L'azione |
Noi non abbiamo bisogno soltanto del concorso e delle opere degli altri.
A che servono tutti i loro doni, se non si donano e non abbiamo loro stessi?
Ciò cui aspiriamo è il loro affetto, la loro volontà, la loro azione carica di dedizione e di amore.
È questa la sorgente capace di rinfrescare un ardore che non può raccogliersi interamente in noi, il focolare che riscalda un'attività che minaccia di estinguersi per mancanza di alimento.
In questo bisogno e in questa volontà risiede il segreto del mistero dell'amicizia.
Non basta un desiderio vago e generico di unione con gli uomini; ci vuole un punto di partenza preciso e una scelta estremamente concreta.
L'uomo è entrato nella vita per un amore assolutamente unico, e per un amore del genere vi rientra a sua volta.
Ma come legarsi in maniera tutta particolare a un essere che non ha niente di particolare?
Come far sopravvivere l'affetto alla perdita di tutte le qualità che ci avevano legato alla persona amata?
In effetti due vite si sono unite non soltanto in ciò che conoscevano l'una dell'altra o di se stessa, ma fino al principio delle loro azioni comuni e dei loro sentimenti indivisi.
Ed ecco perché, secondo la bella espressione di Aristotele, un'amicizia che è potuta finire non è mai stata autentica.
Ecco perché nella più ordinaria natura d'uomo c'è sempre qualcosa di unico che merita di essere amato in maniera unica.
Il grido naturale del cuore è questo: amare se stesso amando sinceramente un altro; donarsi e duplicarsi con questa donazione; vedersi diverso in se stesso, e vedere se stesso nell'altro; non essere minimamente solitario ed essere solo; unirsi e abbracciarsi distinguendosi; avere tutto in comune senza confondere nulla, e restare due persone per fondersi continuamente come un tutto unico e in un solo essere più perfetto e più fecondo; focalizzare centomila raggi di gloria nella stima amorosa di un'anima; preferire un'anima che ama interamente a un milione che amano molto.
Non vi pare che da questo accostamento ci si aspetti una vita nuova, e che ogni affetto totale sia destinato e quasi sospeso al proposito di dar vita a un'opera comune di coloro di cui essa consacra, giustifica e suggella l'unione?
Ogni azione sociale è quindi una sorta di generazione.
Essa infatti deriva dal bisogno che sentiamo di estendere ad altri la nostra volontà e di reduplicare la nostra vita.
Noi vogliamo che il risultato di questa donazione sia altro da quello che eravamo già, un arricchimento, un pegno atto a incoraggiare, a stringere e a sancire il vincolo dell'affetto reciproco.
Nel perimetro dell'umanità questo movimento di espansione e di ripresa si arresta a tre termini progressivi principali: la famiglia, la patria, l'intera società umana. In che modo la volontà genera ciascuna di queste sintesi definite in cui si incorpora la sua azione, e come passa dall'una all'altra ampliandosi?
I.
Tutto quello che tocca, tutto quello che sa, tutto quello che ottiene dal concorso degli altri, tutti i fini finiti che persegue all'esterno e che raggiunge non hanno potuto saziare l'appetito che ha spinto l'uomo fuori di sé, in cerca di una risposta adeguata al suo appello.
L'immensità di questa soddisfazione, che l'uomo può aspettare solo da un altro se stesso - da un altro incomunicabile e impenetrabile come lui, - si offre a lui nell'unità intima e chiusa di una vita estranea alla sua.
Essa gli è estranea. Egli ci vuole entrare per formare con essa un mondo separato e per rinchiudersi quasi in un universo totale e indipendente.
È l'amore, l'amore esclusivo, geloso, passionale, spesso egoista nel suo fondo.
Ma seguiamone lo sviluppo, decifriamone le aspirazioni segrete.
Sotto gli allettamenti del godimento sterile si ritroverà il profilo serio della volontà feconda.
Non è forse anzitutto una prima attrattiva e un movimento sincero quello che ci porta a vivere per mezzo degli altri e per gli altri?
Quella tenerezza e quella dedizione che l'egoismo solitario è impotente a darsi, l'amore dell'uno le vuole e le realizza per l'altro.
È un egoismo a due, tanto più delicato e remunerativo in quanto perde di vista se stesso e immagina di essere diventato l'esatto contrario.
Indubbiamente se si andasse al fondo di tutte le cortesie, le sollecitudini e le generosità dell'affetto scambievole, se dagli atti si risalisse, attraverso il tenue filo dei ragionamenti impliciti, fino al principio dei sentimenti inavvertiti, si rimarrebbe sorpresi, come lo è stata la maggior parte dei moralisti, dell'amor proprio mascherato che è in gioco dietro una facciata di bontà e abnegazione.
Per fare un esempio: quando si piange per una separazione, si piange se stesso.
Ma l'amor proprio ha la vista ancora più lunga dei moralisti.
Esso intravede che l'affetto vero che si sente per un altro è più gratificante di un egoismo troppo sollecito a godere di se stesso.
Poiché il fine ricercato consapevolmente non esaurisce il desiderio e l'azione di solito supera l'intenzione definita, ne viene che le cause profonde dell'atto e i suoi stessi effetti possono apparire sottomessi alla legge dell'interesse, senza che lo stesso agente sia interessato.
Quindi a livello ingenuo adoriamo essere amati, e desideriamo amare.
Infatti nell'amore donato c'è un'attività liberale che sola prepara il cuore a gustare un dono reciproco.
E nell'amore ottenuto e ricevuto c'è un'ammirazione, una fiducia e un'abbondanza che restituisce con l'interesse tutto ciò che l'amante era sembrato sacrificare all'amato.
Quando il bambino, che parla di sé con una ingenua tenerezza, si stupisce di non potersi abbracciare, è l'immagine di questo egoismo disinteressato che aspetta il bacio di un altro egoismo e si scambia con esso.
Cosi ciascuno ha il merito della sua rinuncia totale e morbida.
Nello stesso tempo ciascuno ha il beneficio di una tenerezza vigile, di cui l'egoismo più odioso non eguaglierebbe la nobile sollecitudine.
Ciascuno ha la gioia generosa di gustare e di ammirare la dedizione da cui trae profitto.
Il miracolo dell'amore non è forse di godere sia del proprio disinteresse sia del disinteresse dell'amante, pur raccogliendo ciò che non potrebbero procurare le finezze dell'interesse più avvertito e più sottile?
Ma per raggiungere questa perfetta intimità quale arte, potremmo dire quale scienza della vita comune, non bisogna acquisire ed esercitare!
Se per padroneggiare e governare le potenze della natura lo scienziato o l'empirico hanno bisogno di un così grande sforzo di pensiero e di un tale dispendio di energia, per entrare in un cuore, per mantenervisi, per armonizzare davvero l'unanimità durevole di due coscienze fuse in una, quale ingegnosità della tenerezza e quale diplomazia della dedizione reciproca non diventano necessario!
Nulla sembra che costi pur di suggellare questa unione, che pare il fine agognato e che tuttavia è solo una tappa provvisoria.
E ciascuno sembra pronto a sacrificare tutta la sua vita individuale per questa vita a due.
E come non volere altresì che questa intimità sia, essa sola, più di tutto l'universo esteriore?
Se per ognuno di noi la minima idea che brilli dentro di noi ha più fascino e più verità di qualsiasi irraggiamento al di fuori, come stupirsi che gustando la vita interiore di un altro se stesso si provi una sensazione di pienezza, quasi un'ebbrezza?
Per una straordinaria astrazione operata dall'amore l'essere amato è isolato completamente dal resto del mondo.
Lui solo sembra avere agli occhi dell'amante una vita reale.
Diventa per lui la misura delle sue impressioni e dei suoi giudizi.
E come non ammettiamo che un altro diverso da noi lo ricerchi e lo possegga, così nello slancio sincero del cuore non ammettiamo neppure che possiamo ricercare un altro diverso da lui.
Gli amanti risultano davvero ridicoli; ma è una specie di rappresaglia.
Infatti sono essi, per primi, che sembrano mettere gli altri fuori della porta del mondo, pronti a sacrificare tutto il resto a questo nulla che essi sono nell'immenso spazio delle anime, purché questo nulla sia per loro tutto il resto.
Dunque in tutto l'uomo non c'è niente di analogo.
Persino colui che ama non riesce a comprendere l'amore negli altri.
Tra due amori non sussiste alcun rapporto, perché in fondo ce n'è soltanto uno.
E ciascuno ritiene di esaurire tutto, senza credere di esaurirsi mai.
In lui niente è generale o comune, tutto è particolare, peculiare a colui che lo sente e a colui che lo ispira, incomparabile, infinito.
Incomprensibile gioco di prestigio del cuore innamorato, pronto a divinizzare la povera realtà che crede di possedere lui solo e tutta intera per l'eternità, e che invece gli sfugge già nel medesimo istante!
Accecamento dispotico e volontario, che trasfigura l'oscuro idolo per vederlo, per vederlo meglio chiudendo gli occhi!
I corpi vivono di una strana solitudine.
E tutto ciò che si è potuto dire dell'unione non è nulla a confronto della separazione che essi causano.
Voi che avete le braccia stanche prima di aver fuso i cuori, quello che cercate ancora, mentre pensavate di raggiungerlo già, è l'unità perfetta, è la perpetuità esclusiva e indissolubile.
Ed ecco perché, quando parlano, la ragione e la passione cospirano insieme. per esigere a un tempo, e proprio in nome della grandezza e della genuinità dell'amore, l'unione indivisibile, indefettibile, perfetta.
Il divorzio è contro natura.
E questa unità, che la debolezza della natura pare rendere impossibile, questa unità, che lo sforzo della tenerezza reciproca, abile a mascherare le sue discontinuità e le sue carenze reiterando le sue attestazioni, non riesce a ottenere, deve essere consacrata tra i coniugi da un vincolo invisibile e permanente, in modo da congiungerli ancora e da stringerli con tutta la forza del loro desiderio intimo.
Perciò, proprio perché ha un immenso bisogno d'amore, la volontà aspira all'unità, alla totalità, all'eternità del nodo col quale lega l'uno all'altra, loti totus, unus uni.
Se è perfettamente coerente con la sua brama, aspira alla monogamia, attende quasi una consacrazione dell'indissolubilità matrimoniale.
Infatti ciò che ama dell'essere amato non è soltanto ciò che si può vedere, toccare, conoscere e comprendere.
È tutto questo, ma è anche la realtà oscura, inconsapevole, impenetrabile, il fecondo infinito che egli nasconde, e che rivela in tutto se stesso.
Quello strano feticismo che si lega a un dettaglio per farne l'oggetto astratto di un culto è un amore malsano.
L'amore vero abbraccia l'intera persona, considerandola come un'unità vivente di parti che derivano la loro bellezza dal loro rapporto intimo col tutto.
L'amore vero è, se così si può dire, monoteista.
Infatti non gli basta dire: un cuore solo in due corpi.
Esso unisce non solo le volontà amanti, le intelligenze che si comprendono e si compenetrano, ma fonde anche le parti tenebrose e sconosciute, quelle da cui nascono gli atti, quelle in cui la volontà si è incarnata e arricchita.
Rispettando la distinzione delle coscienze che continuano a fruire della loro peculiarità e della loro unione voluta e sentita, esso fonde le sostanze, associa intimamente le azioni, immedesima le fonti dell'essere e della vita, suggella per sempre, fin nelle fondamenta originarie, le pietre dell'edificio comune: duo in carne una unum sunt.
È dunque fatta: sembra che uniti col corpo per formare un'anima sola, uniti con l'anima per formare un solo corpo, i coniugi abbiano trovato il loro tutto.
Tenui eum nec dimittam.56
E tuttavia, quando per uno scambio misterioso due esseri non formano più che uno stesso essere più perfetto, forse che la loro presenza reciproca, la loro azione reciproca chiude il cerchio della loro volontà?
È questo il pieno possesso, il termine in cui si arresta lo slancio del desiderio? No.
Due esseri non sono più che un solo essere, e proprio quando sono uno diventano tre.
Questo miracolo della generazione segnala con un fatto quello che deve essere, quello che è la volontà profonda di quegli stessi che sperano di trovare nella loro precaria unità un momento di riposo, di appagamento e di sufficienza.
Perseguendo un fine amato, si ama non tanto questo fine quanto il frutto di cui esso, fecondato dall'amore, arricchirà coloro che si prodigano per lui.
Perciò la volontà pare sempre trascendere se stessa, come se nuove ondate provenienti dal centro spingessero incessantemente i cerchi sempre più ampi dell'azione, - dell'azione che a ogni istante sembra la fine e la perfezione di un mondo, ma che è perennemente l'origine di un nuovo mondo.
Essa non si chiude e non si concentra che per aprire orizzonti più ampi all'insaziabile ambizione del desiderio.
Ecco dunque nel bambino questa perennità pretesa dall'amore, questa unità indissolubile e superstite.
Lo stesso slancio della passione spezza il cerchio magico in cui forse sperava di rinchiudersi per sempre.
Nell'istante stesso in cui raggiunge questo assoluto, questa sufficienza e questa eternità di un momento che cercava infinitamente, la volontà è già al di là di se stessa.
Essa vuole l'anima dell'amato per produrre un corpo.
Compare un terzo, come per supplire all'infruttuoso tentativo dell'unità.
Egli non è più l'amore, osculum, ma è nato dall'amore, ne rivela la potenza e la debolezza, lo suggella in una tomba - la culla - che non restituisce più quello che ha preso dai genitori.
Sono parecchi, è questa la ricchezza.
Sono parecchi, ma questa è anche la povertà, perché non sono più uno.
Un'alba straniera è sorta.
Crescendo, è necessario che la famiglia si apra e si disperda, che l'affetto comune si moltiplichi dividendosi.
I due esseri uniti non possono più, non vogliono più essere tutto l'uno per l'altro.
Spesso la loro tenerezza stornata si ritrova soltanto sulla testa del bambino.
E nella loro vita ormai parallela essi talvolta non trovano altro che abitudine, indifferenza, persino ostilità.
Pertanto il fine dell'amore non è l'amore ma la famiglia, prima aggregazione naturale e necessaria nel cui seno la vita nasce e cresce, come in un seno che riscalda al riparo dall'immensità dell'universo.
È quindi nella generazione che l'uomo riesce a esprimersi, a dedicarsi, a sopravvivere interamente a se stesso, è nella generazione che trova la perfezione del suo atto e la prima risposta compiuta cui anela.
La sua prima opera vivente è il bambino, sintesi mirabile: due e uno e tre, non hi tres unum, sed hoc unum tres sunt.57
Questa è la ragione segreta dell'attrazione che consegna due esseri l'uno all'altro, corpo e anima.
Infatti quello che la volontà persegue è al di là delle soddisfazioni egoistiche e godibili, al di là persino dell'insondabile soggetto amato che sfugge al soggetto amante, è l'opera comune della loro potenza e del loro amore incarnato, l'immagine visibile e reale della loro duplice e unica vita, l'espressione di ciò che sembra inesprimibile e inaccessibile in ciascuno.
Il progresso delle ambizioni del volere è palese.
Una volta avevamo voluto l'opera utile, il concorso esterno da parte di altri.
Eravamo al livello di un egoismo ancora solitario.
Poi il desiderio si era polarizzato sull'operaio stesso.
Siamo sul piano di un egoismo a due.
Adesso si vuole e si fa esistere l'opera vivente, e in quest'opera ciò che in ciascun operaio è impenetrabile e infinito.
Siamo a un egoismo a tre.
Il bambino è l'azione sostanziale di potenze che non si conoscono bene se non in lui, che non sono una cosa sola se non in lui, che si consumano come un fuoco di tenerezza davanti a lui.
E in lui si trasferisce la volontà, come al suo fine naturale, la volontà coerente con la propria legge e conforme all'anelito sincero dell'amore.
È lui quindi che fonda l'unità indissolubile, e che rivela la malattia che dissolve il vincolo nuziale.
- La malattia dissolvente, in quanto vogliamo sopravvivere a noi stessi solo perché passiamo e moriamo, perché non possiamo ingabbiare tra due lo slancio infinito del volere.
- L'unità indissolubile, in quanto il bambino rimane là, nella sua stessa individualità, come il pegno dell'irreparabile e indivisibile unione.
Egli è il segno indelebile di ciò che la ragione amante dell'unità e dell'eternità ha voluto, di concerto con la passione genuina, la quale non anela ad altro che a essere esclusiva e perenne.
Tale ragione ha segnato col suo sigillo l'opera generata.
E siccome il bambino ha in sé l'infinita potenza di sviluppo che desume da quegli stessi di cui rappresenta un primo compimento, egli resta per loro il mezzo permanente, attraverso l'educazione che essi gli danno, per avviarsi al loro destino.
Nei suoi confronti essi hanno un dovere illimitato, una responsabilità imprescrittibile, un vincolo indistruttibile, perché si tratta di formare la sua ragione e di realizzare in lui all'infinito ciò che hanno di meglio in sé.
Elevandolo al di sopra di loro, essi elevano anche se stessi.
Sono superiori e subordinati al bambino sul quale conservano l'autorità, ma al quale debbono dedicarsi.
Infatti da loro egli riceve quello che bisogna perfezionare in lui.
E a lui, come al loro fine, essi relazionano il loro proprio perfezionamento.
Da questo esame risulta che l'amore procede dalla volontà individuale, anche se trascende l'individuo; che esige una generosità e un'abnegazione talvolta eroiche, ma non per questo è contrario al disegno di colui che vi si sacrifica; che come motivo e come giustificazione ha un fine più alto e più remoto dello scopo palese del primo desiderio, senza tuttavia che l'attrazione di cui è insignito costituisca, per così dire, un'astuzia ingannevole e un crudele artificio della natura.
Indubbiamente se fosse « il genio della specie » che con il fascino di un effimero piacere inganna l'individuo, nascondendo sotto una risposta immediata di vita e di felicità una realtà di dolore e di morte, il pessimismo avrebbe un fondamento.
Tutto quello che si è detto sui profondi calcoli dell'istinto della razza è giusto.
Ma questo movimento impetuoso parte da più lontano per andare più lontano di quanto si sia intravisto.
Lo zampillo dell'amore scaturisce dalla volontà più intima in ciascuno.
E se anche questo flusso è trascinato dal suo stesso impeto al di là del termine dapprima bramato, questa pristina volontà rimane sempre coestensiva a tutta la sua espansione, persino se imprevista.
L'amore va al di là della persona, al di là della specie, all'infinito.
Ma non perché conduce la vita individuale a fini ulteriori, senza mai bloccarne l'espansione, è necessario ritorcersi col pessimismo contro il misticismo dell'amore, il quale non è altro che una trappola.
Quindi non si tratta di un volere impersonale e oscuro, che non solo sarebbe estraneo e ignoto a coloro che muove grazie a una fatalità istintiva, ma sarebbe contrario a essi e mortifero.
Si tratta di una volontà profondamente personale, che la riflessione può illuminare senza cambiarne la natura e senza sconfessarne il senso, di una volontà che non si limita a lavorare ciecamente soltanto per la specie, ma che serve insieme gli interessi dell'individuo e quelli della specie, perché non si ferma neppure ai confini della specie, e al termine estremo della sua espansione aspira a confondere i suoi fini personali con i fini universali.
Perciò vi è continuità e coerenza nel suo sviluppo.
La volontà solitAria ha abbracciato un'altra volontà; essa fonda la famiglia, la vuole, e la vuole una, fissa, permanente.
Quindi non vi è nulla di artificiale in questa prima società, tipo e origine di tutte le altre.
Rimane da vedere che la famiglia sociale e la famiglia umana sono ugualmente conformi al disegno della libertà, e che per quanto vaste siano queste vite composte, rientrano anch'esse nel piano sempre allargato dell'azione volontaria.
II.
I - Per il bambino non c'è veramente che una famiglia, la sua.
Essa gli sembra incomparabile, unica.
Le altre non esistono che nella misura in cui si relazionano a questa sola, o meglio non esistono ancora.
È dunque in questo ambito ristretto che in un primo tempo egli impara a conoscere vite diverse dalla sua, vite che appartengono ancora a lui, e che egli quasi non distingue dagli interessi del suo egoismo ingenuo; perché non si sbaglia affatto rendendosi in un certo senso il centro di questo piccolo mondo che anima con la sua presenza.
In tale contesto fa veramente l'apprendistato del nostro e del noi.
Per questa via giunge alla coscienza, alla volontà, all'amore devoto per una società più larga.
Peraltro bisogna notare che l'accesso alla vita sociale presuppone più i sentimenti filiali o fraterni che l'affetto coniugale.
E proprio perché la famiglia è un gruppo chiuso ed esclusivo, essa funge in tal modo da scuola preparatoria alla vita collettiva, di cui costituisce la cellula elementare.
Essendo chiusa, concentra e perfeziona il sentimento di affetto reciproco, prima che si trasferisca, a dire il vero con tutt'altro profilo, in un contesto più ampio, ma ugualmente chiuso, cioè la città o la patria.
L'istante in cui il bambino percepisce nettamente che lui, ossia la sua famiglia, non è solo sulla terra, che vi sono altre famiglie come la sua, che tutti gli interessi del mondo non ruotano intorno a questo centro unico, che esistono altre persone capaci di avere anche i loro affetti, il loro orizzonte precipuo, la loro vita separata, è un istante decisivo nella storia del suo pensiero e del suo cuore.
Non v'è dubbio che prima di avere questa sensazione egli lo sa già.
Ma invece di considerare gli uomini, per così dire, dal di dentro, attribuendo loro il proprio bisogno di essere un centro di prospettiva e di azione, egli li vedeva ancora solo dal di fuori, senza realtà intima.
Felice infanzia, che consente una fioritura più ricca del cuore, e si prolunga per le nature amanti e nelle famiglie eccezionali, in cui è più legittima l'illusione che nessuno è simile a coloro che circondano il focolare domestico; fino al giorno in cui, per una rivelazione inattesa che si attua in ciascuno per una via differente, il cuore affranto, ma intenerito e allargato, si espande su altre case e abbraccia altre vite.
Inizia l'adolescenza, quando per la prima volta ci si può rivolgere, come Tolstoj grandicello, questi interrogativi ancora infantili: « Di che cosa possono occuparsi tutte queste persone, dato che non prestano alcuna attenzione a noi e non sanno neppure della nostra esistenza?
Come e di che cosa vivono? Come educano i loro bambini?
Fanno impartire loro delle lezioni? Li fanno giocare? Come li chiamano? ».
Sarebbe un errore immaginare che, diventando grandi, a poco a poco il cerchio del focolare domestico si riformi intorno all'altare della patria.
Il sentimento nazionale non si manifesta così, né nella costituzione storica dei popoli né nel risveglio di ogni coscienza individuale.
Perché in effetti, in fondo in fondo ai nostri affetti, la patria è altra cosa da una famiglia accresciuta, e il movimento da cui emana l'organismo morale della città è totalmente originale.
Indubbiamente la nazione desume i suoi membri dalla famiglia.
Ma come in una combinazione chimica, in cui gli elementi, sebbene presenti, sono trasfigurati nella nuova unità del composto, la vita individuale, la vita di famiglia, senza perdere il loro vigore naturale, sono trasformate nel cuore della nazione in cui si riparano.
Quindi per studiare la società non bisogna partire dagli elementi, ma dal gruppo stesso.
Come si forma un popolo? Perché gli uomini sono indotti a mettere insieme le loro idee e i loro affetti nel crogiolo della grande comunità sociale?
Perché questo carattere di un'unità delimitata e questa chiusura delle frontiere?
In che modo la volontà profonda di ciascuno produce questa estensione ristretta, così da ratificare al tempo stesso l'ampiezza e la ristrettezza della vita nazionale?
Qui sta veramente il problema.
Se il vincolo che unisce i membri di una stessa patria non è più della medesima natura di quello che stringe e lega la famiglia, allora la solidarietà dei cittadini non si spiega certo con un'estensione dei rapporti domestici e dei legami del sangue.
hi non sa con quanta facilità si allentano queste relazioni della famiglia e come addirittura, non contente di spegnersi, si trasformano facilmente in ostilità e in rancore!
Nel corpo di tutta la nazione circola una stessa vita e una stessa volontà, come in un organismo unico di cui tutte le parti sembrano legate da un reciproco rapporto di finalità.
Ciò quindi significa che, se la famiglia è l'elemento sociale, la nazione però non è un semplice irradiamento e quasi un prolungamento della società domestica.
Essa infatti forma una sintesi, per così dire, omogenea, dal parente più stretto fino al compatriota più lontano.
Sicché nelle parti più distanti, come alle frontiere del corpo, risiede la sensibilità più viva.
E la dimostrazione sicura che la patria è un organismo peculiare sta nel fatto che il raggio che si diparte dalla volontà bramosa di estendersi, invece di propagarsi al di là dei limiti della città, comincia a riflettervisi e a ritornare su se stesso, quasi si fosse imbattuto nel termine cui tendeva.
Il patriottismo precede il sentimento dell'umanità o oltrepassa gli affetti della famiglia, come una sintesi originale e peculiare tra i due.
Talvolta sembra persino che sia loro contrario.
A quale bisogno corrisponde questa costruzione dell'unità nazionale, e questo perimetro della patria?
- Ci si spiegherebbe il cuore a cuore nello scambio di due vite che si compenetrano e che ne riscaldano altre al loro focolare.
Ci si spiegherebbe il tutti a tutti nella sconfinata fraternità degli affetti imparati nel centro della famiglia.
Ma come far posto, nel frattempo, e come trovare giustificazione per questa federazione già generale ma ancora ristretta formata da una nazione?
Non è una costruzione artificiale? E come pretendeva non molto tempo fa un cosmopolitismo invadente, non è un pregiudizio destinato a sparire, una superstizione secolare, una meschinità di mente e di cuore?
Oppure questo amore geloso per il proprio paese si fonda su una volontà profonda, su un bisogno naturale e duraturo della nostra umanità?
Indubbiamente è difficile determinare ciò che istituisce la patria.
Non è soltanto la famiglia ingrandita, la razza o l'etnia comune, né la configurazione di un medesimo suolo, né il vantaggio di uno stesso clima, di uno stesso tipo, di una stessa lingua, di una stessa legge, di una stessa tradizione.
Perché, al di là del fatto che certi popoli non presentano questo concorso di circostanze favorevoli, senza per questo cessare di essere un popolo solo, grazie alla simpatia e alla dedizione di tutti a tutti, queste condizioni hanno a che vedere solo con le modalità esteriori dell'attività umana.
Ora la vita sociale non costituisce solo uno scambio regolato di interessi, non è limitata ai fenomeni economici, non rimane estranea all'intimità degli affetti e non resta neutrale nell'ambito riservato delle coscienze.
Fintanto che un popolo non è uno a livello di pensiero, non è un popolo, ma un conflitto equilibrato di appetiti e di cupidigie.
Per esso il tutto non sta nel conservare e riconquistare l'integrità del suolo.
La coesione materiale e la solidità esteriore di una nazione è solo un effetto di cui bisogna scoprire la causa nella volontà di ciascuno di coloro che la compongono.
Infatti perché sia davvero una sintesi omogenea e un organismo vivente, occorre che l'azione individuale abbracci in qualche modo l'azione comune; occorre che tutto il popolo si muova, per così dire, nel cuore e nell'amore disinteressato di ciascun singolo; occorre che il cittadino, partecipando all'autorità come all'obbedienza, abbia una volontà che coincida con l'espansione collettiva e che fondi perennemente la sinergia nazionale.
È dunque nell'intimità della vita personale che bisogna cercare, qui come altrove, il segreto della vita sociale, chiedendoci come siamo indotti a volere la cerchia della città, le frontiere inviolabili della patria.
Perché esistono queste società parziali che nella specie umana formano delle individualità composte, ciascuna con la sua fisionomia propria e col suo carattere ben definito?
Per quanto ingrandita sia l'azione, è sempre la stessa volontà che ne anima tutta l'espansione, e che si estende per meglio ritrovare se stessa dopo ogni nuova uscita.
In altri termini il movimento centrifugo ha il suo senso e la sua ragione solo grazie al movimento centripeto, che riferisce al volere originario ciò che anelava raggiungere, proprio perché non lo possedeva e non lo era ancora.
La prima preoccupazione della volontà, per quanto ampia già la supponiamo, è di corroborarsi dopo ogni conquista, e di escludere in un primo tempo proprio ciò che è destinata ad acquisire più tardi.
Essa si apre solo per assorbire e per rinchiudersi.
Evidentemente in un primo tempo non vogliamo avere tutto, per meglio sentire ciò che possediamo, e per avere ancora al di fuori di noi qualcosa di cui arricchirci.
Ciò che l'individuo non può prendere o conservare da solo, lo prende, lo conserva e lo assimila tramite il potente organismo della città.
Ma per sapere che lo possiede, per godere della sua nuova estensione, occorre che respinga almeno provvisoriamente ciò che non ha ancora assorbito nella sua vita.
Pertanto il fascino, la forza, l'incomparabile saldezza del vincolo coniugale consistono nel fatto che escludono dall'abbraccio amoroso tutto l'universo.
Tale unione ha come prezzo l'isolamento rispetto alla molteplicità circostante di coloro che coinvolge.
La sua realtà concreta e viva è di essere un'astrazione e quasi una protesta contro la banalità della folla.
Per il sentimento nazionale avviene esattamente così.
Non si forma un concerto con un solo suono.
Perché vi sia una società umana occorre che ve ne siano parecchie, ognuna con i suoi attributi individuali o la sua differenza specifica.
La pluralità delle città è analoga alla pluralità delle persone, alla ripetizione particolare della stessa vita e della stessa volontà comune, possedendola ciascuno interamente in sé.
E siccome la natura si diletta a moltiplicare, variandoli, gli esemplari di un medesimo tipo, le azioni umane la imitano su questo punto.
O meglio, come un movimento genuino della volontà ci ha portato a desiderare che vi siano al di fuori di noi una o più volontà che si uniscano e si identifichino con la nostra pur restando distinte, così vogliamo che vi sia una città, che sia limitata, e che al di fuori delle sue frontiere vi sia un mondo straniero.
Quindi l'unità della patria, a esclusione di tutte le altre società, non rappresenta uno stadio transitorio e artificiale.
L'orgoglio del cittadino, che mette il suo paese a parte e al di sopra degli altri, è un sentimento naturale.
Come ciascuna coscienza conserva in sé il segreto di ciò che la rende unica e incomparabile, ciascuna patria, vissuta e amata dal di dentro, possiede un fascino al quale necessariamente gli stranieri restano estranei.
O meglio per ciascun uomo c'è solo una patria, e questo nome non possiede il plurale.
Pertanto il carattere sempre singolare della vita si deve ritrovare nella scienza sociale, perché sia una scienza.
Omne individuimi ineffabile.58
La vera ragion d'essere della storia è di determinare l'originalità di ognuna delle sintesi viventi generate dal movimento della vita generale.
In forza di ciò, essa si raccorda saldamente con tutte le scienze, già meglio organizzate, che definiscono il concatenamento dei fatti e l'eterogeneità degli esseri che studiano.
È un'evoluzione globale a creare le razze, più che le razze non contribuiscano alla formazione delle nazioni.
Come si costituiscono diversi casi di equilibrio stabile?
E qual è il genio unico, l'opera peculiare, l'organizzazione incomparabile, la fisionomia completamente nuova di ciascuna nazione?
Ecco il problema storico.
Perciò non parliamo, col pretesto dell'imparzialità scientifica, di fare astrazione dai sentimenti che fanno battere il cuore di un popolo: la storia più autenticamente patriottica è la più rigorosamente scientifica.
Quindi ogni popolo ha un'idea e un sentimento da far vivere nel mondo.
È la sua ragione, la sua missione, la sua anima.
Anima mortale, talvolta morente per mancanza di azione comune, ma anima capace di risorgere, anzi imperitura, se l'idea di cui vive è di quelle che toccano gli interessi permanenti o la coscienza sacra dell'umanità.
Vi sono popoli dispersi e quasi in decomposizione che conservano un'indistruttibile vitalità, grazie all'idea di cui sono depositari e che si è impressa nella loro carne, o alla fede che li ispira e il cui ardore si è amalgamato col loro sangue.
Per quanto fiaccati siano, portano nel loro seno ferito un'inesauribile potenza di rigenerazione.
La grandezza e la durata dei popoli dipendono dal ruolo che sono chiamati a svolgere.
A ciascuno la sua opera.
Ciascuno, come un organo nel grande corpo dell'umanità, assorbe il pensiero delle altre nazioni in base al proprio genio, e lo restituisce alla circolazione come una nuova ricchezza, differente in ciascuno e comune a tutti.
Non che questo sviluppo storico delle nazioni e delle razze si compia con l'infallibile spontaneità dell'istinto.
Non si tratta affatto soltanto di quella vita confusa, che vegeta in seno alle masse popolari.
La storia umana non è una storia naturale in senso stretto.
In altri termini, al di là delle forze indistinte che agitano le grandi correnti dell'umanità, la riflessione e la libertà sono potenze originali, capaci di penetrare profondamente come fattori essenziali nel destino dei popoli.
Siano esse cause di perturbazione o di risanamento, di promozione o di dissolvimento, le idee e le azioni riflesse, le istituzioni e le rivoluzioni, anche in quello che hanno di arbitrario, esercitano un'influenza sicura sul cammino delle società.
Come si è superficiali a credere, senza mettere in conto il ruolo giocato da cause anonime, che le gesta, le parole e i decreti degli attori principali dirigano il mondo, così è errato trascurare quello che avviene nella regione delle decisioni deliberate, dei grandi eventi e persino dei capricci.
Un metodo storico che, col pretesto di non abbandonare il terreno delle realtà viventi, escluda quali semplici risultati astratti le codificazioni positive e le teorie dei giuristi, cade nel medesimo errore di una psicologia per la quale l'atto cosciente non è che un'escrescenza inutile in rapporto alle sue condizioni elementari.
Dunque la coscienza nazionale è una forza la cui efficacia cresce man mano che ne penetriamo maggiormente le ragioni profonde.
Non è uno di quei sentimenti che bisogna evitare di guardare in faccia, come se vederlo qual è significasse violarlo e perderlo.
Indubbiamente i progressi della riflessione o il bisogno di uno sviluppo più ampio hanno potuto compromettere il culto della città.
Ad alcuni questa forma dell'amore, della dedizione e dell'eroismo chiamata patriottismo sembra poggiare solo su un'illusione, rispettabile ma effimera.
Ma una riflessione più approfondita restaura questo sentimento spontaneo giustificando l'istinto del cuore.
Anche dopo esserci educati a una comunione più larga con tutta l'umanità, a un sentimento di solidarietà universale, che l'antichità ha intravisto a stento e che è comparso molto tardi nella storia delle idee morali, rimane vero che le frontiere della nazione sussistono e devono sussistere.
Lungi dall'escludere un bisogno d'affetto più generoso, il patriottismo lo prelude, come l'attaccamento alla regione nativa, al campanile, alla casa prepara e riscalda l'amore per la grande patria.
Qui dunque ritroviamo di nuovo la legge di cui abbiamo rilevato l'applicazione in tutta la sequenza delle sintesi che l'azione ha formato nella sua espansione, e il cui senso si chiarisce a poco a poco.
Ogni volta che la volontà si è proposta un nuovo fine, è stata indotta a considerare come insufficienti o persino illusori i fini antecedenti cui si era fermata.
Ma approdando al termine agognato, si accorge che anche questo nuovo fine è transitorio.
Ormai si rende meglio conto che le tappe pregresse, nonostante l'instabilità che vi ritrovava, erano condizioni necessarie, e costituivano punti relativamente fissi nel progresso della sua espansione.
Perciò si avvede che, lungi dall'escludersi, le sintesi successive, che solitamente parevano contraddirsi, si presuppongono, che ognuna è a un tempo un fine e un mezzo, e che in tutte c'è un sistema fissato, un carattere originale, una determinazione precisa. Sicché si procede da una di queste sintesi a un'altra unicamente passando da un equilibrio stabile a un altro equilibrio stabile.
In effetti nell'organizzazione della vita o dell'azione c'è progresso possibile solo se ogni punto successivo fornisce un solido appoggio, e se a ogni grado dello sviluppo il sistema costruito è qualificato non dall'addizione delle parti ma da una nuova idea d'insieme.
Di qui il bisogno di inserire in ciascuna forma della vita personale o collettiva una parvenza di assoluto.
Come per istinto si attribuisce un carattere sacro al vincolo nuziale, quasi per assicurarne la solidità, allo stesso modo per istinto si consacra anche la patria, si santifica la bandiera.
Come se il perimetro della città inglobasse il cielo e la terra, e il cielo più ancora che la terra.
C'è quindi una specie di misticismo spontaneo che permette alla volontà di fermarsi a tappe successive, come se ciascuna fosse il fine.
Infatti essa mette in ciascuna, almeno provvisoriamente, l'illusione dell'infinito nel finito stesso.
Perciò la città è costituita non come un corpo amorfo o come un organo di transizione nell'evoluzione generale della vita sociale.
Essa ha una relativa sufficienza, un'organizzazione necessaria.
Per questo, lo vedremo meglio, essa non nasce da una convenzione più o meno arbitraria, non dipende dal capriccio dei membri che la compongono, e al suo interno l'autorità è indispensabile per rispondere al bisogno che per la sua missione è chiamata a soddisfare.
Il potere, che ne è il vincolo sintetico e quasi « la forma sostanziale », rimane l'espressione della volontà profonda che fonda la stessa nazione.
E la forma politica nella quale l'autorità viene esercitata rivela l'azione particolare delle circostanze e delle libertà umane nella tradizione della vita nazionale.
Una società quindi non è mai una società qualunque, perché si fonda sempre su un sentimento molto particolare e su una volontà assolutamente concreta.
La prima verità sociale, quella stessa da cui dipende la sociologia, pone in linea di principio l'originalità storica e il carattere individuale di ogni organismo nazionale.
Di qui discendono le leggi generali che governano l'organizzazione delle società umane e i principi astratti del diritto pubblico.
II - Grazie allo sviluppo spontaneo della vita collettiva, tra l'individuo e il gruppo totale di cui fa parte si costituiscono uno o più sistemi di forze di bilanciamento.
Come nel corpo vi sono gli organi, nella società vi sono le associazioni organizzate e viventi.
Questi organi elementari mostrano meglio di qualsiasi altra cosa quale differenza di natura sussiste tra la famiglia e il corpo sociale.
Infatti questi elementi della vita collettiva, costituendosi talvolta sotto i nostri occhi, ci rivelano una legge di formazione del tutto opposta a quella della società domestica.
Nel da solo a solo dell'amore si effonde e si moltiplica l'unità feconda di una duplice vita.
Nel tutti per tutti dell'associazione o della patria la molteplicità si concentra in ciascuno, e la sintesi totale si incarna nell'ultimo dei suoi elementi, comunicandogli la sua forza e la sua dignità.
Pareva che la dedizione patriottica facesse dell'individuo un mezzo, essendovi un fine comune e superiore.
Ma ci accorgiamo che in fondo la relazione è inversa, e che il tutto è un mezzo per ciascuno dei suoi membri.
Capiamo adesso a quale anelito segreto del volere personale corrisponde l'immensa crescita che esso trova nella vita sociale?
Perché esso diventa ciò che questa è.
E che la società non sia un meccanismo artificiale è dimostrato dal fatto che, anziché creare un antagonismo tra il tutto e le parti, il progresso della vita sociale deve estendere al tempo stesso l'azione dello Stato e l'iniziativa individuale.
Nella società ciascuno possiede in sé ciò che sono tutti insieme.
Anche qui l'idea dell'insieme qualifica la natura degli elementi.
Ma al tempo stesso il principio della sintesi si trova integralmente al fondo di ciascuna volontà personale.
Nessuno ha bisogno di uscire da sé per scoprirne la presenza e l'efficacia.
La forza che rende attuale la società, e attraverso essa ogni cittadino, è presente in ciascuno.
Da questa verità concreta scaturiscono come corollari necessari le stesse condizioni della giustizia sociale e dell'organizzazione politica.
Indubbiamente, qui come ovunque, la libertà introduce elementi di disturbo infinitamente vari.
Ma è ancora possibile eliminare la variabile per considerare solo ciò che non viene violato, in ciò che può esserlo, e ciò che rimane conforme alla logica della volontà umana, in ciò che viene violato.
Sotto le aberrazioni più rivoluzionarie esiste una norma latente e un principio d'ordine.
È questo determinismo dell'azione voluta che bisogna recuperare nello sviluppo articolato della giustizia sociale e del potere politico.
- Dal momento in cui, per essere meglio me stesso e per diventare più uno, non posso rimanere solo, ho l'esigenza che un principio di pace e di armonia presieda alla cooperazione sociale.
Chi vuole il fine vuole i mezzi.
Quindi evocando l'azione collettiva io istituisco, qualunque ne sia la forma vaga o precisa, una forza centrale capace di rappresentare l'intera comunità di cui è quasi la coscienza.
Siccome nella società tutti sono per ognuno, ho bisogno di un'espressione, qualunque sia, di questa sollecitudine universale per me soltanto.
L'idea di una protezione penale, il sentimento di una sanzione sociale, il bisogno di un potere armato di giurisdizione e di forza coercitiva è essenziale alla vita comune.
E tale necessità è fondata sulle stesse esigenze della volontà personale.
La società evidentemente si costituisce sotto l'azione di un fine trascendente l'individuo unicamente per procurare all'individuo la garanzia di questo potere superiore di cui ciascuno beneficia.
Ma bisogna stare attenti a non snaturare questa giustizia sociale e a non pervertire il carattere inevitabilmente relativo del diritto penale umano.
Anche se è impossibile riuscirvi, nulla è più pericoloso e più ingiustificato della pretesa di stabilire una proporzione esatta tra il castigo e la colpa morale.
Per esempio c'è un modo di legittimare la pena di morte che, col pretesto della giustizia e della moralità, la rende sanguinaria e barbara.
Perciò, per diradare la confusione delle idee correnti, è importante non complicare in maniera maldestra il problema, e mettere da parte qualsiasi considerazione estranea all'ordine di competenza della giurisdizione umana.
Senza dubbio accanto all'atto bruto e al danno materiale causato dalla colpa, bisogna tener conto di un altro elemento, che per opposizione possiamo già qualificare come morale.
Ma è questo aggettivo che si presta all'equivoco.
Infatti non si tratta di apprezzare il valore assoluto né dell'atto né dell'intenzione, ma si tratta della difesa pubblica, dell'interesse generale, della vita comune.
Ora l'interesse collettivo non investe soltanto l'aspetto materiale dei fatti, proprio perché la società non è un semplice sistema di fenomeni economici o politici.
Perciò quando si parla del carattere morale che deve rivestire il diritto penale bisogna intendere unicamente che qui la colpevolezza non è altro che una funzione del pericolo sociale; che le circostanze attenuanti, aggravanti o assolutorie non possono essere valutate che dal punto di vista della protezione comune; e che invece di preoccuparsi di una giustizia assoluta, di una libertà ideale e di una responsabilità perfetta, si deve semplicemente definire in quale misura l'azione incriminata, procedendo da una decisione riflessa e concernendo quindi ciò che costituisce il vincolo delle volontà, assume un carattere contagioso, imitabile, dissolvente per la vita collettiva.
Dunque ciò che è essenziale e legittimo in questa sede è il bisogno della società di conservarsi.
Non serve a niente sollevare davanti al giudice il problema metafisico della libertà.
Infatti, se egli è autorizzato a condannare, ciò non avviene in nome di un'equità superiore che non è affatto impegnato a far regnare.
Proprio in questo contesto il meglio è amico del peggio.
No, non si giudica il valore intrinseco dell'accusato.
Questa sarebbe una giurisdizione temeraria e colpevole, e sarebbe oltretutto odiosa, perché non potrebbe perdonare neppure nel caso di un pentimento profondamente sincero e assolutamente purificatore.
Dunque ciò che vi è di assoluto nella giustizia umana è il fatto che essa è relativa alle esigenze della coscienza e della vita comune, in una cultura e in un'epoca determinate.
In ogni configurazione dello stato sociale si determina un tipo dell'uomo onesto, e si producono necessità particolari di difesa generale.
È questa la norma vivente e flessibile che conviene applicare alla mobilità dei fenomeni sociali, e che più o meno si applica, qualunque cosa si faccia o si voglia.
- Allo stesso modo ciò che vi è di assoluto nell'organizzazione politica è il fatto che essa è relativa allo sviluppo storico e alle tradizioni particolari, peraltro sempre perfettibili, di una società concreta.
A quale bisogno profondo corrisponde l'ambizione politica del cittadino?
E in che modo il potere civile può essere costituito, perduto o trasmesso?
La volontà suscita la vita sociale grazie al suo espandersi necessario cui si acconsente.
Ora nessuna società è possibile senza un'autorità che sia come il motore e il regolatore di questa grande macchina.
Quindi società e autorità sono al di sopra degli attacchi dell'arbitrio umano.
Ma proprio perché corrispondono a un'aspirazione fondamentale dell'uomo, l'uomo determina l'esercizio del potere pubblico.
Egli ne designa, o ne accetta, o ne diventa il titolare.
L'investitura politica rientra nel diritto nazionale.
E qui sta il punto delicato.
Infatti se l'autorità è necessaria a ogni società, è necessario che il potere sia costituito.
Il popolo non ne ha affatto il libero deposito, occorre che si stabilisca un governo.
E se la costituzione del potere poggia su una base di libera opzionalità, al tempo stesso rimane vero che l'autorità permane necessaria anche nella sua forma arbitraria, e che questo potere è sempre perfettibile, sebbene sia intangibile nel suo fondo.
Ecco dunque le conseguenze che si concatenano, nonostante le apparenti opposizioni.
La società è voluta e necessaria.
L'autorità è voluta e necessaria.
Esse sono al di sopra di qualsiasi volontà umana.
Spetta al concorso delle volontà umane riconoscere o ratificare il potere.
È impossibile che il concorso delle volontà umane non riconosca o non ratifichi un potere.
Il potere è al tempo stesso superiore e subordinato alla nazione. Quello è fatto per questa, non questa per quello.
Siccome l'autorità ha ragion d'essere solo per il bene comune, la nazione può trasferire in altre mani un potere che viene meno ai suoi obblighi.
Questo diritto in linea teorica è certo.
Di fatto, siccome il disordine sociale è il peggiore dei mali, siccome il diritto di stabilire o di trasmettere l'autorità risiede non suddiviso in ogni individuo, ma indivisibilmente nell'unità del corpo sociale, siccome tutte le generazioni sono solidali, la tradizione rappresenta un'eredità nazionale contro la quale le proteste brusche e le decisioni improvvise sono dannose e spesso perniciose.
Nel diritto pubblico come nel diritto privato la prescrizione è rispettabile.
E al di fuori dell'elezione, che è la maniera innocente di stabilire il potere, la stessa usurpazione, perdendo il suo carattere odioso, diventa legittima con l'andare del tempo e col consenso del popolo.
Non è la legge dei numeri che crea la legge e il diritto.
È dunque sbagliato pensare, con Rousseau, che « il sovrano per lo stesso fatto di essere, è sempre quello che deve essere ».59
L'autorità è superiore a tutti esattamente perché il bisogno di autorità scaturisce da ciascuno.
In un corpo la testa è fatta per le membra senza cessare di essere il capo.
Nella vita politica il potere a motivo della sua origine è al di sopra di quegli stessi che l'hanno costituito.
Infatti esso non è la somma delle volontà individuali o l'espressione delle forze comuni.
Non è revocabile ad nutum.
Non è una semplice delega, ma una potenza regolata e regolatrice che rimane proprietà personale di ciascuno anche quando è esercitata da uno solo.
E come una volontà coerente esige l'unità e l'indissolubilità della vita domestica, allo stesso modo quella potenza tiene in piedi il fatto sempre singolare delle istituzioni pubbliche, senza dubbio riformabili e in perenne movimento, ma al di sopra degli attacchi legittimi di ciascuno di coloro che le animano con il loro volere.
Perciò il potere non è ne una somma di volontà arbitrarie, ne una formula astratta applicabile indifferentemente a tutti i popoli.
Esso ha sempre assunto una forma concreta, e rimane sempre fondato su una volontà antecedente alle convenzioni artificiali e mutevoli.
Pertanto anche l'organizzazione politica e la giustizia sociale, che compongono e assicurano la vita nazionale, non fanno che manifestare un volere intimo e assolutamente personale.
Infatti grazie a esse la forza intera del corpo pubblico è a disposizione di ciascun membro, anche il più infimo.
Lo Stato in un primo momento è un fine rispetto all'individuo soltanto per essere, in seguito, un mezzo.
Se ciascuno deve vivere e agire per tutti ( è la forma embrionale della città, che a torto il socialismo presenta come la perfezione della vita politica ), significa che ciascuno vuole che tutti si adoperino e si concentrino in ciascuno.
Nello stesso modo in cui nel sistema organico una cellula è un fine per tutto il resto al punto che una puntura basta a scombussolare tutto il meccanismo, così in una società ordinata c'è una solidarietà tale che il più umile cittadino porta in sé, interi, la dignità, la potenza e l'egoismo molteplice del corpo sociale.
E siccome la volontà sociale è tutta in ciascuno, si ha come risultato che ogni forma politica può ugualmente organizzarsi e ugualmente giustificarsi.
La differenza dei costumi, dei climi e delle circostanze rende inevitabile la varietà, e non si ha un concerto con un solo suono.
Risieda esso effettivamente in uno solo, in parecchi o in tutti, il potere ha sempre il ruolo di assicurare nella nazione la solidarietà e la comunione più intima delle parti.
Esso deve e può sempre essere in uno ciò che sarebbe in tutti.
Tuttavia proprio in ragione di questa presenza multipla del principio sociale in ogni volontà i bisogni, a lungo segreti, vengono alla luce a poco a poco.
Man mano che la coscienza collettiva si risveglia in ciascuno con maggiore lucidità, nelle masse popolari si opera un profondo lavoro di crescita.
Senza dubbio la coscienza comune compare anzitutto nella testa dell'organismo politico, prima che si diffonda per tutto il corpo.
Che grande dedizione dei cuori a uno solo, e quale fremito d'amore attraversa talvolta i popoli saggi sotto lo sguardo del capo amato!
Che valore straordinario sembra avere la minima parola dello zar che investa il misero mugiko!
Ma anche quanto il sentimento della dignità, l'apprezzamento del ruolo, l'altezza del potere ampliano lo sguardo, allargano gli affetti, contribuiscono alla lucidità di un'intelligenza e al calore di un'anima che sa essere il cervello e il cuore di un popolo sterminato!
E come se il capo, da solo, amasse in maniera più elevata e più profonda di tutti insieme, da quest'altezza l'affetto più semplice e più mite sembra defluire con una forza sovrana.
Ma questo sentimento di dedizione reciproca non può essere ispirato e ricevuto da un solo uomo; ogni cittadino può farlo, quando nel membro del corpo sociale sa vedere e amare l'anima comune che vive in tutti.
Quindi la coscienza nazionale non è una somma di frazioni.
Il cittadino è la città vivente.
In lui risiedono virtualmente la potenza e l'azione di tutti.
Per questo in realtà ciascuno aspira a essere anche lui la testa e il cuore del grande corpo di cui veicola in sé tutta la sostanza.
Se il concorso delle volontà lo eleva all'autorità, non per questo egli riceve un mandato imperativo, non è il totale astratto di un'operazione aritmetica, ma diviene in atto ciò che era in potenza.
Per una specie di naturale grazia di stato e per le risonanze in lui della vita generale il capo, avendo coscienza di essere il referente di tutto un popolo, sembra elevato al di sopra di se stesso.
E tuttavia la sua autorità ha sempre un'altra fonte che non sia l'addizione dei suffragi popolari.
Il suo ruolo è di prendere un'iniziativa personale.
Tanto più che l'uomo più mediocre è capace di una visione più lucida, di una decisione più illuminata, di una continuità d'azione più reale che non questa somma di volontà individuali di cui a torto si vorrebbe fare l'espressione della coscienza sociale.
Così la volontà del cittadino anima e assorbe in sé l'intero organismo sociale.
Essa ne determina il carattere sempre concreto, ne forma una sintesi originale come lo sono le specie viventi e le razze peculiari nel mondo animale.
E ciascuna società, qualunque sia l'unità di origine o le leggi generali che la reggono, è una nazione peculiare.
È la patria, perché deriva da un amore personale di ciascuno dei suoi membri, e perché l'amore investe sempre ciò che è unico.
Senza dubbio la vita nazionale si prolunga al di là delle frontiere.
Per essa, come per ogni organismo, le funzioni di assimilazione e di differenziazione costituiscono un principio di perenne rinnovamento.
E nondimeno rimane un'individualità specifica, anche di fronte a sintesi ulteriori e a nuove estensioni dell'azione umana.
III.
La volontà dell'uomo e la sua azione non si arrestano alle frontiere della patria.
Nel suo sciamare la città è il simbolo di questa vita interiore della volontà che si espande, senza che alcuna cerchia ne limiti l'espansione.
La legge dell'egoismo attivo e aggressivo è quella di contraddirsi e di ricredersi in qualche modo, per estendersi a ciò che prima pareva respingere.
Non è più sufficiente portare in sé quasi un'intera nazione e formare con essa un'anima sola.
L'uomo aspira, per così dire, a sposare l'umanità stessa, e a formare con essa una sola volontà.
La vita individuale tende dunque a identificarsi alla vita universale.
O meglio, è questa volontà generale e impersonale che sembra concentrarsi in ciascuna coscienza.
La stessa idea di un progresso o di un'evoluzione è la prova di questa crescente solidarietà.
Finché le generazioni e gli individui si sono giudicati indipendenti, è sembrato che il mondo invecchiasse e deperisse.
Certo, lo sembra ancora.
Ma comprendendo meglio che l'umanità è come un solo uomo che non muore, noi acquisiamo altresì sempre più il senso di una crescita e di un'unione reale.
Perciò lo stesso progresso della vita sociale sviluppa negli spiriti un nuovo sentimento dell' « umanità », un sentimento che, quasi sconosciuto nell'antichità nonostante le testimonianze di certe imprese eccezionali o qualche verso dei poeti, ha preso diritto di cittadinanza, se cosi possiamo dire.
Entrato ufficialmente nel concerto dei motivi che influenzano la condotta degli uomini e dei popoli, esso dirige l'opinione pubblica al punto di aver ispirato già una nuova forma dell'ipocrisia o persino un culto.
Per la filosofia antica lo sforzo supremo era stato quello di pensare, di definire e di volere la città.
Tutto è subordinato a essa, morale e religione.
L'ordine politico è il simbolo, o anche la realtà che contiene l'oggetto infinito della dedizione di tutti.
E nonostante qualche trascorso del cuore, il nemico cominciava alle porte della repubblica, come nella cerchia delle mura viveva l'estraneo indigeno, lo schiavo.
Forse in nessun altro contesto risulta più evidente la differenza tra lo spirito antico e lo spirito nuovo.
Per lo stesso Aristotele tutto risulta subordinato, come a un fine ultimo, alla politica, nell'ordine speculativo o pratico, morale o religioso.
La città non è un piano qualsiasi nell'edificio umano, è il coronamento di tutto.
E laddove noi non vediamo altro che un grado o un mezzo, egli trovava il termine supremo e la perfezione dell'attività umana.
In un solo popolo dell'antichità, il popolo ebraico, il culto patriottico coincideva con il culto religioso.
E tuttavia questo Dio eccelso, nonostante la gelosia sequestrante e l'esclusivismo passionale del sentimento nazionale che requisiva Dio, non è stato ridotto alle stesse dimensioni del « Popolo eletto », ne è stato riservato unicamente a esso per sempre.
Ma d'altra parte a quale condizione è stato possibile questo atteggiamento peculiare?
Alla condizione di anticipare un futuro di espansione universale, di considerare il presente, angusto e chiuso, come il simbolo e il germe di un enorme allargamento della coscienza, di veicolare in ciascuno degli atti della vita nazionale la promessa di tutta l'umanità futura.
Ma dopo questa infanzia del tempo e della storia in cui l'egoismo non vede che l'individuo, in cui l'individuo non conosce che la sua famiglia, ritenendola incomparabile e unica, in cui la famiglia delimita il suo orizzonte alla vita politica della città, le idee morali a poco a poco hanno fatto molta strada.
Senza rinunciare al patriottismo, e proprio per conservarne il sapore, è stato necessario imparare a essere più che un cittadino, in modo da gustare, da amare negli altri non il congiunto, l'amico, il compatriota, l'ospite, lo straniero o l'alleato, ma l'uomo che non possiede altri titoli che l'essere uomo; uno sconosciuto, un nemico forse, ma un uomo.
La ragione ha compiuto un grande atto e ha fatto un passo prodigioso quando ha avvertito che nello schiavo, nel selvaggio, nel povero, nel malato o nel debole c'è l'umanità stessa.
E quanti sono ancora incapaci di vederlo!
Per dirlo, lo dicono, ma lo sanno in modo astratto.
Probabilmente lo sentono, ma in essi questa volontà dell'umanità non arriva fino ai fatti, ai fatti congruenti con la conoscenza e con le parole.
Tuttavia, quali tesori di pace e di unione ci riserva il futuro!
Sembrava impossibile che si potesse liquidare la necessità sociale della schiavitù; eppure è stata liquidata.
Sembrava impossibile che proprio sui campi di battaglia si potessero avere dei riguardi nei confronti del nemico.
Invece, a poco a poco si è costituito un diritto delle genti che, per quanto possa essere violato, si impone al giudizio dei popoli.
Sembra impossibile che la guerra sparisca e si attui il disarmo.
Ma ancora una volta chissà quali tesori di pace e di unione ci nasconde il futuro, senza recare detrimento alla splendida diversità delle federazioni nazionali in seno alla confederazione umana!
In ogni caso, sotto questi sviluppi della coscienza riflessa, bisogna sempre identificare la volontà segreta che li anima.
Essi non sono altro che uno sforzo crescente per adeguarla.
Senza che neppure ne abbiamo un'idea precisa, o senza voler regolare la decisione sul sentimento che ne possiamo avere, l'azione umana implica di fatto la solidarietà tra gli uomini, ed esprime l'unità della specie.
Unità che, peraltro, è conforme a questa misteriosa continuità della generazione che fa scorrere in tutti lo stesso sangue, che in un bambino realizza in una sola vita la duplice vita dei genitori, che invece di dividerli li rinsalda moltiplicandoli, e li perpetua entrambi sotto le stesse specie corporali.
Pertanto l'azione, scaturita in un primo tempo dall'intenzione assolutamente personale dell'agente, a poco a poco si è incorporata la famiglia e la città, per prendere il volo nell'intera umanità.
Esigendo la solidarietà totale tra tutti gli uomini, essa diventa ciò che vuole essere.
E vuole essere per libera scelta ciò che è già sotto l'impulso del suo primo slancio.
Se quindi sembra che le venga imposto, come una legge, l'obbligo di erigere se stessa a massima universale, se a ciascuno si comanda di agire con l'intenzione di fare ciò che tutti devono fare, se bisogna avere il sentimento di veicolare nella propria azione particolare la volontà e l'azione degli altri, tutto ciò non è altro che la traduzione, non soltanto di ciò che deve essere per la volontà deliberata e voluta, ma di ciò che è già per la volontà volente e operante.
In effetti qualunque cosa facciamo, l'umanità è interessata all'azione di ciascuno come a un nuovo elemento dell'equilibrio generale.
L'azione di cui l'uomo si attribuisce la paternità è quella che potrebbe accadere a nome di tutta la specie.
Indubbiamente sembra strano dire che quando vogliamo e agiamo di fatto trascendiamo la famiglia e la città per investire e interessare dei nostri atti l'umanità.
Ma il fine ordinario delle decisioni consapevoli non appare fin dal primo momento, nel motivo che le determina, superiore a tutte le condizioni domestiche e politiche nel cui contesto si producono?
Se il sentimento pristino della libertà e del dovere implica l'idea di un fine trascendente in rapporto a tutti gli elementi inconsapevoli o consapevoli dell'azione, vuoi dire che l'azione stessa di fatto ingloba nella sua espansione reale più delle sue condizioni individuali o sociali.
Che lo sappiamo o meno, l'azione volontaria possiede una tale ampiezza che subito sfugge ai limiti della società domestica o politica.
Non possiamo, non vogliamo vivere soltanto per noi, soltanto per i nostri familiari, soltanto per i nostri concittadini.
Perciò, grazie alla forza del movimento ininterrotto che la trascina, l'azione supera ulteriormente anche la cerchia della federazione umana.
* * *
Mi propongo di studiare l'estensione dell'azione nel contesto universale che essa investe, e in cui cerca le risposte e le sanzioni alle quali aspira; e mostro come essa attraversa le diverse sfere morali, nelle quali di volta in volta si è preteso confinarla, come se vi trovasse la sua regola definitiva e il suo uso sufficiente.
- Esamino anzitutto quella che si potrebbe chiamare la morale del naturalismo, con l'intento non di confutarla, ma di far vedere ciò che vi è allo stesso tempo di giusto e di insufficiente.
- Poi indico come l'azione, trascendendo l'ordine della natura, sembra esigere un altro campo e quasi un altro mondo in cui esplicarsi e trovare soddisfazione.
- Infine, mostrando che questa morale metafisica non soddisfa ancora alle esigenze della volontà e non adegua l'estensione dell'azione, studio « la morale morale », quella che sembra unicamente preoccupata di definire le condizioni sufficienti e necessario dell'azione volontaria, indagando quali sono i postulati o le credenze indispensabili per fondare scientificamente la condotta umana.
Queste diverse forme della morale « naturale », che dal punto di vista dell'intenzione sembrano inconciliabili ed esclusive, tuttavia di fatto, e dal punto di vista dell'azione, sono conciliate e, per così dire, dislocate su vari piani.
Sicché, formulandole in presenza della coscienza riflessa, non si fa altro che analizzare in maniera sempre più completa il contenuto della volontà operante, finendo per mostrare, in questo capitolo, che essa eccede il dominio morale, per quanto depurato, ingrandito e sublimato lo supponiamo.
Qui il reale oltrepassa ancora una volta l'ideale, e il fatto attuale esorbita dal dovere formale.
56 | Le espressioni latine che ricorrono in questa pagina sono riprese dalla liturgia nuziale e dalla Bibbia ( Genesi, Salmi e Cantico dei Cantici ), e sono un segno della frequentazione che Blondel intratteneva con la liturgia, e in particolare con la liturgia delle ore, ossia il Breviario. Comunque l'espressione " Tenui eum nec dimittam ", che richiama il Cantico, ricorre in san Bernardo, De consideratione XIV, 30 ( cfr. Sancii Bernardi Opera, a cura di J. Leclercq, C. Talbot, H. Rochais, Roma, Editiones Cistercienses, 1957-1977, III, 492 ) |
57 | L'espressione è una ripresa di una formulazione-chiave del De Trinitate di Agostino, probabilmente per via non diretta, ed echeggia alcune formule della liturgia trinitaria; sullo sfondo c'è 1 Gv 5,7-9 |
58 | Questo adagio scolastico, usato assai correntemente, ricorre più volte nell'opera di Tommaso d'Aquino. |
59 | L'affermazione ricorre nel Contratto sociale I, 7. Peraltro sembra che l'appunto critico di Blondel sia poco pertinente al contesto di quell'affermazione di Rousseau. |
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