L'azione

Indice

La determinazione della libertà e la produzione dell'azione

Capitolo III

Per avere coscienza del determinismo è sembrato che occorra essere liberi.

Perché il sentimento di qualsiasi stato definito suppone e costituisce uno stato superiore.

Ma per avere coscienza della libertà non occorre ricadere sotto una nuova necessità?

La conoscenza che ne acquisiamo non contribuisce a neutralizzare questa stessa libertà?

Essa non è esposta al pericolo dell'arbitrio, alla vertigine dell'immobilità indifferente o alla tirannia di un nuovo determinismo?

Sembra che essa sia chiamata a essere il tutto dell'azione; e tuttavia da sola sembra che non sia ancora nulla.

È dunque possibile che entri in esercizio?

Se è possibile, inaugura forse nell'uomo un'altra forma di necessità?

E dal momento in cui emerge dalle sue oscure condizioni come una facoltà superiore a ogni altra, di fatto non sarà sempre la più forte, necessariamente sovrana e determinante? - No.

Prodotta fatalmente, essa si conserva solo liberamente. Bisogna mostrarlo.

I.

Ecco in che consiste l'aporia.

Da una parte abbiamo coscienza di un potere interiore che solo conferisce alle nostre decisioni, quali che siano, la loro vera ragione.

Dall'altra questo potere non è definito, e sembra essere unicamente un'indifferenza assoluta, una forza cieca e arbitraria, e per così dire una non-ragione.

Come dunque intravedervi un principio di discernimento e di scelta?

I - Il dinamismo mentale suscita immagini e idee contrastanti.

È dunque impossibile che in rapporto alla coscienza riflessa un motivo, qualunque esso sia, appaia unico e totale.

È esattamente questa la condizione del nostro affrancamento.

La stessa libertà non è, o non lo è più di ogni altro, un motivo a parte o del tutto formale.

Essa si incarna necessariamente nei motivi particolari.

E quando se ne distingue non li elimina.

Se si dà un bene universale, esso si presenta a noi solo in una figura singolare, portio.

E se dobbiamo vivere sub specie totius, tutto il problema consisterà precisamente nel fare un tutto, unum et totum, di ciò che sembra essere solo un frammento.

Tra le diverse ragioni che militano in noi, come potrà dunque il libero arbitrio intervenire, consegnarsi a una di esse, e diventare così la vera ragione della decisione finale, scegliendo, diciamo così, tra i determinismi quello cui preferisce abbandonarsi?

- In ciascuna delle tendenze che sollecitano l'attività risiede intera la facoltà dei contrari che le abbraccia tutte.

E senza avere in qualche modo un'espressione particolare, essa si particolarizza in ciascuna.

Nel momento stesso in cui sente l'attrazione del movente, essa avverte anche la propria virtualità.

In altre parole, con apparente assurdità, essa ha coscienza di determinare, se le piace, il trionfo del più debole, senza altra ragione che questa stessa volontà di affermare il proprio dispotismo.

Essa trova in tutti un motivo per mettersi in ciascuno; e per forza di cose si mette in uno di essi.

In tal modo, essendo dapprima necessariamente immanente a un motivo qualsiasi tra altri motivi ugualmente determinati, la libertà si distingue da tutti, e conferisce all'oggetto delle sue preferenze un carattere di trascendenza.

Sottomettendosi a un'eteronomia per conservare la propria sovranità, essa mette al servizio di una tendenza prescelta le stesse forze delle tendenze rivali.

Fa ciò che fa con la medesima potenza che avrebbe impiegata per fare ciò che non ha fatto.

Ecco in che modo si propone come fine una ragione, sebbene debba essere essa stessa la ragione della propria decisione.

Per determinarsi, aggiunge la propria sufficienza a ciò che è insufficiente per determinarla.

Così l'atto decisamente volontario diventa per forza di cose espressione di un'iniziativa altra rispetto all'impulso del motivo vincente.

Ora in questa sintesi, costituita dalla volontà e dal motivo col quale essa si coniuga, è forse il motivo la vera ragione della scelta?

Se è così, significa che si cede, e volendo si vuole ciò che la sincerità del volere non vorrebbe, se fosse lasciata alla sua iniziativa e fosse immune da ogni tentazione.

La libertà libera è quindi quella che vuole volere, quella che, rimuovendo anzitutto l'efficacia naturale delle tendenze spontanee, acconsente a subire l'attrattiva di una di esse solo nella misura in cui vi colloca la ragione della propria decisione.

Per il momento è sufficiente rilevare che questa distinzione, i cui termini possono apparire sottili, viene fatta dalla coscienza con grande semplicità e con grande energia.

Tutti conosciamo chiaramente la differenza che c'è tra la concessione voluta e l'iniziativa volontaria, tra ciò che sembra trascinarci e ciò che sembriamo produrre.

Questo fenomeno ci si presenta abbastanza nitidamente: tra le nostre decisioni le une ai nostri occhi sono il risultato consentito di un movimento della passione, le altre sono la manifestazione fedele e verace di ciò che chiamiamo nostro volere.

Ne abbiamo già abbastanza perché, evitando lo scoglio dell'indeterminazione e dell'indifferenza, adesso ci diamo da fare in questo difficile passaggio per evitare uno scoglio opposto, quello che potremmo chiamare il determinismo della libertà o la forma moderna del paradosso socratico.

Perché se sappiamo ciò che vogliamo quando vogliamo veramente; se abbiamo coscienza che solo là si trova veramente la ragione efficace della nostra decisione, e se questa convinzione che domina tutte le suggestioni dell'automatismo psicologico è più forte di ogni altra tendenza, perché questa volontà vera di fatto non è sempre l'unica vittoriosa, come lo è in potenza?

Come arriviamo a volere e a fare ciò che in fondo non vogliamo, a contraddirci e ad asservirci liberamente?

Mette conto di esaminare con attenzione questo punto decisivo.

II - Come ogni altro motivo, quando si manifesta alla riflessione, riveste un carattere oggettivo che lo depriva della sua energia immediata, perché su noi non agisce nulla che non sia soggettivo, allo stesso modo la libertà non sussiste che conoscendosi, e conoscendosi essa annienta la sua efficacia necessaria.

Essa si pone davanti a sé come un oggetto, come uno scopo, come un fine particolare che in linea di diritto sta al di sopra degli altri motivi, ma di fatto costituisce uno tra gli altri motivi, una ex multis.

Essa mi appartiene, non si identifica più con me stesso.

Ecco perché, proponendosi la libertà come fine, si avverte una sproporzione tra la volontà volente, quod procedit ex voluntate, e la volontà voluta, quod voluntatis objectumfit.

Proviamo le doglie di una scelta e di un sacrificio.

Occorre che questa infinita facoltà dei contrari, che avvolgeva e dominava tutti i nostri modi di essere e di desiderare, si imponga una determinazione.

Occorre che tagli e recida qualcuno dei membri dell'organismo che essa animava.

Omnis determinano negatio est.

Quello che si vorrebbe, pare, è il pieno sviluppo di tutte le tendenze naturali.

Ora invece capita che nell'opposizione dei motivi in seno alla riflessione nessuno di essi, neppure la libertà, li riunisce e li appaga tutti.

O meglio è soprattutto la libertà, assunta come fine, che sembra esigere da noi il maggior numero di sforzi e di restrizioni.

Perché, per uno strano effetto ottico inferiore, proprio essa, che nel primo slancio della coscienza è così piena di se stessa e così seducente, appare vuota e inerte quando bisogna farne un fine per la volontà.

Pertanto l'azione voluta non è di primo acchito adeguata alla stessa volontà.

Sembra che ciò che vogliamo non possiamo mai volerlo tutt'insieme, e che la ragione dell'atto libero non costituisca tutta la ragione possibile.

Occorre che alcune tendenze appaiano come se abortissero, e abortissero in modo definitivo, grazie a un sacrificio irreparabile.

Nell'azione c'è una parzialità ineludibile della volontà.

Mai dunque la ragione dell'atto è completamente chiara e interamente presente allo sguardo della coscienza.

Per questo il dovere apparirà sempre con un carattere di rischio e di oscurità avvilente.

Quindi, lungi dall'agire in noi quasi per una grazia invincibile, l'idea di ciò che vogliamo con maggiore intensità incontra la più dura opposizione nella lotta interiore.

Spesso è sufficiente che la libertà compaia in mezzo al coacervo delle parti ostili suscitato dall'automatismo mentale perché tutte si coallzzino contro di essa.

Così come essa, vista nell'intimità del soggetto, sembrava onnipotente, perché compendiava in sé tutte le energie della vita e del pensiero, considerata come oggetto e come scopo sembra niente.

Non è quindi sorprendente che, se la cerchiamo tra i fini positivi che ispirano le nostre determinazioni, non la troviamo, perché diventa reale solo volendo l'essere.

Essendo stata prodotta necessariamente, non resta se stessa che riproducendosi.

Nessuno dunque è forzato a restare libero.

Anche coloro che abusano della libertà vogliono ciò che ne hanno ricevuto: l'abuso comporta l'uso.

Pertanto la libertà non è distinta dall'uso che ne facciamo.

Se abdica e si rende schiava, è immanente alla propria decadenza.

Se si riscatta e si sviluppa, è immanente alla propria trascendenza.

In ogni modo la volontà riflessa è sempre duplice, perché è insieme un principio d'azione e un fine da raggiungere.

Tutta l'arte della vita, tutto lo sforzo della sincerità sarà di indurre una conformità la più perfetta possibile tra la volontà iniziale e la volontà positiva.

Dunque dopo le condizioni antecedenti della libertà necessaria bisogna studiare le condizioni che animano la libertà libera.

Perché nel suo essere posta non è imposta a se stessa, ma è esposta al rischio di perdersi.

Ma come è facile avere un presentimento delle difficoltà pratiche di questo compito!

Perché le tendenze, il cui fascino ci sottrae al nostro proprio volere, hanno in sé la potenza della spontaneità soggettiva; mentre la libertà, proponendosi a se stessa come un ideale da realizzare, non sembra essere che un oggetto inerte e come una finzione astratta.

Ormai l'enunciazione del problema è del tutto chiara: che vogliamo, quando vogliamo veramente tutto quello che vogliamo?

E come scoprire un fine adeguato all'integrità del movimento originario?

Come la volontà conserva la sua totale sincerità, malgrado la parzialità alla quale sembra condannata?

II.

Bisogna dunque adeguare il volere.

Che cosa vuoi dire? Vuol dire che bisogna restituire a questo apparente nulla della libertà oggettiva l'infinitezza di questa facoltà interiore di cui la riflessione ci ha offerto la chiara coscienza.

Vuol dire che bisogna trasferire la vita del soggetto nell'oggetto che egli si propone come fine.

Vuol dire che ciò che di forza e di libertà riconosciamo in noi non è che un mezzo per raggiungere la pienezza di ciò che ne vogliamo fare.

Vuol dire infine che non essendo ancora ciò che vogliamo, noi siamo in un rapporto di dipendenza verso il nostro vero fine.

Insomma ciò che vogliamo realmente, non è ciò che è in noi già realizzato, ma ciò che ci trascende e ci governa.

Qualsiasi cosa vogliamo, vogliamo ciò che non siamo.

Di fatto alla coscienza si impone sempre un'eteronomia.

I - Dunque la vera libertà soggettiva non può essere assunta come fine senza essere snaturata, a meno che, considerandola come oggetto, non le attribuiamo un carattere ideale, assoluto, imperativo.

E la nostra volontà più autentica reclama e professa una legge che esiga da essa più di quanto ancora non sia.

Di conseguenza proporci come scopo la libertà attuale, come fa il formalismo morale, e fermarsi definitivamente all'autonomia del volere, significa misconoscere il nostro primo dovere, e in esso tutti gli altri; significa, col pretesto di preservare la purezza e l'integrità della libertà, restringerla alla povertà della sua pristina forma e non conservarne che l'immagine morta.

Pertanto un primo dovere è riconoscere il dovere.

E riconoscerlo significa prendere atto che esso impone alla libertà intima non solo il rispetto e la sottomissione interiore, ma uno sforzo e dei sacrifici effettivi, un credito e una generosità la cui origine non è soltanto nella conoscenza che abbiamo della legge, un atto positivo che oltrepassa per forza di cose la conformità meramente formale dell'intenzione al dovere.

Volere ciò che si vuole davvero significa subire una norma pratica.

È dunque con un solo e medesimo atto che noi concepiamo la vera natura della legge morale e che cominciamo a praticarla.

Perché essa esige dalla libertà più di quanto questa libertà non sia ancora in noi, un primo sforzo che assegna come oggetto alla nostra vita reale l'infinita virtualità del soggetto.

Assumendo se stessa come fine ulteriore, la volontà libera cessa di apparire autonoma, perché non vi è più adeguazione tra ciò che noi siamo e ciò che vogliamo essere; ma essa lo è veramente, perché non resta se stessa che cessando di essere ciò che è.

Perché la riflessione e la decisione, duplicando il movimento iniziale della ragione e sancendo il desiderio pristino del volere spontaneo, le conferiscono un nuovo carattere e un soprappiù di realtà.

Proprio questa nuova realtà, sintesi del volontario e del voluto, è posta come norma.

Essa diventa il fine trascendente della nostra libertà attuale, di questa libertà che non può considerarsi di primo acchito come un assoluto, poiché in rapporto all'oggetto ideale su cui proietta tutto ciò che può e vuole essere, il soggetto non è più ai propri occhi che un divenire imperfetto.

L'obbligazione morale quindi, almeno fino a questo punto, stabilisce solo delle relazioni tra atti di coscienza, senza che siamo autorizzati fin dall'inizio a conferire al dovere un carattere mistico.

Ne abbiamo appena individuate le origini, abbiamo visto come, comparso necessariamente davanti alla coscienza nello stesso ordine dei fenomeni, esso ha un influsso parimenti necessario.

Ma lungi dal ridurne il valore, questa conoscenza ne fa emergere l'importanza perentoria, la certezza scientifica e la portata superiore.

La legge morale, per il solo fatto che è rappresentata in noi, include in sé una realtà certa.

Non è semplicemente un dover essere che potrebbe non essere; essa è già, perché deve essere.

La ragione non è pratica che a condizione di non essere soltanto una ragione pura.

Dunque la volontà in ciò che può violare pone ciò che non può rimuovere.

Così definita, l'eteronomia non è contraria all'anelito profondo della libertà; essa non fa altro che consacrarlo e dargli una risposta.

Così ritroviamo qui ancora una volta quell'instabilità che non ci ha consentito di arrestarci ad alcun punto.

È impossibile arrestare in qualche punto il movimento continuo che ci porta attraverso tutto il dominio dei sensi, della scienza e della coscienza.

A ogni grado scopriamo che bisogna sempre andare al di là, indubbiamente non più lontano di quanto si voglia, ma più lontano di quanto si prevedesse.

A ogni grado c'è una sintesi nuova, un fine superiore da raggiungere.

In questo modo la conoscenza sensibile e scientifica si è raccordata ai fenomeni soggettivi.

In questo modo nel dinamismo interno abbiamo rilevato l'eterogeneità del motivo e dello scopo autentico.

Perché se l'intenzione è a un tempo il termine cui si tende e lo sforzo che si fa per raggiungerlo, se la causa finale è l'espressione completa delle cause efficienti, essa nondimeno costituisce una novità originale rispetto a quelle.

In questo modo infine la libertà diventa per se stessa un fine trascendente.

Se essa pretende conservarsi interamente in se stessa, e compiacersi della propria potenza, questa sola pretesa comincia a snaturarla e a pervertirla.

Sicché l'eteronomia morale è il complemento necessario dell'autonomia della volontà.

Perché quello che conta non è volere ciò che siamo, ma essere ciò che vogliamo, separati come siamo, per così dire, da noi stessi da un immenso abisso.

E questo abisso bisogna superarlo, prima di essere, alla fine, assolutamente all'altezza di quell'essere che esigiamo da noi stessi.

II - Dunque la legge morale è indispensabile alla libertà.

Il dovere è in tal modo elevato a fatto positivo, a verità scientifica.

Sbarazzarsene, col pretesto che è oscuro, non ben fondato, pesante da sopportare, significa essere radicalmente incoerenti con la scienza e con la coscienza; significa non volere più ciò che si vuole.

Ma ce ne sbarazziamo mai fino al punto di non averne più neanche l'idea?

E, che lo osserviamo o vi ci sottraiamo, dal momento in cui ne abbiamo avuto un'idea, non vi sono conseguenze per tutto lo sviluppo ulteriore dell'azione?

Possiamo fare come se non fosse esistito? - No.

Non bisogna credere che in pratica snaturiamo ciò che spieghiamo male, che aboliamo ciò che neghiamo, che distruggiamo ciò che violiamo.

Se per forza di cose l'obbligazione morale ci appare con un carattere imperativo, questa necessità, sia essa compresa o misconosciuta, accettata o respinta, ha in ogni caso anch'essa una ripercussione ineludibile nella nostra vita.

Di fatto alla coscienza si impone un'eteronomia.

Di fatto l'impossibilità di un'autonomia immediata ci induce all'azione come a un esodo inevitabile.

Di fatto il sentimento di un'obbligazione, la necessità di una scelta nella decisione e di una presa di partito nell'azione conferiscono a tutta la nostra condotta l'inevitabile novità di un carattere morale.

La presenza in noi del dovere è un principio di antagonismo interno; perciò è un principio di forza e il punto di partenza di un nuovo dinamismo.

Se pure facciamo la mossa di rimuoverlo, se pure tentiamo di imbavagliarlo o di neutralizzarlo, mai più sarà indifferente per tutto il seguito dell'azione che questo testimone sia comparso.

Pertanto dopo che questa coscienza dell'obbligazione è sorta, è finita.

Qualunque cosa si voglia, in conformità o contro tale coscienza, dalla sola volontà ( a prescindere da ciò che vuole ) procede un immenso concatenamento di conseguenze necessarie.

Quindi, pur condannando il formalismo morale, non si tratta più ormai di offrire alla volontà una materia e di immettere dal di fuori un contenuto nell'azione.

Tutt'altro. Si tratta, qualunque siano le formule, i precetti o le falsificazioni della morale, qualunque siano le deviazioni o le illusioni della coscienza, qualunque siano le deficienze o le negligenze pratiche, si tratta, dico, di determinare l'elemento comune a qualsiasi impiego della libertà, di riafferrare quello che resta necessario e inevitabile sotto quello che è arbitrario e variabile.

In ciò che si vuole liberamente c'è un determinismo latente.

E solo il rigore di tale necessità consente una vera scienza dell'azione; solo lo svolgimento di essa rivela a poco a poco alla volontà la serie dei mezzi che essa si impone da sé; solo tale necessita ha per l'uomo un'importanza perentoria, poiché gli svela ciò che non può evitare di essere prima o poi, e con una logica inesorabile ricava dalle sue azioni volute tutto ciò che esse già contengono.

Pertanto è impossibile che l'intenzione non si particolarizzi; è impossibile che la decisione esprima la volontà totale e le assicuri di colpo una piena autonomia; è impossibile altresì che questa parzialità della decisione non cerchi in un'azione effettiva la conferma precisa e il progresso cui essa aspira.

Lungi dal credere che l'intenzione è isolata dalle sue condizioni, e dal considerarla come un impero in un impero, bisogna capire come essa contribuisce a formare l'ambiente in cui deve orientarsi, e determinare ciò che serve a qualificarla.

Dal solo fatto che l'uomo vuole deliberatamente consegue tutta una serie di atti e di relazioni necessario che vanno a formare a poco a poco il quadro stesso della sua vita e la scena naturale della sua moralità.

In tal modo nella morale sarà reintegrata tutta la natura, prima che si possa dare alcun contenuto all'intenzione.

Allora la prospettiva sembra rovesciata, e il movimento che finora era sembrato centripeto diventa in qualche modo centrifugo.

Dopo aver assorbito e dominato l'intero oggetto della sua conoscenza e tutto il dinamismo della natura, il soggetto si trova obbligato a uscire da se stesso e a sottomettersi a una legge di distacco, proprio per non vincolarsi a una forma imperfetta del proprio sviluppo.

Sembra allora che occorra cercare fuori di noi il perfezionamento della vita interiore.

Eccoci chiamati a vivere e a operare in una regione superiore alla coscienza chiara e distinta.

Entriamo in un campo ancora misterioso, quello in cui la volontà si unisce al suo oggetto.

Essa vi persegue il proprio perfezionamento, attende, come per un esperimento provocato a priori, la chiarezza di cui ha bisogno e la risposta da cui spera di avere requie.

Siamo di fronte a contraddizioni apparenti: essa non tende che ad adeguare il suo slancio intimo, e sembra che cerchi ed elemosini al di fuori la soddisfazione che può gustare solo in se stessa; pretende sbarazzarsi di tutti gli ostacoli che impediscono la sua espansione, e si va a compromettere nel determinismo delle potenze esteriori.

È questa necessità dell'azione che occorre spiegare e giustificare.

Sotto questa apparente fatalità si cela istintivamente l'ambizione di una volontà bramosa di estendersi.

III.

È un fatto che qualsiasi immagine e qualsiasi idea esprimente un sistema di forze tende a passare all'atto.

E in effetti è l'atto l'indice popolare delle convinzioni sincere e dei sentimenti che proviamo.

Ma, si dirà, « lo sforzo col quale concepiamo e affermiamo la legge morale ha ancora bisogno di essere manifestato?

Non è già un atto completo che acquisisce valore solo per l'energia e la purezza del sentimento del tutto interiore, come una fede che sia sufficiente e necessaria per la salvezza anche senza le opere?

Non sarà sufficiente elevare e orientare l'intenzione, qualunque cosa poi avvenga nella macchina umana?

E del resto il valore morale delle decisioni come potrà dipendere dall'esecuzione materiale di qualche movimento?

È anzi concepibile che l'idea assolutamente intemerata del dovere possa essere davvero tradotta dal corpo di un'azione?

Insomma, non ha ragione il formalismo? »

Al contrario, la verità è che l'azione stessa è una parte integrante dell'intenzione, essa la vivifica e la illumina, avvia la volontà verso i suoi fini, precisando a poco a poco e realizzando il suo ideale.

Per usare e governare i motivi inferiori occorre collocarsi sul loro terreno, occorre conquistarli fin nella loro origine materiale.

Non se ne esce vincitori con una semplice preferenza o con un decreto astratto.

Volere ciò che si vuole significa farlo con tutto se stesso.

Al di là dell'intenzione che realizza l'esecuzione è un potere originale e un nuovo fine.

- Infatti non bisogna dimenticare che solo agendo abbiamo preso coscienza della nostra libertà.

È quindi necessario che agiamo per sviluppare la nostra libertà e per conoscerla meglio.

Perché la volontà irriflessa è della stessa natura di quella di cui abbiamo coscienza assai lucidamente, e mettendo in luce ciò che la segue, la riflessione ci permette di produrre ciò che la precede.

- Non bisogna dimenticare che nel conflitto tra i motivi la libertà si è rivelata solo rivestendo la figura di uno dei motivi particolari, e svolgendo nel loro contesto un ruolo efficace.

È dunque necessario che per conservare la sua indipendenza essa continui ad agire, altrimenti verrà meno la base su cui poggia.

- Non bisogna dimenticare che questa libertà, calamitata grazie al progresso dell'azione dal determinismo della natura, non si preserva e non si perfeziona che nella misura in cui si oggettiva in qualche modo, e pone in sé tutto ciò che vuole vi sia.

È quindi necessario che essa immetta tramite l'azione, fino alle sorgenti da cui essa stessa procede, le acque che le ritorneranno più abbondanti.

In tal modo, nata dall'azione, preservata dall'azione, perfezionata dall'azione, la coscienza della libertà e dell'obbligazione morale tende all'azione, άείένργεί.

Il dovere prende consistenza e figura concreta sempre sotto la forma di un motivo, ossia di una tendenza all'azione.

Bonum semper in actu. Έν τώ έργω δοκεί είναι τό άγαυόν καί τόέν.38

Immaginare che si riesca a determinare il dovere con una deduzione della ragione è un'illusione.

Non è certo con un metodo deduttivo che si conferisce un contenuto alla legge formale.

Ecco dunque che l'obbligazione pratica ancora indefinita riceve una prima determinazione.

Come la libertà, che era sembrata dapprima indifferenza pura e arbitraria, aveva preso forma nell'idea del dovere, allo stesso modo adesso la coscienza del dovere veicola già una necessità definita e giustificata: « Noi dobbiamo tradurre in pratica, bisogna agire ».

Pertanto sarebbe un errore madornale se si pretendesse isolare l'intenzione libera dal determinismo delle azioni.

Perché come la libertà non è separata dai suoi antecedenti necessari, così non è separata da ciò che le consegue necessariamente.

Di solito non ci si è affatto preoccupati di questo determinismo conseguente alla decisione.

E tuttavia, come si mostrerà nel seguito di questa indagine, è questa la grande cosa che interessa l'uomo, quella da cui dipende la sua vita personale e sociale.

Per il momento l'essenziale era capire come la volontà è fedele alla sua intenzione solo suscitando, attraverso la vita spontanea da cui emerge, bisogni, motivi, energie sempre più coerenti e cospiranti col suo proposito, qualunque esso sia.

Ed essa non può farlo se non domandando all'azione il cammino segreto attraverso cui nascono il pensiero, i desideri e le abitudini.

Infatti è grazie all'azione che l'intenzione morale penetra nelle nostre membra, fa battere il nostro cuore e fa scorrere la sua vita nelle nostre vene; grazie all'azione che si dispiega nell'immenso ambiente in cui siamo immersi; grazie all'azione che ritorna alla coscienza più piena, chiara, carica delle sue conquiste.

Perché l'ingranaggio del determinismo restituisce ciò che gli si da; ma con quali trasformazioni e con quali arricchimenti!

È quindi palese che ciò che vi è di necessario nell'obbligo d'agire corrisponde alla sincerità del volere primitivo.

Questa stessa necessità contribuisce a realizzare la pienezza della nostra libertà.

Di che si tratta in effetti?

Di ottenere che ciò che vogliamo proceda spontaneamente da noi stessi, e che vi sia accordo perfetto, per quanto possibile, tra lo slancio e il risultato del nostro sforzo, uguaglianza tra l'ampiezza delle aspirazioni volontarie e la grandezza dei fini voluti.

Ora l'intervallo tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere sembra sconfinato.

E qual è dunque questa distanza che separa noi stessi da noi stessi?

Che cosa impedisce che la nostra propria volontà sia semplice, piena e compiuta?

È la presenza in noi di desideri ostili, è la divisione interiore delle nostre tendenze più vitali, è la guerra intestina che scatena in noi il movimento naturale dell'automatismo.

Pertanto occorre penetrare a poco a poco in tutto questo meccanismo psicologico di influssi pacificanti e liberatori, perché i germi di unità depositati fin nelle sorgenti della vita inconscia crescano e fruttifichino, fornendo così alla volontà riflessa un'immagine sempre più fedele della propria natura, una vita sempre più conforme alla propria aspirazione.

Senza dubbio l'intenzione sincera è già per se stessa un atto, e in certi casi non si da, a quanto sembra, operazione materiale che possa tradurla al di fuori.

Tuttavia non c'è dubbio che ogni atto di coscienza si esprime con un'azione, ossia con uno stato particolare e con una disposizione sistematica degli organi; non c'è dubbio che questo atto intimo, se diviene oggetto di un'attenzione decisa e di una volontà espressa che vi acconsenta e lo duplichi in qualche modo aderendovi, determina una tensione organica che preserva e rafforza l'intenzione stessa.

A nessun livello quindi possiamo isolare la libertà o l'obbligazione dai loro antecendenti e dalle loro conseguenze; essi vi sono connessi con un legame di necessità perfettamente intelligibile, perché la volontà trova in questa stretta relazione un mezzo, l'unico mezzo per perseguire il suo libero sviluppo.

La nuova sintesi che bisogna ottenere è necessaria e trascendente rispetto ai propri elementi.

Pertanto l'azione precede e segue la libertà morale, come una condizione doppiamente indispensabile perché essa nasca e sopravviva.

Anche quando prende se stessa come fine, la volontà libera vuole altro da sé.

Essa non si vuole oggettivamente così come è soggettivamente, essa diventa, si fa; non vive mai senza cambiare, e si conserva solo donandosi.

Scaturita dal determinismo inferiore, ha bisogno di attingervi un perpetuo alimento, così come ha bisogno di rielaborare e di trasformare incessantemente questa spontaneità incoerente che essa deve far partecipare all'unità e all'attività morale.

Si dà dunque un duplice scambio dall'oggetto al soggetto e dal soggetto all'oggetto.

Ed è questo scambio che costituisce l'operazione volontaria. Dopo essersi disancorata dalle suggestioni animali e dall'automatismo psicologico, la volontà ritorna alla condizione non riflessa; l'intenzione si getta ciecamente nel movimento che la porta a esecuzione, come se nell'istante in cui cominciamo a realizzarla entrassimo nel buio di un sonno ipnotico.

Non ammiriamo forse la cavalletta che si lancia con tutte le forze, a corpo morto?

Quando ci si dedica all'azione sappiamo mai chiaramente dove andremo a finire?

E se lo sapessimo chiaramente, agiremmo mai?

Ma come minimo si vede già chiaramente che vogliamo agire, e perché; si vede altresì che agendo portiamo la luce nell'oscurità nella quale avanziamo, e che c'è una luce connessa a ogni passo che facciamo, lucerna pedibus et lex lux.

Ce n'è dunque abbastanza perché il dovere si illumini man mano che abbiamo l'occasione e il bisogno di conoscerlo; esso produce in qualche modo questa luce che lo guida e lo giustifica.

Ed è così che il piccolo germe di coscienza morale seminato in noi può sollevare tutta la massa delle forze indifferenti o ribelli.

È quindi meschina e ambigua ogni filosofia, e soprattutto ogni morale, che si limita a ciò che coglie immediatamente lo sguardo dell'osservazione inferiore, o che si spinge anche ai fenomeni in penombra da cui è preceduta la riflessione, ma non arriva fino a penetrare nelle tenebre che precedono, accompagnano e seguono ogni conoscenza soggettiva.

Prima e poi, al di sotto e al di sopra della coscienza dell'azione vi è qualcosa da sapere, e non si tratta di ciò che è meno rilevante per l'azione.

La coscienza non è tutta la scienza, come non è tutta la persona.

E in questa sede la cosa da tentare è lo studio non tanto dei fenomeni percepiti come oggetti, non tanto delle realtà del tutto soggettive, ma precisamente dell'azione in quanto compendia l'oggetto nella vita del soggetto, e fa vivere il soggetto nello stesso oggetto.

La vita inferiore non sussiste che grazie a un'espansione e a una fecondità perenni.

Noi dunque siamo indotti a considerare questa azione, nutrita di forze inconsce, di sentimenti spontanei e di desideri riflessi, questa azione che è una definizione concreta e fecondante, non un'analisi astratta e dissolvente dell'idea che realizza, come un germe vivo il quale, dotato di un potere evolutivo, ha fin dal momento in cui è concepito e impiantato nell'organismo umano una crescita naturale, uno sviluppo interno, e per così dire delle funzioni di nutrizione, di relazione e di riproduzione.

Mette conto ormai di seguire il progresso organico di questa germinazione.

Perché se, concentrando in sé l'infinità dell'ambiente da cui attinge la sua linfa, l'azione è la fine di un mondo, è allo stesso tempo l'inizio di un mondo nuovo.

Essa appare all'improvviso come un colpo di spada che separa senza rimedio il passato dal futuro e il possibile dal reale.

Per il suo carattere sintetico essa è il cardine tra il determinismo scientifico e il determinismo pratico; l'uno segue, l'altro precede la decisione volontaria, ma entrambi sono sospesi all'iniziativa del volere.

Grazie a essa noi restituiamo all'universo tutto ciò che è parso mutuassimo da esso, e anche di più.

Perché moralizziamo la nostra natura animale conficcando nelle nostre viscere la virtù operante del dovere.

E, agendo, apprendiamo ciò che dobbiamo fare; ossia la nostra volontà riesce sempre meglio a conoscersi e ad adeguare se stessa.

Così il sistema delle obbligazioni morali comincia a prendere forma a poco a poco grazie allo sviluppo medesimo della vita.

Perché tendendo ai suoi fini veramente volontari l'azione compenetra, regola e orienta tutte le nostre inclinazioni personali e sociali.

Prima di ritrovarci così come vogliamo essere occorre dunque concertare in noi la vita universale, di cui il nostro organismo pensante è il ricettacolo.

Occorre altresì costruire in noi come un nuovo universo; perché il sentimento della legge morale, riepilogando simbolicamente tutto ciò che nel fondo di noi stessi aspira a crescere, è la molla del nostro sviluppo totale.

Ciò che nel dovere non può essere violato, organizza nella nostra coscienza il sistema degli obblighi che possono esserlo.

Così con la sua sterminata espansione in seno al mondo organico, intellettuale e morale, è sempre la medesima volontà che si cerca e a poco a poco si trova.

In breve, la libertà si conserva e si sviluppa solo oltrepassando se stessa.

L'autonomia attuale probabilmente è davvero eteronomia.

Non si tratta quindi di proporre alla libertà un dovere dall'esterno.

Si tratta di scoprire il dovere nella libertà medesima, e di trovare in ciò che essa non è ancora il desiderio segreto di ciò che è già.

E come il determinismo antecedente è sembrato indispensabile alla manifestazione della volontà libera, allo stesso modo il determinismo conseguente è una condizione integrante della libertà.

Questo duplice aspetto non è che una verità unica.

Perché il modo di dividere e di ordinare le cose nel tempo è spesso solo un artificio dell'analisi.

L'azione, che in parte è sempre cieca, avvolge in questa parte oscura che costituisce l'operazione vera e propria, tutta la serie delle sue condizioni scientifiche e delle sue relazioni morali.

Tutto il seguito dell'argomentazione è dedicato a elucidare questo lato oscuro dell'atto.

- Abbiamo fatto un passo avanti.

Affermando qualche cosa, e volendo porre in essere una scienza positiva di questo qualcosa, abbiamo postulato il fenomeno soggettivo.

Riconoscendo la realtà scientifica del fatto di coscienza, e studiando le leggi dell'automatismo psicologico, abbiamo preso coscienza del determinismo interno.

Ponendo il determinismo ne induciamo la libertà.

Volendo la libertà esigiamo il dovere.

Concependo la legge morale sorge la necessità di produrla nell'azione, per conoscerla e per determinarla nella prassi.

* * *

L'intento dell'indagine che segue è questo: seguire il progresso della decisione volontaria nell'ambito dell'organismo in cui germina, e di cui, grazie a un oscuro lavoro, costituisce l'unità cooperante; studiare questa crescita interiore, dal punto in cui l'atto comincia a espandersi negli organi e a modellare il sistema dell'individualità umana, fino al momento in cui l'operazione motrice, oltrepassando inevitabilmente le frontiere dell'individuo, dopo questa gestazione si apre a un'espansione più completa.

Indice

38 L'espressione greca è ripresa dall'erica o Nicomaco (I, 6), e si trova nel primo foglio del progetto di tesi, come uno degli spunti germinali dell'Azione.
Tuttavia, mentre il testo aristotelico ( anche nella classica edizione lipsiense che Blondel usava) porta τό έν, Blondel trascrive τό έν, con un'evidente difformità che forse non è del tutto preterintenzionale, anche se poco perspicua, se si considera il modo col quale egli plasma la formula aristotelica ( per esempio, a p. 293 la formula diventa: έν τώ έργωτό όν ). Insieme a questa formula aristotelica nelle Notes semail-les, quelle note sparse che segnano la gestazione della tesi blondeliana, ricorre come fondamentale anche l'altra formula citata a p. 319, sempre dall'Erica a Nicomaco: ένεργείαό ποιήσας τόέγον έστι πώς, che peraltro viene palesemente estrapolata dal suo contesto argomentativo ( lasciando cadere, tra l'altro, il δέ del testo)