L'azione |
Agendo, l'uomo non limita il suo sguardo alla famiglia, alla città, all'umanità.
Egli proietta la sua intenzione ancora al di là.
Si inserisce nell'intero universo, come giustamente dicevano gli stoici.
In effetti l'azione volontaria investe il sistema totale, nel quale ha attinto i suoi elementi e nel quale intende regnare.
Perciò non sorprende veder convergere due tendenze in apparenza divergenti in questo bisogno di solidarietà universale: da una parte il disegno egoistico della volontà individuale che cerca sempre di riempire e di gratificare se stessa, dall'altra il movimento infinitamente complesso della vita generale, il cui enorme ingranaggio sembra frantumare tutti i fini particolari e le pretese dell'individuo.
Ma si tratta di un solo e identico movimento.
E anche qui, malgrado le fluttuazioni della libertà umana, malgrado la diversità delle concezioni, delle teorie o delle abitudini morali, un determinismo derivato dall'atto voluto, qualunque sia questo atto, svolge le inevitabili conseguenze delle premesse poste dall'azione stessa.
Come dunque l'uomo si eleva a un carattere sempre più disinteressato e morale?
Senza beninteso cessare, perdendo di vista se stesso, di lavorare nel senso autentico del suo destino, di concorrere al suo interesse più incontrovertibile, di assecondare, tramite l'intenzione e la scienza circa quello che fa, il disegno segreto che ispira le sue azioni volontarie.
I.
Agire significa in qualche modo affidarsi all'universo.
Come l'avarizia perde tutto proprio volendo guadagnare tutto, l'egoismo più geloso potrebbe conservare tutto soltanto depauperandosi ed estenuandosi, senza mai riuscire a non mettersi in gioco ( se livrer ).
Piaccia o non piaccia, l'azione è a suo modo una speculazione.
Ed è per questo che l'uomo d'azione rassomiglia spesso a un giocatore che, attraverso i calcoli più attenti, non fa che azzardare un colpo.
Per avere il coraggio di agire, ha bisogno quasi di un amore del rischio e di un distacco forzato, per non parlare ancora del disinteresse voluto o dell'abnegazione sincera.
Quindi l'utilitarismo, coerente con la legge necessaria del suo sviluppo, è obbligato a superare se stesso.
Infatti la volontà individuale non può cercare se stessa che attraverso un'infinita complessità in cui sembra perdersi.
In tal modo, per il sentimento della vastità immensa e oscura in cui si svolge, sentimento provocato in noi dalla vita, l'azione riveste inevitabilmente un carattere che possiamo già dire morale.
Infatti non è utile e non è possibile che la nostra condotta sia un mero calcolo.
Essa ingloba un campo più vasto di tutte le combinazioni riflesse.
Pertanto, quando la volontà sempre ampliata ha trasferito il suo centro dall'intenzione all'operazione organica, dall'operazione all'opera esteriore, dall'opera all'intimità di una volontà alleata, da un cuore amato in maniera esclusiva all'amore della famiglia e della città, dagli affetti esclusivi e gelosi all'assemblea universale delle generazioni umane, è ancora necessario fare un nuovo passo avanti e cercare questo equilibrio nel sistema totale del mondo.
Agire è la funzione del tutto.
Non si tratta più di inserire la nostra operazione personale nel determinismo generale.
Al contrario si tratta di inserirvi noi stessi, di volere e di ammettere in noi l'azione di questo determinismo, di accettare e di fare nostro quello che sorpassa la nostra previsione, la nostra comprensione, la nostra libera disposizione, di riconoscere sotto il gioco dei fenomeni le forze inaccessibili che li producono, e di dare il consenso a recepire i dettami oscuri e le ispirazioni dell'esperienza morale emanati da questa misteriosa potenza che le scienze positive ammettono senza intaccare.
Perciò, anche in quello che sembra moralità volontaria, bisogna ritrovare ancora l'espansione necessaria e la conseguenza naturale del volere iniziale.
Il merito delle dottrine deterministiche e utilitaristiche è quello di far vedere che, laddove altri non vedevano che un dovere ideale, c'è già un fatto inevitabile.
Perciò, per ricondurre al suo senso autentico questa morale naturalistica, conviene accostarla sotto questa duplice visuale.
- Da un lato, per effetto di una sperimentazione che nulla surroga e nulla abolisce o impedisce, l'azione riceve a posteriori le lezioni del contesto in cui si esplica.
Essa subisce le reazioni del contesto universale.
E, grazie al gioco stesso di questo meccanismo vivente, si forma a poco a poco la coscienza, si consolida la tradizione secolare delle regole pratiche, e sorge per forza di cose il fatto della moralità umana.
- Dall'altro, questo fatto diventa la coscienza di un dovere.
Questo distacco obbligato è la via per un disinteresse intenzionale.
Questa necessità a posteriori deriva dal movimento a priori della volontà.
Infatti noi interpretiamo le lezioni dell'esperienza solo nella misura in cui le provochiamo.
Bisogna quindi scoprire in che modo il fatto dell'ideale morale si sprigiona per forza di cose dall'empirismo pratico sotto lo stimolo di un'aspirazione intima.
I - È impossibile inserire l'abnegazione tra i termini di un calcolo interessato; ed è altrettanto impossibile trovare con sicurezza il piacere e il profitto al termine di una dedizione reale.
Questo mondo è troppo complicato perché non perdiamo in tale labirinto il filo delle nostre deduzioni pratiche.
L'aritmetica utilitaristica è un'illusione.
E di solito l'egoista va contro il suo intento.
La nostra azione non è mai tutta nostra soltanto.
Occorre che gettiamo i nostri atti, il nostro tesoro più prezioso, agli sconosciuti, agli ingrati, ai ladri.
L'evidenza dei fatti è questa: beni e mali mischiati, nel caos universale, si manifestano l'indifferenza e il disordine.
È l'immoralità stessa.
E tuttavia, per un sistema di compensazioni oscure e per la confusa reazione di tutte le forze mischiate, nella coscienza dell'umanità si profilano alcune grandi correnti, e in noi sorgono una concezione e un senso della vita.
Sembra che solo l'inizio delle azioni sia in nostro potere, e che svolgendosi esse avvolgano nel tessuto delle loro conseguenze persino l'uso futuro della nostra apparente libertà.
Tuttavia da questo concatenamento fatale non emerge nulla che non sia stato in germe nell'atto seminato in origine: le circostanze poco modificano la nostra natura, piuttosto la svincolano dalla sua indeterminazione di partenza.
E senza creare niente di nuovo in noi, ci rivelano ciò che portavamo in noi stessi senza saperlo.
Man mano che la trama degli atti si dipana, un determinismo più serrato ci stringe più fortemente.
E questa costrizione esteriore procede ancora da noi, anche quando, rivoltandosi contro i nostri disegni, la responsabilità nascosta in fondo alle concessioni o alle mancanze in apparenza più insignificanti ci priva dell'indipendenza, della pace, dell'onore, facendoci pagare a usura i nostri debiti segreti.
In questo modo appunto dal cimento della vita scaturiscono massime, precetti empirici, « criteri » popolari di moralità che palesemente compendiano la sapienza dei secoli e delle nazioni.
Determinare con maggiore precisione e rigore la legge delle ripercussioni necessario e le conseguenze degli atti umani; spiegare la formazione delle nozioni morali correnti in un'epoca e in un paese; regolarne il movimento e affrettarne il progresso tramite la presa di coscienza: è questo l'oggetto della scienza dei costumi, della morale veramente scientifica, la quale, indipendentemente da qualsiasi ricorso alla libertà e a prescindere da qualsiasi obbligazione particolare, si fonda sul determinismo delle azioni e delle reazioni a livello complessivo.
E in effetti, per preservare questo carattere scientifico, occorre che la scienza dei costumi si collochi non nella visuale dell'individuo, e neppure nella visuale sociale, ma nella visuale del tutto.
La condotta umana non si organizza nella sfera della conoscenza chiara, e la vita individuale non si concerta nei limiti dell'individualità.
È quindi necessario gettare l'azione nell'immensità delle cose e attendere la risposta di questa stessa immensità.
L'azione è un appello e un'eco dell'infinito: viene dall'infinito e all'infinito va.
Qui la scienza non può essere che pratica, ossia fondata su una reale sperimentazione relativa alla complessità impenetrabile della vita.
Difatti i costumi non hanno la loro norma in ciò che conosciamo di noi stessi, in ciò che vogliamo e facciamo con chiara coscienza, ma in se stessi.
E non bisogna neppure ritenere che questo meccanismo universale restituisca esattamente ciò che gli abbiamo affidato.
Al disinteresse non corrisponde il beneficio di una natura che si impegnerebbe a essere interessata per nostro conto.
Che stoltezza parlare della cosiddetta giustizia immanente!
E che ingenuità credere che il mondo si incarichi di ricompensare le virtù naturali, anche nell'angusta sfera in cui si muove l'egoismo empirico!
Disinteresse forzato, sia nella sorgente che nei risultati dell'atto.
Perciò, anche quando ci convinciamo che solo le conseguenze delle azioni sono importanti, non c'è niente di più « scientifico » che distaccarsi da queste stesse conseguenze, per seguire le indicazioni della coscienza che già sono una lezione per l'azione.
Mettiamoci dunque all'opera, senza chiederci con futile avidità: « A che serve ciò, e che valore ha? ».
Gli atti sono come le pietre di un edificio sconosciuto, laddove è più bello essere un umile manovale che ergersi ad architetto, perché il piano dell'insieme sfugge ai nostri occhi, e le esperienze più comuni della vita pratica restano misteriose per la nostra ragione, come quelle piastrelle, che non guardiamo nemmeno, e tuttavia su di esse poggiamo i nostri passi.
Perciò come è importante porre la scienza morale al riparo sia dalle sanzioni empiriche sia dalla ragione ragionante e dalle fantasie individuali!
Infatti se si ritenesse che « la coscienza » è giudicabile da parte della dialettica, sarebbe finita.
In questo contesto niente è più pericoloso delle deduzioni logiche, delle idee chiare e distinte, del semplicismo.
Le credenze vitali dell'uomo sono il risultato di un lungo brancolare, di innumerevoli prove, e per così dire di un lento assestamento.
In esse si compendia più saggezza e previdenza che nei sistemi dei geni più luminosi o nelle idee più profonde di un'intera accademia.
Ciò che chiamiamo ideale morale in un certo senso è solo un estratto e un'anticipazione dell'esperienza, un postulato o un'ipotesi necessaria per l'interpretazione dei fatti, o meglio un adattamento reale e progressivo dell'azione e della coscienza alle condizioni della vita.
Questa corretta appropriazione è la norma empirica della prassi.
Infatti questa ragione pratica non enuncia assiomi partendo da concezioni astratte in base alle quali pretendere di plasmare una volta per sempre tutte le coscienze e tutte le società, ma si forma a poco a poco e si rinnova interiormente col movimento stesso dell'evoluzione generale.
Sicché, considerata sotto questo profilo, la morale è il compendio e la conclusione sempre provvisoria e mutevole della storia non solo dell'umanità, ma di tutto l'universo.
Quindi le idee regolatrici della condotta non costituiscono una rivelazione improvvisa, ma una lenta cristallizzazione dell'esperienza totale, e quasi l'espressione del nostro senso sociale, del senso della vita universale in noi.
Dopo un periodo di brancolamenti e di instabilità, le azioni si consolidano.
Esse paiono reclamate in noi da qualcosa che è fuori di noi, dall'interesse comune, dalla verità dei rapporti reali, dal sistema totale del mondo in cui si inseriscono.
Perciò di fatto il carattere di obbligazione di cui appaiono rivestite si spiega con la sintesi necessaria e le compensazioni spontanee delle azioni che si combinano e si corrispondono.
I costumi non sono semplici abitudini individuali generalizzate.
Se c'è un'azione dell'individuo sulla società e della società sull'individuo, bisogna tenere conto soprattutto dell'influsso della società sulla società stessa.
In altri termini i costumi creano i costumi, un fatto sociale deriva da altri fatti sociali e collettivi in cui il sentimento ha una parte maggiore dell'idea chiara, e l'azione individuale non può essere sufficiente a organizzare la vita dell'individuo, perché nella logica pratica c'è sempre più di quanto l'analisi astratta non riesca a scoprire in essa.
Ecco perché la morale non è soltanto un'arte, una questione di tatto e di delicatezza, una grande abilità della coscienza di pochi privilegiati, una questione di gusto, un decreto del senso di ciascuno.
È una scienza che si sviluppa di età in età secondo leggi, man mano che si istituiscono di fatto e sono riconosciuti dalla riflessione i rapporti reali e l'organizzazione delle azioni di solito cospiranti.
Il vero ruolo della morale scientifica è quello di far vedere all'uomo che non è un tutto, ma la parte di un tutto, di studiare le condizioni della sterminata società in cui intreccia la sua vita, e di formulare ciò che è necessario all'esistenza parziale e globale.
Essa è scienza dell'insieme sociale, per essere scienza dell'insieme individuale.
Infatti, nella legge del tutto, l'azione va in cerca del segreto soggiacente al ritmo delle parti.
Essa è la proiezione in un punto dell'unità complessa.
In tal modo si spiega come questa morale scientifica, senza uscire in qualche modo dal reale, propone una specie di ideale, e senza fare ricorso all'intervento della libertà, legittima la propria esistenza e la propria utilità esibendo le condizioni positive del funzionamento sociale.
E proprio grazie a questa conoscenza essa agisce sulla coscienza individuale.
Inoltre in questo modo si percepisce in che misura l'organizzazione economica sfugge o si presta alle riforme meditate.
La società non è una macchina che venga messa in moto dall'esterno, ma è un vivente che si muove dal di dentro.
Non è un automa costruito in base a calcoli e riflessioni, ma un organismo nel quale c'è interazione tra le idee chiare e gli influssi inconsci, equilibrio tra le funzioni sociali e le abitudini individuali.
Sicché nell'opera perenne di conservazione e di riforma delle « virtù » morali e sociali ci devono essere, insieme, la parte della ragione e quella della natura, dei costumi e delle leggi, dell'iniziativa privata e dell'azione pubblica.
Senza dubbio non si può trasformare radicalmente quello che c'è di necessario e di naturale nel gioco della vita umana.
E tuttavia queste regole hanno una flessibilità e, per così dire, una elasticità indefinita.
A tal punto che mai ci imbattiamo in violazioni brutali, in impossibilità irrimediabili, in smentite perentorie.
Pertanto, siccome le molle di questo smisurato meccanismo sono troppo numerose perché esso possa essere scrutato dallo sguardo più penetrante, e possa essere manovrato dalla mano più potente;
siccome attingiamo solo le conseguenze prossime delle nostre azioni e non tutte le loro ramificazioni nelle profondità del corpo organizzato;
siccome ci vorrebbe una straordinaria perspicacia per discernere nel dettaglio che, per esempio, l'egoismo è nemico di se stesso;
siccome gli atti, diffusi e amplificati nell'organismo universale, ritornano alla coscienza carichi di una nuova ricchezza, di cui è impossibile fare l'inventario completo, la volontà sincera e coerente non ha altra risorsa, per intravedere e per attingere lo scopo nascosto cui mira, che affidarsi in qualche modo con gli occhi chiusi a questa grande corrente di idee, di sentimenti, di regole morali che si sono a poco a poco sprigionate dalle azioni umane, grazie alla forza della tradizione e all'accumulo delle esperienze.
Quindi, essendo già stata sconfessata in nome dell'autenticità pratica, la rivolta dell'uomo contro la sua « coscienza » deve essere condannata in nome della stessa scienza.
II - La concezione del diritto scaturisce dal fatto stesso.
Ma è il fatto che la produce? No.
Se le oscure lezioni dell'esperienza ci insegnano che la ricerca dell'interesse egoistico risulta essere il peggiore dei calcoli, e che il miglior mezzo per raggiungere la felicità non è quello di perseguirla, perché la via diretta è senza sbocco, nondimeno il disinteresse resta un fatto reale dal momento in cui, qualunque cosa facciamo, bisogna abbandonarsi all'ingranaggio universale, senza sapere esattamente che cosa ci renderà.
Qualunque sia il grado più o meno elevato di libera generosità impegnato dall'intenzione, comunque per agire bisogna cominciare a distaccarsi da sé.
In qualsiasi impresa umana si da una porzione di abnegazione forzata.
Ma non bisogna farsi illusioni sulla produzione necessaria di questo disinteresse che conferisce all'atto un carattere già morale: nulla è più delicato di questa trama tenue, ma infinitamente complessa, della moralità nascente.
E come ogni mattina il risveglio è misterioso, così il destarsi della coscienza in ciascuno di noi risulta impercettibile quanto i cambiamenti della luce all'alba.
Tuttavia, come è stato possibile spiegare l'inevitabile genesi della libertà, è ugualmente possibile e necessario spiegare l'inevitabile produzione di questo minimo di moralità che, nonostante tutti gli abusi o tutti i disimpegni immaginabili, rimane uno dei caratteri specifici di quello che è stato chiamato il Regno umano.
Se nella coscienza dell'azione c'è più di quanto vi sia nell'azione stessa, se la ragione dell'operazione volontaria si trova solo nel concepimento di un fine distinto dalle sue cause efficienti, è necessario altresì che questo stesso fine risulti a sua volta superiore alle esperienze pratiche che esso ispira.
Nell'ideale realizzato rinasce perennemente un ideale ulteriore, come il miraggio di un'acqua che scompare man mano che si avanza.
È così che la prassi positiva della vita proietta davanti a sé senza soluzione di continuità un dovere al tempo stesso ideale e reale.
Reale perché, essendo fondato sull'esperienza già costituita, vi attinge la sua efficacia operativa, ma veramente ideale perché nell'azione stessa fa scaturire quello che non si riduce mai al semplice fatto.
Ecco dunque i termini del problema.
Dal loro mero accostamento risulterà la soluzione.
1. La volontà, quando agisce, cerca se stessa in maniera del tutto spontanea.
È questo lo slancio della sua autenticità di fondo, la ragione della sua espansione.
2. Perseguendo un fine, qualunque esso sia, l'azione è obbligata ad abbandonarsi all'immensa, impenetrabile potenza di tutto l'universo.
Per quanto prenda delle precauzioni, per quanta scienza abbia, l'uomo d'azione si consegna, con una dedizione anonima, alla grande esperienza universale, dalla quale forse non ricaverà un vantaggio.
3. Cercando se stessa, la volontà è dunque costretta a distaccarsi più o meno da se stessa.
Essa non può servire e regnare se non dando a vedere di disimpegnarsi, e disimpegnandosi effettivamente.
La vita più intensa è quella che ha la massima estensione.
L'unica maniera di portare l'azione individuale al suo più alto grado di forza e di fecondità non è di sigillarla in sé, ma di distribuirla e di sacrificarla a tutti.
Questa generosità non è una passione cieca e folle, né un calcolo previdente, ma esprime in una forma ancora incompleta l'intento più profondo e più ragionevole dell'uomo.
Quindi la volontà normale è una volontà impersonale e universale, che tende a identificarsi con la vita comune e ad arrecarvi il proprio contributo disinteressato, senza pretendere un ricambio.
4. Dunque tra ciò che vuole e ciò che è voluto, tra ciò che agisce e ciò che è fatto, intercorre effettivamente un mondo.
Ecco perché ciò che si diparte da noi e ciò che ritorna a noi sono cose incommensurabili.
Visto all'origine, il movimento dell'azione procede da un amor proprio; visto al ritorno, assume l'aspetto contrario.
E proprio perché tende fin dall'inizio a ritornare a sé, l'uomo riconosce per forza di cose fino a che punto ciò che ritorna a lui non è affatto partito da lui.
Quindi la coscienza e la necessità del disinteresse presuppongono un primo slancio di amor proprio, un bisogno di crescita, una ricerca di sé ingenua.
5. Il risultato è che l'interesse e il disinteresse sono ugualmente reali e ugualmente fondati sul determinismo della vita morale.
È perfettamente vero che in ogni azione il corredo iniziale è dato da un amore dell'agente per se stesso.
Ed è altrettanto vero che per agire esattamente secondo questo amore occorre esporsi e donarsi.
Invano si è tentati di ridurre tutti gli impulsi che il cuore manifesta a furbizie recondite, proprie dell'egoismo.
Queste sono sottigliezze da moralisti!
Non si riesce a operare questa riduzione.
E se pure vi riuscissimo, rimarrebbe ancora vero che persino la coscienza illusoria del disinteresse ratifica un disinteresse reale.
Infatti il principio di un distacco necessario risiede nell'impossibilità di collegare con certezza il punto d'arrivo al punto di partenza dell'azione.
Se supponessimo di aver dimostrato, in linea astratta e generale, che l'abnegazione della dedizione coincide con l'utilità ( una conclusione peraltro inconsistente allo stesso modo della dimostrazione ), non per questo avremmo convinto la coscienza di ciascuno che in ogni evenienza e in ogni dettaglio della vita sarà così.
Di fatto l'azione, anche quella egoistica, è sempre una speculazione e un rischio.
6. Così si spiega che le massime disinteressate facciano presa sulla volontà, che il motivo ideale possegga un'efficacia reale, che a tale motivo in apparenza del tutto arido si aggiunga, senza snaturarlo, un movente attraente, e che l'autonomia morale ammetta un'eteronomia.
Risulta vero a un tempo che la natura ci inganna e che la virtù non è una mistificazione.
Fondato in linea di fatto, il disinteresse non ha nulla da attendere dal fatto.
La nostra ricchezza spirituale si forma al di là dell'ordine della natura.
Sembrava impossibile capire perché e in che modo l'universalità di un precetto meramente formale potesse interessarci e potesse motivarci.
Ed ecco la spiegazione.
Soggiacente al disinteresse più totale e più sincero c'è sempre l'ambizione di fondo del volere personale, non per viziarlo, ma per renderlo possibile e attivo.
7. Perciò, per quanto scaturito da un pristino amor proprio, il distacco rimane nondimeno autentico; per quanto vincolato al reale dei fatti, il concepimento necessario di un ideale nondimeno prospetta alla coscienza un dovere superiore ai fatti.
Come il determinismo delle cause efficienti aveva proiettato di fronte a noi, fin dal primo risveglio della riflessione, un fine da perseguire, così anche qui afortiori il meccanismo della vita fa sorgere un motivo superiore agli stessi fatti che ne approntano la conoscenza.
L'azione quindi è sospesa a una finalità effettiva, senza la quale la concatenazione pregiudiziale dei mezzi non sarebbe neppure intelligibile.
8. In questo modo la volontà recupera in sé e convalida non soltanto le apparenze del determinismo universale, ma la realtà universale che ne è la fonte.
Essa ne aveva già accettato la verità oggettiva, nella misura in cui la scienza se ne impadronisce e vi regna.
Adesso ne accetta il potere intrinseco e inaccessibile, nella misura in cui questo universo configura e scandisce l'individuo stesso, il suo pensiero e la sua debole azione.
Dunque non si tratta più semplicemente di acconsentire alle condizioni elementari della conoscenza riflessa e della libertà, e neppure di ammettere l'azione di altre forze concorrenti e la presenza di un contesto la cui cooperazione contribuisce al successo dell'iniziativa personale.
Occorre diventare in qualche modo questo determinismo e questo contesto stesso, in modo da concorrere per intero all'intera immensità del mistero della natura.
Quindi il centro dell'azione individuale risulta trasposto all'infinito.
Perciò la volontà, il cui sviluppo pareva restare sempre concentrico, nonostante la sua ampiezza crescente, diventa per così dire eccentrica rispetto a se stessa.
Come se la circonferenza, oltrepassando il suo limite, che è la linea retta, andasse a formarsi intorno a un altro punto infinitamente lontano.
9. Non che occorra lasciarsi illudere dalla vuota chimera di una « coscienza universale », né attribuire un'anima di vita e di ragione al « grande Tutto ».
Immaginare che l'atto umano debba recare vantaggio ad altri significa interpretare male il disinteresse necessario di quell'atto.
Indubbiamente ci vuole grandezza d'animo per abbandonarsi alle forze dell'universo, con il sentimento che una stessa legge governa il movimento delle stelle e le recondite disposizioni del cuore.
Senza dubbio ci vuole generosità a rassegnarsi alla ragione nascosta della natura.
È bello per l'uomo acconsentire a compiere atti apparentemente spietati, e amare tutta la propria opera a motivo della grandezza d'animo che ci vuole per buttarvi in pasto la propria vita.
Senza dubbio per il saggio stoico, pronto a morire per una virtù che non deve essere ricompensata, questa gioia nel morire bene, anche durasse solo un lampo, è preferibile alla mediocrità di un'esistenza piatta e lunga.
È fuori discussione che, per soddisfare cuori nobili, sensibili e fieri, è già una sanzione il piacere orgoglioso di un rinnovato quietismo che non vuole affatto una sanzione.
E tuttavia queste sono tutte illusioni.
Il piacere di essere gabbato, di sapere che lo si è, di volerlo essere, non impedisce che lo si sia.
Il disinteresse morale non gravita intorno a tutte queste belle, sottili e pretestuose chimere.
Non è fuori di noi che ne troviamo la ragione, ma l'immensa sintesi che sfocia in questo distacco inevitabile si opera in ciascuno di noi nella volontà personale e per mezzo di essa.
Tuttavia non abbiamo ancora trovato il senso, il termine di questo movimento disinteressato.
10. In tal modo si svela a poco a poco l'aspirazione profonda dell'uomo, e si svolge la serie dei mezzi tramite i quali cerca il suo fine.
L'intero ordine della natura rientra nel campo della sua esperienza.
Tutto ciò che da esso recepisce a posteriori, egli lo sollecitava già a priori.
Quello che cerca è precisamente la definizione del proprio interesse; per l'appunto, che cosa deve intendere per suo interesse?
Egli attraversa l'universo senza trovarlo.
E quindi si disinteressa dell'universo.
Il mondo ha un carattere ambiguo; in esso la coscienza non dimora presso di sé.
C'è bisogno di qualcosa al di sopra del mondo per spiegarlo e per apporvi un senso.
La morale naturalistica quindi, utile per evidenziare la continuità del progresso della vita e il risveglio della coscienza, è sospesa a una nuova forma del pensiero e dell'azione, a una morale metafisica.
Per un'iniziativa originale lo spirito umano, in maniera del tutto naturale, al di là del mondo attuale ne presuppone un altro, un mondo ideale.
II.
Come nella sensazione più insignificante siamo portati a cercare al di là di essa ciò che è, così attribuiamo sempre, in una forma o nell'altra, un senso ulteriore alla nostra vita personale: quello che non è dato dall'esperienza, presumiamo trovarcelo o mettercelo.
Sembra che da tutto il reale traiamo motivo di ravvisare che non è quello che deve essere, che non è ciò che noi vogliamo sia.
Quindi per forza di cose l'uomo si eleva dal fatto al diritto, anche quando pare identificare o subordinare l'uno all'altro.
Adesso bisogna spiegare questa genesi necessaria di una metafisica perlomeno implicita.
Anche in ciò di cui si ha l'esperienza più completa possibile c'è sempre qualcosa che per illuminare e regolare l'azione trascende l'esperienza stessa.
Da dove nascono queste concezioni metafisiche?
Come intervengono nell'organismo della vita umana?
Quale ne è il ruolo e la portata?
- In effetti è proprio dell'uomo creare nozioni universali per conformare a esse i suoi sentimenti e la sua condotta, per adattarvi i fatti.
Ma in questa sede è necessario, se così si può dire, costringere a rientrare nei ranghi questa metafisica, di cui di solito si pretende fare un ordine a parte, un ordine sovrano e assoluto, un ordine forse immaginario.
L'originalità della sua collocazione è di non essere un termine più o meno definitivo o fittizio, ma piuttosto un gradino nella serie dei fini perseguiti.
L'idolatria dell'intelletto ne farebbe volentieri il tutto, il dio.
Ma la metafisica non è tutto, è qualche cosa nel progresso dinamico della volontà.
Essa configura un grado del determinismo dell'azione e, diciamo così, un fenomeno nuovo, che ha una efficacia sua propria pur essendo legato agli altri.
È un passaggio che, muovendo se stesso, consente il movimento della vita.
Quello che c'è di vero, di originale e di efficace nella metafisica si compendia dunque in queste tre proposizioni che sarà necessario giustificare succintamente:
1) la metafisica ha un fondamento sperimentale; essa si nutre di tutto il reale;
2) essa subordina i fatti attuali a fatti che non sono affatto, nel senso positivo in cui i primi sono; essa prolunga il mondo della natura in un mondo del pensiero che ne diventa la ragione e la legge;
3) essa afferma ciò che non è, e lo mette in pratica perché sia; l'atto diventa così una naturalizzazione del possibile nel reale.
La metafisica è dunque un dinamismo.
Essa parte dai fatti per ritornare ai fatti, ma fatti di un ordine superiore.
Essa, per forza di cose, induce l'uomo ad attingere il principio della propria condotta non nell'universo ma altrove.
Nel ritmo della vita, che va dall'azione all'azione, essa inserisce il pensiero, frutto e germe di una volontà più perfetta.
Così le idee che la metafisica organizza in sistemi sono al tempo stesso
- reali, perché esprimono a livello di coscienza le reazioni molteplici che lo sguardo non arriva a cogliere fin nelle profondità della vita universale in noi;
- ideali, perché, illuminando e oltrepassando l'esperienza attuale, preparano le decisioni prossime;
- pratiche, perché hanno un influsso incontrovertibile sull'orientamento degli atti volontari.
1. È necessario capire bene che queste idee metafisiche sono reali e si fondano sul fatto.
Il pensiero non è per nulla isolato dal mondo dei fenomeni da cui la coscienza attinge i suoi alimenti.
Ciò che era vero per le immagini e i desideri del tutto spontanei bisogna ripeterlo, con maggiore forza e in un senso più pieno, delle più alte concezioni del pensiero riflesso.
Quest'ultimo, arricchito come è da tutti gli incrementi della vita organica, sociale e universale, raccoglie l'insegnamento di questa sterminata sperimentazione.
Pertanto in questo fuoco dell'idea nata dall'azione c'è una concentrazione di tutti i raggi sparsi, e quasi una sintesi dell'intero reale.
Ma perché siamo indotti a concepire, al di là dei fatti, qualche altra cosa ancora?
Da dove deriva questa necessità di proiettare al di fuori di noi, al di fuori del mondo, ciò che non vi è?
E se è vero che nella metafisica ci sarebbe una verità sperimentale, per quale determinismo siamo indotti a estrarre da ciò che non è dato di fatto un principio di spiegazione globale per gli stessi fatti?
Nella vita spontanea della coscienza lo stesso meccanismo delle cause efficienti suscita, come abbiamo visto, una causa finale, una causa che col suo carattere sintetico costituisce un progresso rispetto alle potenze ancora cieche di cui si impossessa a suo vantaggio.
Nello sviluppo riflesso dell'azione volontaria si produce, in maniera più articolata, un lavoro simile: dallo stesso gioco della vita nasce una concezione che sembra superiore alla vita, quasi un ideale oggettivo.
Se è vero che la prassi umana fornisce la materia di una scienza positiva dei costumi, e costituisce una sperimentazione senza la quale le deduzioni più sottili poggerebbero sul vuoto, diventa necessario aggiungere che la nostra condotta si organizza solo rischiarandosi alla luce di un'idea totale, e che, progettando nella forma di un fine ultimo da raggiungere, la ragione completa la propria produzione.
Perché questo bisogno di unità nella spiegazione totale?
E perché questa proiezione « oggettiva » dell'ideale concepito?
Perché l'azione non potrebbe essere parziale, astratta o provvisoria, come può esserlo la scienza.
Noi agiamo in realtà sub specie totius.
Quindi man mano che prendiamo coscienza più chiara e possesso più libero dei nostri atti, li raccordiamo a un principio più universale.
L'attività e la socialità sono in ragione diretta tra loro.
E, sia che si consideri la vita personale come una sintesi cospicua del misterioso dinamismo della natura, sia che si consideri l'universo come una vasta società in via di formazione, come una federazione di coscienze che si risvegliano o un concorso di volontà che si cercano e a poco a poco si trovano, in ogni caso l'azione palesemente si ispira e si richiama non a ciò che vi è di ciascuno in tutti, ma a ciò che vi è di tutti in ciascuno.
Questa unità totale di un'azione inserita nel tutto deve senz'altro ritrovarsi nella coscienza che ne prendiamo in maniera sempre più lucida.
È per questo che ogni maniera di vivere sorretta da una decisione ingloba una metafisica, almeno allo stato di abbozzo.
L'azione è, se così si può dire, universalistica.
Allo stesso modo diventa universalistica la coscienza che la esprime e il pensiero che ambisce governarla.
E poiché l'azione apporta sempre un nuovo alimento al pensiero, così come il pensiero apporta nuovi elementi di chiarezza all'azione, questo circolo in movimento non si ferma e non si chiude.
La speculazione e la prassi sono sempre al tempo stesso in anticipo e in ritardo l'una sull'altra, ma con la perenne pretesa di raggiungersi e di adeguarsi.
Esse non vi riescono, e questa sproporzione necessaria induce un contraccolpo necessario nel sistema delle nostre idee.
Infatti, se la vita è l'autentica scuola per la vita, come tutte le acque del fiume provengono già dall'oceano cui ritornano nuovamente e sempre, così il centro di equilibrio cui è sospeso tutto questo movimento del pensiero e dell'azione non può evidentemente trovarsi che più in alto, così come è il sole che solleva l'onda del mare fino alle altezze da cui discende la fecondità.
Perciò del tutto naturalmente l'uomo proietta al di sopra di sé una specie di « motore immobile ».
E il concepimento di questa finalità ideale manifesta non già l'insufficienza o la penuria di una volontà bisognosa, ma la sovrabbondanza di una vita intima che non trova nell'universo reale da espletarsi interamente.
Questo ordine metafisico non è affatto fuori del volere come un fine estraneo da raggiungere.
Vi è contenuto come un mezzo per andare oltre.
Non rappresenta una verità già costituita di fatto, ma il luogo che si vorrebbe volere quasi fosse un oggetto ideale davanti al pensiero.
Non esprime una realtà assoluta e universale, ma l'aspirazione universale di una volontà particolare.
Ogni pensiero umano è quindi una metafisica, e una metafisica singolare e unica.
Senza dubbio queste idee regolatrici della vita non si costituiscono in ciascuno e per ciascuno.
Esse si formano in seno alla società e tramite la comunione di tutti con tutto.
Tuttavia, come ogni personalità umana si organizza attraverso determinazioni sempre più riflesse, ciascuno dà una trascrizione sempre più personale di queste azioni determinate e organizzate in una metafisica almeno implicita.
Man mano che la riflessione governa meglio il sistema degli atti e delle idee, palesemente i principi astratti acquisiscono maggiore efficacia, e la vita si conforma più perfettamente a una regola assoluta.
Gli uomini di pensiero ne sono persuasi.
a al tempo stesso questi medesimi principi riflettono più fedelmente le tendenze spontanee e le abitudini morali di chi le applica.
Riteniamo di sottometterci alla verità, ma altresì la sottomettiamo a noi, ci facciamo la nostra verità.
E più le idee agiscono sulla prassi, più ancora la prassi agisce sulle idee.
Nella vita ciascuno trova quello che vi mette: la realtà è ambigua.
Chi scandalizza uno, edifica l'altro.
Le medesime lezioni illuminano quello e invece accecano e induriscono questo.
Per comprendere gli avvenimenti occorre trovare in sé la chiave per interpretarli.
Omnia sana sanis.
Noi tutti nei nostri giudizi su noi stessi e sugli altri siamo dei grandi idealisti, inclini come siamo a dare il massimo rilievo alla nostra condotta e a giustificare ciò che abbiamo fatto perché lo abbiamo fatto.
Quindi allo sguardo della coscienza, grazie al sentimento e all'effetto immediato dell'azione, c'è qualcosa di più reale del reale.
2. Qualunque sia l'origine e la forma particolare delle idee direttrici che l'uomo impone alla propria vita, ciascuno di noi ha necessariamente la sua metafisica.
E questa metafisica, per quanto grezza la immaginiamo, ha un influsso necessario e un'efficacia propria. ,
Sebbene le nostre concezioni più teoriche e più impersonali in apparenza derivino, anche a nostra insaputa, da recondite disposizioni morali, tuttavia la speculazione conserva un'indipendenza incontrovertibile: il suo sviluppo è autonomo.
Il sistema che genera la riflessione scientifica ha un'evoluzione originale, secondo le leggi di una dialettica interamente razionale.
È vero che questo carattere trascendente della metafisica non deve far dimenticare le sue origini sperimentali.
Infatti col pretesto di emanciparla e di purificarla, tagliando il cordone che la tiene legata alla vita vissuta, non si farebbe altro che indebolirla.
Sarebbe come sperare che l'aquilone si libri meglio senza il filo teso che lo collega con la mano mobile del bambino.
Ma, d'altra parte, se le idee con cui la metafisica forma le sue sintesi hanno le loro radici nella prassi, esse crescono sul suolo da cui nascono, servono a liberare la volontà dai suoi intralci, ne esprimono l'iniziativa e il progresso, le offrono, nella figura di nozioni regolative e « oggettive », il compendio delle conquiste fatte, il simbolo delle conquiste da fare, ciò che essa vuole già, ciò che vuole volere, ciò che aspira a essere e ad acclimatare nella crescente spontaneità della vita morale.
Da questo punto di vista la conoscenza sembra in anticipo di un passo sulla realtà.
È la ragione per cui al di sopra dei fatti dati e conosciuti noi siamo indotti a costruire quest'ordine ideale che li spiega, e che è come la verità a priori di tutte le cose.
Non dobbiamo quindi essere indifferenti, o addirittura ostili, al lavoro talvolta complicato della dialettica.
Quelle persone meditative, che non si lasciano scoraggiare da nessuna sottigliezza quando si tratta di precisare meglio le loro ragioni in merito ad affermazioni e a opinioni, conservano un senso profondo della vita dietro le loro formule astratte.
Essi sanno che non si da influsso duraturo, lezione convincente, insegnamento capace di offrire orientamento, senza aver scavato fondamenta sotterranee anche col rischio di sprofondare nella notte, come se occorresse perforare la terra da parte a parte per ritrovare la luce al di là.
L'uomo ama le astrazioni: ne parla male, le irride, ma non ne può fare a meno.
Persino quando le scaccia e le distrugge, esse lo governano ancora.
Indubbiamente c'è un'infinità di modi per attuare questa dialettica astratta.
E la ragione ragionante rappresenta un terribile potere di dissoluzione, se non diventa una forza costruttiva.
Siccome è il frutto e l'espressione, a livello del pensiero, di una condizione intellettuale, morale e sociale, di solito è inquinata alla fonte da tutte le imperfezioni di una vita incompleta e manchevole.
E una volta che sia stata già compromessa da questa specie di peccato originale, rimane ancora esposta ai rischi della sua crescita.
Perciò gli uomini che sono divisi dalla vita, lo sono ancora di più dal pensiero.
È indispensabile un'unità pratica di credenza e di azione perché gli spiriti, nonostante le divergenze inevitabili e la necessaria varietà di ciò che vive e di ciò che è libero, si colleghino e si armonizzino nell'unità intellettuale di una « scuola ».
Quindi per coloro che sono già uniti il pensiero diventa un principio di unione più perfetta.
Ma in questa sede non si tratta affatto di spiegare il caos delle metafisiche, né di determinare i principi di un'autentica dialettica, e neppure di cercare le condizioni per l'accordo delle intelligenze.
Viceversa si tratta di eliminare come sempre la variabile che non deve tenere in allarme la scienza, e di discernere l'elemento comune di qualsiasi impresa metafisica, qualunque essa sia.
Quale conseguenza deriva all'uomo dal fatto di aver formulato queste idee regolative?
E qual è il ruolo indispensabile di queste concezioni nella sua vita?
3. Dal momento in cui abbiamo concepito l'unità di una spiegazione universale e dietro il fatto poniamo qualcosa d'altro, sia pure il fatto medesimo duplicato in qualche modo da una riflessione negativa ( così come tenta di fare il Positivismo, che si inibisce qualsiasi ricerca sulle cause e sui fatti ), anche la nostra vita si raccorda a quella spiegazione delle cose.
Se nell'azione volontaria vi è qualcosa che interessa il principio, il centro, il tutto, quel qualcosa appunto che una trascrizione metafisica arreca al pensiero riflesso, viceversa ogni concezione che rivesta un carattere di universalità ingloba l'azione e sfocia nella prassi.
Un sistema completo diventa un'etica.
Senza dubbio in un certo senso l'azione va dal pensiero al pensiero.
Ma allo stesso tempo la conoscenza speculativa non è altro che una forma di transizione nel progresso della vita volontaria.
Infatti il pensiero parte dall'azione per andare all'azione.
In tal modo, a poco a poco, penetriamo nel laboratorio segreto in cui si compie lo scambio perennemente arricchente tra il pensiero e la vita e tra la vita e il pensiero.
Ogni grande filosofia, lungi dall'essere una semplice costruzione dello spirito, ha il suo principio e il suo fine in una concezione del destino umano.
La prassi orienta la filosofia e questa, a sua volta, orienta la prassi.
Ogni idea che non proceda da una sperimentazione reale della volontà è morta e possiede una presa meramente verbale.
Ma soprattutto è morta e fittizia ogni conoscenza che non si traduca in agire.
E se è vero che ogni condotta deliberata implica in noi una soluzione del problema umano, è ancora più vero che ogni metafisica prepara e postula in qualche modo una prassi che ne costituisca il frutto.
Noi siamo guidati dalle nostre idee più di quanto non le guidiamo.
Ed è giusto così, perché esse rientrano nel determinismo che la volontà ha scelto, e contribuiscono a svilupparne le conseguenze.
Quindi l'originalità della metafisica è quella di preparare l'azione ad attingere il suo autentico motivo al di fuori di tutto ciò che è già realizzato, nella natura o nello stesso agente.
Essa propone al pensiero ciò che non è nulla di positivo o di reale, e glielo propone come più reale del reale, perché è quello che deve farsi, quello che è già compreso nell'ambizione del volere umano.
Non che da ciò si debba concludere che la metafisica è la categoria dell'irreale.
Ciò significherebbe prendere un abbaglio colossale.
Essa infatti veicola in sé tutto l'oggetti vo e tutto il soggettivo, come gli elementi necessari della sintesi ulteriore da essa formata.
È un fenomeno nuovo, ma gravido di tutti gli altri.
Evidenzia in noi ciò che trascende quello che è già in noi.
Ha quindi un duplice fondamento, in ciò che è fatto e in ciò che non è ancora fatto.
Pertanto l'uomo, afferrando nel suo sviluppo tutto l'ordine naturale, ne desume, nella forma di un pensiero più comprensivo, la nozione di un ordine ideale che, fondato relativamente sulla realtà universale, sembra fondarla assolutamente trascendendola.
Non si deve separare il pensiero dalla vita che alimenta la sua fecondità; né si deve ridurre la metafisica a essere nient'altro che un prolungamento dell'ordine empirico e quasi un lusso superfluo o un vicolo cieco, fuori dalla corrente generale dell'attività volontaria.
Ma neppure si deve farne un assoluto sostanziale, un oggetto definitivo e immutabile.
Le idee sono efficaci soltanto perché promanano dal luogo in cui la vita lavora oscuramente.
Ma non avrebbero efficacia, se non contenessero altro rispetto a ciò di cui sono l'espressione.
Scaturita dalla prassi, la ragione speculativa tende a diventare una ragione pratica, pur rimanendo una ragione, ossia aggiungendo ai fatti un principio capace di spiegarli e di orientarli.
È una stessa volontà che fa sì che l'uomo interessi alla sua azione l'intero ordine reale; una stessa volontà che lo induce a sovrapporre alla realtà data una realtà nuova; una stessa volontà ancora che lo porta a cercare in quest'ordine nuovo una direzione e una norma pratica.
Questo è il rango, questo è il ruolo necessario delle concezioni speculative.
Esse costituiscono una sintesi particolare della realtà universale digerita e incorporata nel pensiero dall'azione.
Esprimono alla coscienza lucida il senso intimo e l'orientamento profondo della volontà.
Bisogna dunque considerarle non come un mondo di entità immutabili e separate, χώρις ma come la verità eminente di ciò che è già realizzato, e come la ragione movente di ciò che è in procinto di farsi.
La metafisica ha la sua sostanza nella volontà agente.
Essa non ha verità se non sotto questo profilo sperimentale e dinamico.
È una scienza non tanto di ciò che è, quanto di ciò che fa essere e divenire.
L'ideale di oggi può essere il reale di domani.
Ma l'ideale sopravvive sempre, ed è sempre lo stesso ideale, più o meno misconosciuto, che si innalza man mano che l'umanità diventa adulta.
Perciò, per quanto la metafisica rimanga mobile, per quanto essa sia meramente transitoria, come tutti i fenomeni della vita e del pensiero studiati in precedenza, si può dire che essa determini ciò che nel reale trascende già il fatto, e quindi ciò che è relativamente stabile, assoluto, trascendente, ciò che l'azione volontaria aggiunge necessariamente alla realtà data per costituirsi, in una parola ciò che costituisce l'apporto permanente del pensiero e della ragione nella conoscenza del mondo e nell'organizzazione della vita umana.
III.
Indubbiamente la scienza, che definisce le idee senza le quali l'ordine reale non sarebbe né intelligibile né possibile, possiede una sufficienza e una certezza proprie.
Ma essa non si limita a essere la scienza regolativa dell'intelletto.
La metafisica, assodando che la realtà data non si spiega e non si regge da sé, che di fatto è sospesa a un ordine superiore ai fatti, che essa non blocca il movimento del pensiero perché non raggiunge il contenuto dell'azione umana, è indotta a diventare a sua volta una scienza in grado di promuovere.
Essa esige una nuova forma dell'azione.
In effetti queste idee che si sprigionano dall'esperienza scientifica o pratica, proprio perché non si possono contenere in tale contesto ed eccedono l'attuale, esprimono ciò che nell'azione volontaria non proviene dalla natura, ciò che la volontà vuole ancora quando ha assimilato a sé tutto l'ordine reale, ciò che anela a essere e a realizzare, perché non esiste, e invece occorre che esista, affinché la volontà diventi ciò che il movimento della sincerità la induce a desiderare imperiosamente.
Si tratta dunque di incorporare nell'azione volontaria questo ordine ideale che è il fine trascendente dell'ordine naturale.
In altri termini la volontà è indotta a porre il suo baricentro al di fuori di qualsiasi realtà data di fatto, a vivere in qualche modo al di sopra di se stessa, a cercare in sé solo la ragione meramente formale del suo atto.
Pertanto, proprio grazie a ciò che possiede di irreale, essa va incrementando la propria fecondità.
Dunque nell'azione volontaria vi è più della stessa conoscenza scientifica, più della stessa vita soggettiva quale è rivelata dalla coscienza, più della realtà universale di cui si alimenta la morale naturalistica o la stessa metafisica.
E proprio questa eccedenza va ora acquisita alla riflessione, analizzando le condizioni e le esigenze dell'azione propriamente morale.
I - Come mai nell'uomo per forza di cose sorge una morale?
Che cos'è precisamente la Morale?
La scienza naturale dei costumi può prepararla, ma non ci offre neppure l'abbozzo di questa morale indipendente.
Le concezioni metafisiche possono esserne le condizioni antecendenti, in quanto enunciano un ideale ed elevano il diritto al di sopra del fatto, ma questa morale razionale non è morale.
Come dunque è possibile che vi sia una Morale morale?
Il fatto morale, anche allo stato embrionale, non è un fatto come gli altri.
Perché la prima nozione della moralità sia un fenomeno di coscienza, perché l'idea stessa del diritto sia un fatto, perché il sentimento dell'obbligazione pratica si erga come un imperativo davanti alla volontà, dobbiamo anzitutto imparare a porre il vero motivo della nostra condotta non nei fatti ma altrove.
Il dovere appare alla coscienza come una realtà solo grazie alla mediazione di una metafisica implicita.
Nel fenomeno di un'obbligazione cosciente ( praticata o meno, poco importa ) si opera una sintesi del reale e dell'ideale.
Ma a sua volta questa sintesi diventa qualcosa d'altro e di indipendente.
Nella prassi illuminata dalla ragione vi è un mistero nuovo, come ce n'era uno nel pensiero in rapporto alla natura.
È quindi a torto che si avanzerebbe la pretesa di distruggere la metafisica per costruire la morale.
La solidarietà tra questi fenomeni rimane tanto indissolubile quanto la loro eterogeneità è incontrovertibile.
Tra loro intercorrono relazioni definite e gerarchiche.
Perciò abbiamo ragione di insediare la morale, come una sovrana, al di sopra della metafisica.
Abbiamo ragione di ritenere che non c'è bisogno di conoscere le origini oscure di questa coscienza pratica per essere obbligati da essa.
Abbiamo ragione di credere che sotto la capziosità degli errori intellettuali spesso si nasconde la semplicità delle mancanze volontarie.
Abbiamo ragione di affermare che nel dubbio non è affatto legittimo astenersi, e che di fronte all'onestà palese non vi sono obiezioni speculative che tengano.
Abbiamo ragione di pensare che le grandi verità che regolano la vita sono pretese dalla morale, e non viceversa, che la morale sia pretesa da esse.
Abbiamo ragione di riconoscere che c'è di più nel sistema dei postulati pratici che nel sistema delle ipotesi metafisiche, perché l'azione porta sempre più lontano della speculazione.
Dunque la conoscenza si arresta, prima o poi, ma sempre inevitabilmente, davanti a un mistero impenetrabile allo sguardo dello spirito, per quanto la coscienza sia illuminata dalle lezioni della sperimentazione pratica, per quanto ricca la supponiamo di dati empirici o di chiarezze metafisiche.
Al di là degli orizzonti più vasti del pensiero vi sono terre ignote.
Le nostre idee sono sempre corte da qualche versante.
Anche i sistemi più coerenti, lungi dal riuscire mai ad avere il monopolio dell'infinita verità, lasciano cadere nell'ombra qualcosa di quello che avevano la pretesa di far rientrare nella loro luce.
Ma dove viene meno la visione, viene meno anche l'azione? No di certo.
E se l'uomo si lancia nell'incerto, se talvolta dona la vita per l'incerto, lo fa per ricavare dall'azione stessa una nuova certezza.
L'azione attraversa sempre una regione tenebrosa; entra nella nube per trovare al di là maggiore luce.
L'oscurità, la stessa mancanza di coscienza, sono un principio di movimento.
Perciò le persone più generose, quelle che maggiormente si infiammano per l'infinito e per il mistero, contrariamente a quanto si pensa comunemente non sono i grandi sognatori, ma le persone impegnate nella dedizione e nell'azione.
Queste sono più mistiche degli stessi mistici.
Per agire moralmente possiamo astrarre, senza trascurare nulla di vitale, da ogni scienza umana tranne che dalla coscienza.
La luce non sta dietro, ma davanti.
Il metodo euristico per progredire nella conoscenza risiede più nell'azione ce nel pensiero.
Quindi la metafisica serve a scavare un abisso tra la natura e la morale.
Infatti, una volta che la riflessione s'innalza, per la stessa iniziativa della vita spontanea, alla concezione di un ordine ideale, una volta che si è compreso che nell'azione umana c'è più di quanto possa fornire la natura intera, una volta che la volontà prende possesso di ciò che in lei è autonomo e trascendente, l'uomo non cerca più l'appoggio e non trova più il fine della sua condotta nei fatti reali, e neppure nelle idee regolative dell'intelletto, ma aspira soltanto a uguagliare l'ampiezza della sua volontà agente.
E pertanto l'azione ( lungi dall'apparirgli un fenomeno condizionato da un'infinità di altri fenomeni antecedenti, poco importa se oggettivi o soggettivi ) gli appare come un referente che condiziona tutto il resto.
Considerata in tutta la sua purezza, a prescindere dai fatti e dalle idee, essa comanda e produce le idee e i fatti, si organizza liberamente, crea gli organi delle sue funzioni necessarie.
Quindi non dobbiamo più parlare della supremazia dell'azione e dell'autonomia sovrana della volontà come se, per conservare il primato della ragion pratica, occorresse isolare l'azione volontària dalla natura e spezzare il legame tra il pensiero speculativo e la prassi morale.
È vero il contrario; c'è una correlazione tra ciò che troppo spesso si è contrapposto.
Proprio operando nella natura e cercando se stessa nel suo contesto, la volontà è indotta a porre fuori dell'ordine reale un sistema di verità metafisiche.
E proprio perché queste concezioni celano ancora una virtualità impenetrabile - impenetrabile al pensiero che si blocca davanti a essa, ma accessibile al movimento dell'azione, - la volontà si emancipa, senza rinnegare le sue origini, e in questo ambito nuovo persegue liberamente le sue sintesi morali a priori.
Pertanto la distinzione e la solidarietà tra l'ordine positivo, l'ordine metafisico e l'ordine morale sono in proporzione diretta tra loro.
Noi dobbiamo trovare i nostri doveri in ciò che ci capita, e non in ciò che immaginiamo avrebbe potuto essere.
Il campo da fecondare è l'aspetto terra-terra della vita quotidiana.
E qui, come ovunque, la grande mediatrice è l'azione effettiva.
Essa riesce a conciliare ciò che nella visuale statica della conoscenza, per una filosofia critica o idealistica, si esclude formalmente.
Per un verso infatti è dalla natura praticata e digerita che l'azione estrae l'ordine ideale col quale si esprime tutta l'eccedenza del volere; per un altro è ancora l'azione che scava il tunnel tra le idee regolative dell'intelletto e le verità morali.
Si da dunque un passaggio ininterrotto dalla natura al pensiero puro, e dal pensiero alla prassi.
Si tratta di fenomeni eterogenei ma solidali.
E come trovarci qualcosa di sorprendente?
Trattando delle concezioni metafisiche o delle obbligazioni morali, non le abbiamo forse considerate, così come tutto il resto, fenomeni della volontà, in funzione della coscienza, nella cui sfera sorgono, e dell'azione, che le produce alla luce interiore?
Le prime esprimono più completamente delle altre ciò che vogliamo.
Le une e le altre non sono che mezzi subordinati a un fine che non sappiamo ancora riconoscere chiaramente, ne sappiamo volere deliberatamente.
II - Poiché l'azione morale trova in sé qualcosa che non proviene né dalla natura né dal pensiero, man mano che si nutre di se stessa con la prassi prende maggiormente coscienza della sua relativa autonomia.
Quindi non si tratta più di spiegare la coscienza dell'obbligazione, e tanto meno di fondarla su un assoluto.
Si tratta di vedere ciò che implica e fonda questo sentimento del dovere, e di sviluppare il determinismo della ragion pratica.
Dunque non c'è niente di strano che, essendo ormai in possesso di sé in maniera più piena, la volontà crei e proietti davanti a sé, sotto forma di postulati, nuovi fenomeni, fenomeni originali, conosciuti non in quanto elementi integranti o cause determinanti, ma in quanto cause finali e condizioni susseguenti dell'azione morale.
Essi ne sono la conseguenza e il prodotto necessario.
Di tali verità pratiche pretese dall'azione volontaria la prima è la stessa definizione del dovere.
Definire quest'ultimo non significa uscire dal determinismo o fare appello all'intervento variabile di qualche decisione libera.
Significa invece riconoscere e descrivere i fenomeni così come si presentano necessariamente alla coscienza.
Si può costruire la morale pratica senza chiamare in causa il libero arbitrio.
L'unica cosa necessaria è che essa va praticata.
La questione non è se sia praticata o meno, se sia di questa o di quella natura, se addirittura sia praticabile di fatto.
È fuori dubbio che la nozione di ciò che è bene è stata infinitamente varia, a seconda dei costumi e delle idee.
Niente è più relativo dell'assoluto morale.
Ma esso rimane un assoluto: c'è sempre un ordine da osservare.
E come si determina quest'ordine?
Col concatenamento necessario delle conquiste successive della volontà.
Vi sono relazioni naturali e una gerarchia delle funzioni di cui per legge una libertà genuina e coerente deve seguire l'orientamento e rispettare la disposizione dei livelli.
Quindi né la forma né la materia dell'obbligazione morale sono espressione di un imperativo privo di radici nella vita reale, di un comandamento misterioso e arbitrario.
Il dovere non è un fatto dato, né un ordine che si imponga ciecamente alla coscienza, ma è un postulato necessario della volontà, non più soltanto quale si pone al principio, ma quale si è dispiegata e arricchita a poco a poco mediante la sua continua espansione.
Il dovere è una sua produzione inevitabile.
L'eteronomia molteplice e crescente della pristina libertà è senz'altro conforme al suo anelito più profondo, e serve unicamente a garantire sempre di più la sua autonomia reale.
Se dunque da questo punto culminante ci rivolgiamo indietro verso tutto quanto precede, che cosa vediamo in sintesi con questo rovesciamento di prospettiva?
Scopriamo sempre più chiaramente come la volontà ha fondato progressivamente tutte le forme del pensiero, come essa riprende e completa tutte le produzioni della vita.
Non le verità morali procedono dai fatti positivi, ma i fenomeni si ricollegano alla realtà dell'azione e risultano sospesi a essa.
La loro solidità consiste nel fatto che sono voluti come il terreno in cui la libertà germina e porta frutto.
L'azione è stata il legame sempre presente nelle sintesi successive che hanno creato quel vasto sistema di fenomeni di cui abbiamo appena mostrato i livelli.
E ciò che in questo cammino ascendente è apparso come uno sviluppo necessario del determinismo, allo sguardo discendente della riflessione appare come una gerarchia di relazioni obbligatorie e di doveri da ratificare con una prassi accettata.
Quindi la libertà morale è il fine e la forma di realizzazione dell'ordine naturale.
Perciò, grazie alla crescita del germe seminato dall'atto volontario, si produce un'assimilazione sempre più completa della natura al pensiero e del pensiero alla volontà.
Con i fenomeni sensibili studiati dalle scienze positive, con la vita interiore dell'individuo, con la città, con la società umana, con la solidarietà universale, con la repubblica ideale delle intelligenze, con il regno morale dei fini, si crea un organismo in cui questa volontà si è effusa per costituirne l'anima, e in cui, per uguagliare se stessa, si è allargata al punto da diventare coestensiva col tutto e da collocare il suo centro dappertutto.
Sicché invece di essere il risultato o almeno il compendio di una necessità antecedente, l'azione umana è, da questa visuale ancora provvisoria, la ragione di questo splendido ordinamento.
Il fenomeno universale evidentemente esiste solo per diventare il teatro della moralità, o meglio ancora per essere il corpo stesso della volontà.
Quindi l'azione volontaria ha assorbito tutto il resto, per plasmarsi a poco a poco degli organi e formarsi il suo universo.
Ciò a cui tende sempre di più è l'accordo tra il volontario e il voluto: mentis et vitae, intelligentis et agentis, volentis et voliti adaequatio.60
In questo senso le verità morali ne costituiscono più la conseguenza che il principio.
Quindi, come sono state determinate per via di analisi le condizioni della conoscenza scientifica, siamo indotti a determinare le condizioni dell'attività morale.
È fuori dubbio che le soluzioni di questo lavoro spontaneo o riflesso sono infinitamente varie.
Ma proprio questa diversità deve essere eliminata, per prendere in considerazione unicamente il tratto comune a tutti questi tentativi.
Qual è in sintesi questo tratto comune? Eccolo.
Il referente, al quale l'azione riflessa sembra avvertire il bisogno perentorio di agganciarsi, è un assoluto, qualcosa di indipendente e di definitivo che sia fuori del concatenamento dei fenomeni, un reale fuori del reale, un divino.
Sembrerebbe che dai fenomeni morali, come da tutto il resto, non si possa ricavare altro che fenomeni.
E tuttavia si postula un'altra cosa.
Il termine giusto è proprio postulare.
Il postulato è un'affermazione necessaria che non è della stessa natura delle premesse.
Da dove nasce questa esigenza, se non dal fatto che nel pristino slancio della volontà c'è più di quanto finora messo in opera?
Non essere affatto soddisfatto dell'effetto significa ammettere la superiorità della causa.
Non sarebbe forse il caso di dire che, portando in noi stessi un fardello insopportabile, abbiamo fretta di sbarazzarcene, gettandolo sul primo sostegno che ci capiti?
Palesemente, per dare a intendere di non uscire dai fenomeni e di trovarci in essi a nostro agio, ci rivolgiamo a essi per farne qualcosa di più di quello che sono.
Si tratta di uno sforzo sovrumano che è illuminante studiare, perché la stessa inconsistenza di questo tentativo illusorio renderà palese la necessità a livello di volontà di un'altra soddisfazione.
Rimane dunque da vedere come, per cercare di perfezionarsi, l'uomo alla fine tenta di assorbire ciò che gli sfugge infinitamente, di fabbricarsi un dio a sua immagine e di acquisire con le sole sue forze quello che gli serve per diventare sufficiente.
È il fenomeno della superstizione che bisogna studiare.
Il fenomeno, ossia la manifestazione necessaria di un bisogno, in qualsiasi forma esso cerchi di appagarsi.
La superstizione, ossia l'uso di un residuato dell'attività umana, fuori del reale.
Se poco fa sembrava strano dire che la volontà crea le sue condizioni subalterne, non è ancora più strano, e tuttavia non risulta più chiaro, dire che essa in ultima analisi ha la pretesa di sottomettere a sé l'infinita potenza?
Essa non immagina forse volentieri di aver piegato e padroneggiato il misterioso potere di cui sente il bisogno?
E non pretende forse di produrre con le proprie forze il legame che la congiunge al divino e che glielo consegna docile e soggiogato?
* * *
Per quanto ampio sia diventato il fenomeno della volontà, esiste sempre un residuo di cui non è stato trovato il senso, l'uso, l'equazione.
Di qui le forme molteplici dell'attività superstiziosa, per cercare di eguagliare l'azione umana al volere dell'uomo.
Il determinismo dell'azione suscita imperiosamente questo bisogno.
Ma per discernere quali esigenze dobbiamo soddisfare, mette conto di vedere quali soddisfazioni illusorie quel determinismo è sembrato esigere.
La storia delle trasformazioni cospiranti dell'oggetto, del rito e del sentimento superstizioso ci permetterà di purificare l'aspirazione religiosa da ogni elemento allotrio.
E lungi dal temere in questo contesto le audacie dell'analisi critica, bisogna paventare unicamente di fermarne intempestivamente i colpi; come se alla fine l'uomo potesse accontentarsi di quel « qualcosa » che si è dato come idolo!
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60 | Questa definizione assai significativa è ricalcata sulla definizione scolastica della verità, come adacquano intellectus et rei. |