo degli esseri e delle loro operazioni.

Bisogna ribadirlo a tutta forza.

E affermarlo non è opinione personale o finzione speculativa, ma è verità acquisita, κτήμα είςάεί18.

Le scienze hanno davanti una carriera immensa e ristretta.

E proprio in quello che sanno, senza ricorrere ad alcuna critica metafisica, si scopre la certezza di quello che non potranno mai sapere.

Esse cresceranno indefinitamente senza intaccare minimamente il mistero che custodiscono nel loro cuore.

È passato il tempo in cui poteva sembrare che le matematiche, la fisica o la biologia avessero una portata propriamente filosofica.

Indubbiamente una certa confusione delle competenze è stata utile per accostare i frammenti della scienza e per fecondarli reciprocamente.

Ma è un fatto: la divisione è compiuta per sempre, si è chiusa un'epoca del pensiero.

Ed è esattamente dal giorno in cui l'unione efficace delle scienze rivela la loro solidarietà e la loro forza che è possibile valutare la loro debolezza e le loro lacune.

Si apre loro un campo illimitato, ma un ambito infinito sfugge loro.

Queste due verità sono legate.

Perché col suo stesso successo l'azione da cui esse procedono prova ancora meglio che le trascende, e che non può attendere da esse un solo lume in più.

Non si potrebbe rendere al pensiero un servizio più grande che sottolineando in tal modo questa potenza senza confini in questa debolezza senza rimedio.

Invano dunque si spera di risolvere il problema della vita da un punto di vista positivistico.

Farlo sarebbe questione di incompetenza e di incoerenza.

Le scienze positive non sono che l'espressione parziale e subalterna di un'attività che le abbraccia, le sostiene e le trascende.

Una sola via d'uscita rimane: seguire il movimento da cui esse procedono, cercandone per così dire l'equazione, per vedere se in ciò che le trascende e le fonda c'è la materia di una scienza autentica, di una scienza che forse alla fine sarà autosufficiente.

* * *

A che cosa mira il capitolo seguente?

A mostrare che lo studio soggettivo dell'azione comporta un rigore scientifico e prolunga necessariamente le scienze positive, raccordandosi a esse e andando oltre.

Suo scopo quindi è stabilire il nesso che, a partire dalla conoscenza matematica o sperimentale, preserva la continuità scientifica fino ai fatti di coscienza; ma anche definire il carattere proprio di questi fatti soggettivi, e istituire su questo fondamento una scienza della coscienza.

- A tal fine comincio stabilendo la dipendenza e la solidarietà tra i fenomeni soggettivi e quelli di cui si occupano le scienze positive, di modo che il movimento dell'indagine non è interrotto.

- Poi indico come i fatti interni, anziché essere un epifenomeno o una traduzione meramente equivalente e addirittura inadeguata dei fatti esterni che li accompagnano, contengono, insieme al compendio di tutte le loro condizioni antecedenti, un'originalità e un'efficacia propria.

- Infine faccio leva sulla trascendenza relativa di questi fatti, a un tempo scientificamente determinati e indipendenti, per giustificare lo studio soggettivo dell'azione e per definire le condizioni di una scienza della coscienza, - di una scienza che, raccordata con le altre, inaugurerà tuttavia un ordine di ricerche del tutto inedito, quelle che di solito si designano col nome intempestivo di « scienze morali ».

Il prossimo capitolo dunque ci conduce dalla scienza positiva dell'oggetto alla scienza del soggetto, positiva altrimenti ma allo stesso titolo.

Indice

2 Sintetizzo qui l'indagine che si svolgerà in questo lungo capitolo, perché, dato il carattere tecnico che essa assume per forza di cose, a qualcuno potrà sfuggirne il senso. E siccome tale indagine è indispensabile per istituire la continuità dell'intento teoretico, vale la pena presentarla in una formulazione che sia più o meno equivalente.
Ecco dunque che cosa intende stabilire questa indagine. Ci si può attenere a quel qualcosa di cui l'intuizione sensibile ci offre la rivelazione immediata;
ed è necessario ricercare dietro queste apparenze il segreto stesso della loro apparizione.
- Ora qualcuno ha avanzato la pretesa, e oggi più che mai la si avanza, secondo cui la scienza positiva è in grado di chiarire questo mistero e di eliminarlo:
l'elemento qualificato come soggettivo può subire una riduzione senza residui; esso precederebbe la conoscenza scientifica, ma non sopravviverebbe a essa.
- lo, al contrario, dimostro che in questo dato primordiale bisogna distinguere tré parti:
1) ciò che viene determinato dalle scienze esatte o a priori;
2) ciò che è descritto dalle scienze dell'osservazione;
3) un elemento indeterminato, che sarà oggetto di una scienza nuova, precisamente una scienza soggettiva o filosofica.
Pertanto l'elemento soggettivo che sussiste prima, si ritrova, chiarito e delimitato, dopo le scienze positive.
Infatti, indicando ciò che le matematiche suppongono per costituirsi, senza spiegare o dominare questo postulato indispensabile, metto in evidenza gli argini del fossato che esse superano.
Allo stesso modo indico quello che le scienze sperimentali esigono per sussistere, e disegno altresì i confini del loro territorio.
In tal modo, attraverso questo duplice approccio, giungo a definire in termini negativi il campo di ciò che rimane da conoscere nel qualche cosa primordiale.
- Ma c'è di più. Infatti dimostro che quel campo di cui le scienze non affrontano lo studio costituisce il punto su cui convergono e diventano alleate nell'insieme del loro lavoro ( in effetti esse non sussistono che grazie a prestiti reciproci ).
- Più ancora, faccio vedere che proprio in questo dominio fuori del loro controllo ciascuna di esse attinge la propria ispirazione e trova la propria coerenza intima.
Quindi, anziché ridurre o abolire l'elemento soggettivo, esse sono subordinate e sospese a tale elemento. Pertanto non sarebbe neppure sufficiente riconoscere che alle scienze positive è presente un tale elemento, senza precisarne il ruolo; perché in tal modo non si farebbe altro che indebolire o restringere il loro valore, senza riservare allo spirito l'accesso a una conoscenza altra, l'autentica scienza soggettiva, la quale è scienza dell'azione; vedremo come e perché [nda]
3 Questa ambiguità necessaria è segnata dal duplice senso dell'unità.
Da una parte l'unità è divisibile, ma non risolvibile.
Infatti ( come osserva Leibniz, Werke, ed. Gerhardt, III, 583 ) le frazioni, che sono le parti dell'unità, hanno nozioni meno semplici, perché i numeri interi ( meno semplici dell'unità ) entrano sempre nella nozione delle frazioni.
Dall'altra non sempre le parti sono più semplici del tutto, sebbene siano sempre minori del tutto.
Il tutto è risolubile, ma non divisibile.
E tuttavia queste due funzioni dell'unità sono sempre solidali di fatto [nda]
4 Indubbiamente si può obiettare: " i risultati del calcolo non hanno altro significato che quello che possono avere, senza addossare alle matematiche aporie metafisiche o preoccupazioni utilitaristiche; solo l'esperienza, a quanto sembra, può permettere di dare un'interpretazione pratica delle formule astratte ".
Tuttavia, se non bisogna subordinare il calcolo a considerazioni estranee al calcolo stesso, sarebbe un errore analogo ritenerlo totalmente indipendente e autonomo. L'obiettivo di questa analisi è esattamente quello di mostrare che, nonostante il loro carattere ideale e astratto, le scienze esatte hanno ragion d'essere e possibilità di esistenza solo se, fin dall'inizio, tendono implicitamente a diventare quello che sono sempre più, ossia un surrogato della conoscenza sperimentale e un ausilio dell'attività pratica.
Quindi la loro applicazione non è un impiego accessorio o derivato, ma e un'estensione congruente con la loro natura originaria e la loro destinazione autentica.
L'uso reale al quale si prestano non è estrinseco, ma è intrinseco alla loro stessa costituzione. Se scopriremo questo potere segreto che le compenetra fin dalla loro genesi, vedremo sempre meglio come tutto il loro progresso non fa altro che manifestare, attraverso il concatenamento delle necessità intellettuali, il movimento più profondo della volontà.
Infatti proprio perché le scienze hanno come fine un interesse pratico e un'operazione efficace, esse sorgono dal fondo stesso della nostra attività e si organizzano spontaneamente sotto il governo della medesima legge intcriore che presiede a tutta la nostra vita.
Per cui le stesse matematiche appariranno come una forma dello sviluppo del volere, e rientreranno nella serie dei mezzi che noi adoperiamo per risolvere il problema dell'azione; diventeranno, a livello della conoscenza consapevole che avremo dei nostri atti, quello che sono a livello della realtà vivente delle nostre operazioni, ossia un elemento della soluzione [nda]
5 Si tratta di Hermann von Helmholtz (1821-1894), scienziato e filosofo tedesco, celebre per le ricerche nel campo dell'ottica e dell'acustica; egli ha dato una delle prime formulazioni del primo principio della termodinamica ( principio della conservazione dell'energia ).
Esponente del neokantismo, ha sostenuto il carattere a posteriori dello spazio.
6 Nel mondo non soltanto non avviene nulla che sia assolutamente irregolare, ma non si potrebbe neppure immaginare nulla di questo genere.
Infatti, supponiamo, per fare un esempio, che qualcuno faccia a caso una certa quantità di punti sul foglio, come fanno quelli che praticano l'arte ridicola della geomanzia, io dico che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme secondo una certa regola, di modo che questa linea passi per tutti quei punti, e nello stesso ordine in cui la mano li aveva segnati.
E se qualcuno tracciasse di seguito una linea che sia ora retta, ora curva, ora di altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune a tutti i punti di questa linea in virtù della quale devono avvenire queste stesse modifiche " ( Leibniz, Werke, ed. Gerhardt, IV, 431; cfr. VI, 262, 629; IV, 569 ).
- Alcuni dei matematici contemporanei hanno sviluppato e applicato queste idee. La teoria delle rotture di Riemann, sviluppata dai lavori di M. Hermite sulle integrali definite, consente di dare la formula non soltanto di uno sviluppo continuo, ma di una serie di linee che, essendo arbitrarie quanto si vuole in rapporto a delle coordinate, assumono quella tale posizione e inaugurano il processo che si vorrà.
Al limite, il necessario e il contingente coincidono, pur rimanendo ciascuno quello che è; o meglio le scienze esatte non hanno alcuna ragione per discernere l'uno dall'altro.
È per questo che esse sono radicalmente incompetenti sul problema della libertà.
Quindi quella che viene chiamata la necessità delle deduzioni matematiche non ha alcuna analogia, alcun rapporto di qualsiasi genere, con quello che si potrebbe dire del determinismo intrinseco degli atti [nda]
7 Il termine greco significa " illimitato ", " senza orizzonte ", e appartiene al linguaggio filosofico già a partire da Democrito.
Il concetto del " senza limite " viene impiegato poi soprattutto da Fiatone e da Aristotele; di quest'ultimo cfr. la trattazione del limite in Metafisica A, 17, 1022a.
8 Un semplice esempio metterà in luce questa utile incocrenza dei procedimenti scientifici. Mettiamo che si debba trovare l'espressione dell'intensità del suono.
Per analizzare il fenomeno oggetto del nostro studio, per definire la stessa intensità del suono e rappresentarla come la somma delle semi-forze vive delle molecole d'aria di un'intera onda vibratoria, supponiamo la materia discontinua e formata da punti separati.
Ora rimanendo fedeli a questa concezione sulla costituzione molecolare dell'aria, che sola ci permette di determinare precisamente l'oggetto proprio del calcolo e persino di enunciarlo, dovremmo conoscere, per ottenere la somma delle semiforze vive, il numero delle molecole, la loro massa e la velocità di ciascuna di esse nel momento considerato; ma è impossibile.
Allora diventa necessario operare un voltafaccia, per ottenere la sintesi e misurare questa intensità del suono: abbandonare l'ipotesi di lavoro fatta all'inizio per applicare al fenomeno i procedimenti matematici e ragionare come se la materia fosse continua [nda]
9 Dire che l'osservazione non è sufficiente e che l'esperienza implica un postulato non significa parlare ne di un a priori ne di un innatismo.
Il problema è di ordine completamente diverso; infatti si tratta non dell'origine, ma dell'originalità della nostra conoscenza.
Al contrario, significa semplicemente dire che, come era stato indicato nel capitolo precedente, per osservare già bisogna vedere e sentire diversamente da come si sente a livello immediato.
Del resto prima di giungere alla precisione numerica bisogna fare un difficile lavoro per ottenere la precisione qualitativa.
Cfr. il Fuebo di Platone, in cui si descrive l'invenzione delle lettere e delle note musicali [nda].
10 Questo disagio che si avverte nell'analisi di certi procedimenti scientifici deriva dall'accostamento di due ordini che, pur essendo uniti, rimangono separati.
Così, per esempio, per studiare la pressione idrostatica, si definisce una quantità chiamata pressione in un punto; ma appena mutuata questa espressione dall'ideale astratto delle matematiche, ci si vede obbligati a ritornare al concreto, affrettandosi a dire che la pressione p in un punto A rappresenterà la pressione sull'unità di superficie intorno al punto, la quale invero è minore di qualsiasi grandezza concepibile.
Quindi questa unità sfuggente deve fare riferimento al concreto, per avere un senso e un impiego in fisica, e all'astratto, perché sia possibile l'applicazione della deduzione matematica.
Sembra insomma che non si tratti ne del punto geometrico, che è troppo piccolo, ne del punto fisico, che è troppo grande [nda].
11 Va da sé che le parole essere e realtà di cui si fa uso in questa sede non hanno alcun valore metafisico. A questo punto esse designano unicamente un sistema di fenomeni dati [nda].
12 Qui ricompare l'ambiguità che si era rilevata già nell'uso della parola unità.
L'atomo sembra che talvolta venga considerato come un elemento quantitativo, talvolta come un elemento qualitativo; in un caso indivisibile e tuttavia composto, nell'altro divisibile e tuttavia irriducibile [nda].
13 Si tratta di Friedrich August Kékulé von Stradonitz (1829-1896), chimico, allievo di J. von Liebing, considerato il fondatore della moderna strutturistica dei composti organici.
Egli risolse il problema, al centro del dibattito tra i chimici di allora, circa la struttura molecolare del benzene; tale struttura è alla base delle teorie isomeriche, che hanno influito sul successivo sviluppo della chimica organica.
14 In effetti bisogna distinguere tra la costituzione degli elementi organici e la composizione ovvero l'organizzazione degli organi.
Operare la sintesi dell'acido gallico non significa fare una noce di galla. È chiara la difficoltà di definire con esattezza la legge di questa combinazione? [nda].
15 Kant fa dipendere la metafisica dalla possibilità di giudizi sintetici a priori.
In altri termini, si tratta dell'accordo possibile tra l'a priori delle sintesi analitiche e l'a posteriori delle analisi sintetiche.
Ora il conflitto e la riconciliazione tra i due ordini avviene all'interno delle scienze, senza che si debbano considerare i fenomeni altro dai fenomeni stessi, o si debba supporre nient'altro accanto o al di sopra di essi.
E da questo antagonismo pacificato emerge una sola cosa: che le scienze cosiddette positive non possono conoscere interamente il fenomeno [nda].
16 Funzioni vigenti nella struttura algebrica abeliana, la quale nomina un insieme in cui per ogni eoppia di elementi e per tutte le operazioni in esso definite vale la proprietà commutativa.
A Nieis Henrik Abel (1802-1829), un matematico norvegese che ha dimostrato l'esistenza di un'intera classe di equazioni risolvibili algebricamente (equazioni abeliane), si devono i primi sviluppi delle funzioni ellittiche e appunto delle funzioni abeliane, di cui si parla in questo contesto.
17 Non è agevole questo riferimento problematico alla filosofia kantiana.
Molto verosimilmente il problema cui si allude è un problema soggiacente all'estetica trascendentale; in tale contesto l'" intuizione immediata della sensibilità ", che non è l'" intuizione pura " di Kant ma il " fenomeno " ossia il " dato sensibile ", non ha la sua spiegazione nell'ordine fenomenico stesso, ed è pertanto assunto in maniera aproblematica.
Bisogna allora fare leva sull'incoerenza emergente dalla pratica della scienza per fare luce su quel problema e per risolverlo portando a consapevolezza il " fondo " delle cose, diciamo pure il " noumeno " dei fenomeni, che, da quanto è stato già anticipato e da quanto emergerà nel prosieguo del discorso, va individuato nell'area soggettiva dell'azione.
Peraltro bisognerebbe aggiungere che in Kant, e nell'estetica trascendentale, la questione non era posta in maniera cosi aproblematica come si lascia credere qui, e che proprio il ricorso ali''intuizione pura mirava analogamente a individuare un'area " soggettiva " in cui raccogliere le condizioni di possibilità sia della conoscenza sensibile ovvero " estetica ", sia della teoresi delle scienze.
18 L'espressione idiomatica greca, che appartiene al linguaggio giuridico, significa " possesso perpetuo ", e intende denotare l'incontrovertibilità della conclusione raggiunta nell'argomentazione, sulla quale poggia il prosieguo del discorso.