L'azione |
Fin qui niente ha arrestato il movimento iniziale della volontà.
Essa ha superato tutti i recinti successivi, senza essersi imbattuta in un termine abbastanza resistente per farla rimbalzare tutta quanta verso la sua origine, con la forza che ha sviluppato nel corso stesso della sua espansione.
E se, cammin facendo, ha riscosso soddisfazioni parziali, pare ne metta in serbo maggiori energie ed esigenze; Aliquid superest.
Scaturita dalla potenza infinita che il soggetto celava nelle profondità della sua vita, l'azione risulta non poter trovare sostegno ed epilogo che in una realtà infinita.
Dove trovare questa utilizzazione totale?
Dove operare questa perfetta equazione che stabilisca una reciprocità tra l'espansione necessaria e il ritorno di una libertà sempre in progresso?
Si pone allora la necessità di scavare più a fondo, poiché nell'azione volontaria, così come è data di fatto, esiste un elemento di cui nessuna forma della vita personale, sociale o morale esaurisce la misteriosa fecondità; poiché dopo aver immesso in questo abisso della volontà umana tutte le dimensioni della scienza, della coscienza, degli affetti, delle idee, dei doveri, resta un vuoto; poiché, per quanto prolungate siano le linee curve, il cerchio non riesce ancora a chiudersi.
Di fatto nel più insignificante atto voluto vi è più di quanto non siamo riusciti ancora a determinare.
Di fatto a tutto ciò che abbiamo via via detto dei fenomeni eterogenei, compatibili e solidali si aggiunge una credenza che introduce in loro una forma nuova di realtà, e che sembra renderli incompatibili ed esclusivi, come se, per esempio, il determinismo e la libertà, il disinteresse e l'amore di sé, la morale pura e la metafisica non potessero conciliarsi.
Di fatto si annuncia inevitabilmente un bisogno ulteriore.
E se anche non ricevesse che soddisfazioni illusorie, esso è tuttavia un bisogno reale.
È indispensabile che la scienza dell'azione renda conto pure di questo fatto, di questa illusione, di questa realtà.
Espandendosi, realizzandosi al di fuori, la volontà non può ritrovare nella sua opera oggettiva tutto ciò che tiene in serbo nel santuario della vita interiore.
Il soggetto desume da se stesso questa infinità che oscuramente avverte in sé, e di cui ha bisogno per essere ciò che vuole essere, ciò che è già a livello di desiderio e di intenzione.
Esso prospetta a se stesso sotto la forma di un simbolo o di un idolo il proprio bisogno di compimento e di perfezione, adorando la vita incomunicabile e inesauribile di cui porta in sé la sorgente latente.
Nel cuore stesso dell'azione volontaria si annida dunque un mistero.
E noi non sfuggiamo al desiderio di venire a capo di tale mistero.
Come lo spettro solare è più ampio dei raggi colorati, così l'azione è al tempo stesso luce e calore oscuro.
Essa eccede la portata della nostra vista.
Singolare condizione! L'uomo proietta fuori di sé, per farne l'oggetto di un culto, proprio ciò che non può afferrare, esprimere, produrre.
Come se, non potendolo lambire in se stesso, sperasse di attingerlo collocandolo all'infinito.
E, attraverso un movimento opposto, ma anche sorprendente, ciò che egli colloca infinitamente al di sopra di se stesso è proprio ciò cui si indirizza la sua pretesa di dominio, di monopolio, di assorbimento; come se l'avesse divinizzato solo per pretendere perentoriamente una risposta adeguata all'appello creatore di un cuore avido.
In tal modo vogliamo realizzare al di fuori ciò che sfugge al di dentro, col recondito intento di ingabbiare in qualche modo questo infinito nel finito di un oggetto reale, con l'intima speranza che questo sia il valido mezzo per conquistarlo, e per ottenere finalmente in un'azione perfetta l'esito, la sicurezza, il riposo cui anelavamo.
Έν τώ αύτώπέρας κα ίάπειρον.L'infinito finito, l'infinito posseduto e utilizzato: ecco il senso e l'ambizione dell'atto rituale.
Il culto quindi sembra uno sforzo supremo per colmare l'intervallo che separa la volontà da ciò che vuole essere, e per collegare, quasi congiungendole nella preghiera e nell'adorazione, le braccia enormemente aperte dell'azione completa.
L'oggetto del culto, proiettato e creato in qualche modo di fronte all'adoratore come uno specchio in cui la volontà possa riflettere la sua immagine compiuta e il suo calore integrale, è allora soltanto un'occasione per lei per conoscersi meglio e per imparare ad adeguare se stessa.
Dunque nulla di strano che l'uomo abbia cercato di abolire, o di sublimarlo a poco a poco, questo intermediario esterno all'intimo anelito del cuore.
Adesso dobbiamo studiare questa genesi necessaria, questa purificazione progressiva della superstizione.
Il triplice elemento di ogni atto superstizioso risulta essere l'oggetto, il culto e il sentimento.
Noi vedremo ciascuno di questi termini fondersi nel seguente, man mano che l'uomo intravvede in essi semplicemente un'immagine della sua natura e un bisogno più profondo della sua coscienza.
Probabilmente al termine di questo sforzo troveremo finalmente l'equazione tra il volontario e il voluto, tra il principio e il fine dell'azione; forse l'uomo finirà per bastare a se stesso.
I.
Questa eccedenza dell'atto umano che esorbita sempre i fatti sensibili e la vita sociale, questo residuo di forza e di volontà che pare non sappia a cosa appigliarsi, fa sorgere la tentazione naturale di assegnargli un oggetto; ma tale oggetto, finito e insufficiente come gli altri, non avrebbe affatto per se stesso la capacità di ricevere la venerazione che gli si vuole tributare, e tuttavia, precisamente a causa di questa finitezza, soddisfa il duplice bisogno dell'uomo di creare il suo dio e di disporne.
L'uomo possiede l'istinto di temerlo e di conquistarlo.
Vuole che gli rassomigli e che sia infinitamente differente da sé.
Per uno strano capriccio, lo assume nella serie delle cose per collocarlo fuori della serie.
Di qui la duplice forma della superstizione primitiva, di cui non si sa dire qual è la più antica, procedendo entrambe da una medesima iniziativa: il culto del doppio e il culto del feticcio.
Il doppio è ciò che nell'uomo sopravvive all'uomo, ciò che rimane inaccessibile all'uomo, ciò che comanda e obbedisce all'uomo.
Il feticcio è l'oggetto visibile e misterioso, incomprensibile e accessibile, minaccioso e protettore che sintetizza il divino; come se il finito potesse diventare la stessa realtà dell'infinito.
Dunque proprio perché anzitutto l'idolo non è automaticamente in armonia con il ruolo che gli viene accollato, esso si presta all'illusione e corrisponde alle esigenze del fedele.
L'appetito del divino si getta famelico persino sulle pietre.
Esso prende per buono ciò che appare estremamente lontano dalla maestà divina, come se fosse indispensabile che « l'oggetto sacro » sia al tempo stesso assai enigmatico, proprio per l'assurdità della scelta da cui desume tutto il suo mistero, e perfettamente manipolabile per essere alla portata del potere umano.
Si vuole insieme che la sua vera grandezza non sia nulla di ciò che appare ai sensi e che sia tuttavia qualcosa di cui i sensi si possano impadronire e pascere.
L'ambizione dell'uomo non è forse sempre quella di forzare il segreto delle cose, di disarmare e di soggiogare il potere occulto di cui avverte che sono intessuti i suoi atti?
E quando è convinto di essere in effetti riuscito a realizzare con la sua sola iniziativa questa impresa straordinaria, quando ha la certezza di aver messo le mani sulle forze infinite celate nella natura o trascendenti la natura, quando ha commisurato le sue idee e il suo cuore alla statura dell'idolo che si propone di adorare, allora senza dubbio la sua azione gli sembra giunta alla perfezione, ed egli si ritiene garantito.
Non c'è atto, per quanto abominevole, in cui non si sia potuto porre il divino; non c'è atto che non abbia suscitato un'idolatria.
Insomma, che cos'è l'oggetto del culto superstizioso?
È l'espressione, nella modalità della proiezione fittizia ( perché qui il bisogno crea l'organo e l'alimento che lo nutre ), di quel fondo inesauribile della vita interiore che nessun atto particolare ha eguagliato, è un desiderio che prende corpo, il desiderio appunto di una risposta infinita a una tendenza infinita.
E poiché in questo modo l'uomo adora il segreto impenetrabile della sua coscienza individuale, egli è indotto dal progresso stesso della sua riflessione a concepire questo oggetto misterioso sulla falsariga della sua umanità, ma di un'umanità quale non può essere realizzata in lui, e che rimane la perenne e mobile prolessi del suo ideale rispetto al suo sviluppo reale.
In tal modo si spiega l'evoluzione cospirante dell'idolo, del culto e persino del mediatore.
Quando l'idolo cessa di essere un mistero bruto e inintelligibile, l'atto rituale non riveste più soltanto il carattere superstizioso.
L'antropomorfismo che si aggiunge al feticismo complica il ruolo dello stregone con quello del sacerdote.
Il sentimento oscuro che un infinito soggettivo, υείοντι, è presente in ciascuno dei suoi atti, porta l'uomo a diffondere questo stesso divino in tutta la sua vita.
L'atto superstizioso non è più un atto a parte, senza altra ragione che quella di essere superstizioso, ma tende a inglobare tutti gli altri.
Quindi agli atti di stregoneria e di magia si aggiungono le preghiere e i sacrifici.
Infatti dal momento che l'idolo possiede una coscienza analoga a quella dell'uomo, dal momento che nell'uomo e nei suoi atti questa coscienza pervade precisamente ciò che sfugge anche a lui, non è forse proprio all'idolo che l'uomo può e deve rivolgersi con una supplice mediazione, allo scopo di ottenere quel concorso impareggiabile e di ratificare tutte le sue imprese, di cui nessuna giunge a perfezione senza questa onnipotenza?
In tal modo si spiega perché il culto rifluisce dall'unico oggetto, che in un primo tempo risultava reclamare per sé soltanto tutta la pienezza dell'adorazione, sulle altre azioni, per perfezionarle e per sanzionarle.
E grazie a questa estensione del cerimoniale, che corrisponde a una coscienza più lucida del carattere insondabile di ciascuna azione, la stessa idea dell'oggetto sacro assume altresì una valenza intellettuale, si umanizza.
Sotto la pratica letterale si insinua uno spirito nuovo, il sentimento di un dio che non esige soltanto un tributo, da essere egoista o da tiranno feroce, ma attende dalle azioni umane che siano ciò che devono essere, come se la loro esecuzione perfetta e corretta fosse necessaria alla sua stessa perfezione.
II.
L'azione superstiziosa quindi non si limita a istituire una formazione nettamente distinta da tutte le altre.
Man mano che l'oggetto sacro è concepito sempre più a immagine dello stesso spirito, sembra che la sua trascendenza possa divenire immanente a ciascuna delle sue azioni particolari, per consacrarla e imprimerle il sigillo dell'infinito finito reclamato dalla coscienza umana.
Se abitasse interamente nel simbolo materiale che lo rende manifesto e lo mette a disposizione dell'uomo, sarebbe sufficiente assolvere ai riti di cui è il fine diretto, all'oggetto sacro, senza che la superstizione investa il resto della vita.
Ma quando in ciascuna delle azioni rilevanti crediamo di sentire la sua presenza e la sua potenza, quando accanto a ogni ispirazione del cuore, alla sorgente di ogni energia operante e al di là di ogni fine parziale sembra esserci posto per quest'ospite ignoto e velato, allora, come osserva Platone, occorre che tutti coloro che hanno un po' di ragione invochino la divinità all'inizio e alla fine dei loro atti piccoli o grandi.
In tal modo qui si verifica, ancora una volta, e si spiega, questa legge di cui tutto lo sviluppo della scienza e della vita ha manifestato la verità.
Ogni sintesi, una volta costituita, riprende in qualche modo i propri elementi per imprimervi la propria impronta e per infondervi l'idea superiore che è il suo principio.
Il rito finisce per inglobare tutto l'uomo e tutta la sua condotta, dalla nascita alla morte.
Perciò in un certo senso lo sbocciare del sentimento superstizioso e dei riti che gli conferiscono un corpo presuppone che l'uomo abbia già attraversato le forme progressive della vita individuale e sociale.
Non a torto, dunque, si è sostenuto che la religione è soprattutto un fenomeno di solidarietà e un corollario della società organizzata.61
Ma in un altro senso il suo germe è posto fin dalla forma più rudimentale della vita individuale, e per quanto sia poco elevato il livello di cultura cui l'uomo è giunto, egli ha sempre una superstizione, perché scopre sempre nella sua azione una sorta di residuo di cui non trova l'utilizzazione.
E sempre, altresì, considera la sua vita da questa prospettiva superiore, ispirando a essa la sua condotta.
Infatti, se la ragione della superstizione è di chiudere il cerchio dell'azione e di formare con essa un sistema chiuso, se essa cerca di « saldare » la vita umana e di organizzare una città perfetta nella quale in ipotesi tutto sarebbe reciprocamente fine e mezzo, allora è necessario che le forme più diverse dell'azione concorrano a preparare e ad alimentare la fede o il culto, e al tempo stesso è necessario che, una volta ideato e idolatrato, l'oggetto del culto torni a trasfigurare e a perfezionare tutti gli abbozzi dell'azione e tutte le opere incomplete.
Perciò l'atto superstizioso risulta procedere più direttamente dalle forme estremamente complesse raggiunte da una cultura, poiché comincia in qualche modo laddove all'uomo il terreno viene meno sotto i piedi.
Ma, se si incarna in particolare nel risultato più alto dell'evoluzione, ciò avviene per subordinare a esso tutto il resto.
Pertanto in un certo senso tutti gli altri atti precedono e preparano l'azione superstiziosa.
E in un senso più profondo il rito pervade e fonda tutti gli altri.
Non solo l'individuo, la famiglia, la città, l'universo sono come il terreno di cultura su cui sboccia la superstizione, quale fiore al tempo stesso naturale e parassitario, ma viceversa tutte queste forme della vita sembrano sospese all'atto sacro, che ne era il fine e ne diviene il principio, ne conteneva lo spirito nascosto e ne costituisce il sigillo, la lettera, la pietra angolare.
Non vi è " rito " senza la famiglia e la città, ma non vi è famiglia o città saldamente organizzata senza una consacrazione, senza un pensiero mistico.
Quindi in ogni atto umano c'è un abbozzo di mistica incoativa.
Quando l'atto umano rompe la monotonia quotidiana, quando lo si vuole concepire come un tutto sufficiente, e lo si vuole portare a termine come una creatura distinta e vitale, lo si sacralizza.
Se il corso ordinario delle cose ci addormenta, la prima eccezione che capiti, il più semplice evento che spezzi la catena delle abitudini risvegliano la riflessione, e la prima riflessione, che ci dischiude la visione del mistero, ci getta nell'infinito.
È così che, persino nella vita privata, ogni evento rilevante suscita non soltanto un sentimento e una preoccupazione del divino, ma tutto un cerimoniale.
In questo caso non si tratta più del misticismo dell'amore, né dell'entusiasmo dell'ispirazione, né di tutte le idolatrie successive del bambino, dell'amante, del cittadino, del pensatore; si tratta del culto positivo, il quale, per una specie di rivalsa, pretende introdurre in tutte queste forme della vita ciò che esse in un primo tempo non avevano potuto trovare o trattenere in se stesse.
La nascita, le decisioni solenni, i pericoli che strappano una preghiera o un voto, i contrasti, la parola impegnata, la morte sono altrettanti momenti importanti cui si riagganciano i riti.
In ogni dove sia indotto a riflettere su ciò che fa e su ciò che può con le sole sue forze, l'individuo non vuole e non può essere solo.
Infatti non si sente padrone ne di tutto il suo potere né dei risultati del suo sforzo.
La vita domestica è fondata da pratiche rituali; essa è preservata da un culto, che originariamente è esercitato come proprietà esclusiva ed essenziale della famiglia.
La vita politica è legata fin dall'origine al rispetto tradizionale di minuziose pratiche di culto e di osservanze legali.
Gli dei della città antica appartengono a essa come essa appartiene a loro.
Tra gli dei e la città si svolge uno scambio rigoroso di servizi e di garanzie.
E ancora al giorno d'oggi, in forme meno rozze, si ritrova qualcosa dello stesso sentimento nella grande passione del cittadino, agli occhi del quale la causa della patria è unica, è incomparabile, è santa, è protetta gelosamente ed è amata dall'alto, così come lui stesso l'ama.
La patria simboleggia l'oggetto infinito della dedizione. E sta bene.
Non vediamo forse che, per alcuni, lo Stato diventa a sua volta un idolo che ha bisogno di feste, che non ammette altro culto pubblico diverso dal suo e che, invece di considerarsi come un gradino nello sviluppo universale della vita morale e religiosa, non tollera nulla al di là o al di sopra della sua fantasia sovrana?
Si noti questo bisogno di riti e questa imitazione delle cerimonie di un culto vero e proprio persino in coloro che si vantano di essere emancipati da ogni superstizione, come se ci fosse bisogno di sublimare a ogni costo con una specie di solennità liturgica la povertà troppo appariscente delle azioni nude e crude. Il meraviglioso e l'occulto rappresentano un bisogno per l'uomo, e gli vengono dati, non foss'altro che con un'iscrizione greca sulla porta di un cimitero.
Quando nella vita sociale o nelle abitudini individuali avviene uno sconvolgimento, un cambiamento, una parziale inibizione, e quando di fronte a una decisione da prendere la coscienza si risveglia, non sembra più sufficiente fare esattamente e semplicemente tutto quello che si pensa di fare.
Infatti se non si agisce mai per quello che è perfettamente chiaro, senza aspettarsi dall'esecuzione più di quanto sia contenuto nell'idea o nel progetto, ciò non avviene forse perché sembra logico agire anche andando al di là della semplice intenzione?
Perché una cosa sia fatta bene occorre che nell'azione vi sia, diciamo così, del superfluo.
E l'esagerazione delle formalità rappresenta già una soddisfazione per la gente ingenua, pronta a chiedersi, anche dopo lungaggini particolarmente noiose: « È già finito? ».
Perciò a ogni progresso nell'offensiva della riflessione sembra che l'uomo cerchi di sottrarsi alle spinte spontanee che a livello ingenuo lo portavano al di fuori di sé.
Egli è pronto a bruciare ciò che adorava, quando ritiene di essersi elevato al di sopra di esso.
Evidentemente è la propria apoteosi che persegue.
Non ha forse preso posto lui stesso sull'altare, allo scopo di ridimensionare l'oggetto del suo culto, e di non avere altri doveri religiosi che i suoi doveri umani?
Non abbiamo assistito, come a modelli significativi, all'avvento messianico della Ragione o al tentativo di una religione positiva dell'Umanità?
- L'atto rituale, senza commistione di alcun altro, era apparso anzitutto come il culto dovuto in esclusiva all'oggetto idolatrato.
Il rito e l'idolo erano insieme la forma e la materia della superstizione.
In altri termini l'azione superstiziosa, come un lusso totalmente superfluo e tuttavia necessario, non aveva altra ragione che quella di conciliare con l'uomo la potenza misteriosa da cui dipende.
Ma via via l'idolo si umanizza, il rito tende ad aggiungersi, come una forma perfetta, a tutte le azioni comuni che costituiscono la stoffa stessa della vita umana.
Ci rimane da scoprire perché, invece di contrapporsi mediante un culto positivo ad altri atti distinti, la superstizione si insinui, in maniera più impercettibile e meno visibile, in tutte le forme della prassi, del pensiero, della scienza, della metafisica, dell'arte e della morale naturale.
Sicché, proprio laddove pareva morta, per mancanza di oggetto palese e di culto positivo, rivive in maniera più inafferrabile e più perentoria.
III.
La volontà umana, nello sforzo che fa per giungere a compimento e per conferire alla sua opera un carattere di totale sufficienza, finisce per cercare nella stessa azione incompleta il complemento da essa reclamato.
Invece di ricorrere a formule magiche o a cerimonie di consacrazione, fa leva direttamente sulla sua perfezione, come se gli atti fossero sufficienti e perfetti non perché sono religiosi, ma fossero religiosi e divini perché sono perfezionati e completi, perché sono « morali o umani ».
Pertanto, di questo mistero che sopravvive nel cuore dell'azione, nel più intimo della coscienza e che trascende tutta la realtà data, ci si forma un ideale che sembra identificarsi sempre di più con l'azione umana stessa.
Per un rovesciamento di prospettiva la religione, invece di apparire il fine, è presa come un mezzo.
Invece di valutare gli atti a seconda che siano sospesi all'osservanza rituale, si pretende giudicare delle forme religiose precisamente in base al valore delle azioni. Invece di orientare l'uomo verso un oggetto esteriore o superiore, si tenta di ricondurlo62 alla sua coscienza e al suo pensiero.
E la conseguenza di questa inversione è di ridurre in qualche modo a due i tre termini dell'azione superstiziosa, di abolire l'oggetto trascendente del culto, per mettere l'uomo in presenza del mistero che porta nella propria coscienza, di cercare il referente dell'adorazione nello stesso adoratore.
Come se questo fosse l'autentico culto in spirito e verità e l'unico mezzo per togliere dalla vita umana l'ignominiosa etichetta di superstizione.
In questo modo forse, una volta lasciata sola in apparenza e ridotta alla sua semplice espressione, l'azione sarà finalmente autosufficiente nella sua totale indipendenza.
E non era questo il desiderio primitivo del volere?
Ottenere che il fenomeno sia cosi ampio e così ricco da assorbire tutto e da rimanere solo.
Per dare all'ordine morale un fondamento solido e per farne un tutto sufficiente, ad alcuni è sembrato che basti considerare i doveri come indipendenti in linea di principio da qualsiasi nozione metafisica o da ogni compromesso sensibile, considerandoli tuttavia tutt'uno con postulati tali che agendo bene si compie, in modo senza dubbio misterioso ma certo, la volontà presunta del legislatore perfetto.
Si tratta in definitiva di postulati tali che la stessa morale costituisce il vero culto.
Tutti i doveri e solo i doveri risultano essere religiosi.
Asserendo che Dio ci ha posti nel mondo perché agiamo secondo la sua volontà e non per tenergli dei discorsi o per fargli dei complimenti, si conclude insieme a Kant: « Tutto ciò che l'uomo crede di poter fare, fuorché tenere una buona condotta per rendersi gradito a Dio, è mera superstizione ».63
Ora, tutto questo che altro significa se non che l'azione umana con le sue sole forze presume di assimilare a sé, fino a esaurirlo, ciò che la conoscenza non riesce ad attingere e che la volontà non riesce ad abbracciare completamente?
E il metafisico, non è anch'egli idolatra a modo suo, quando, con la presunzione di ospitare nel suo pensiero l'oggetto infinito di cui va in cerca, immagina di essere in procinto di cogliere l'Essere trascendente, di stare per conquistarlo e per manipolarlo in qualche modo, grazie ai suoi concetti e alle sue norme, ai suoi sistemi e alla sua religione naturale?
Come se imprigionasse in una esile rete di idee la verità vivente; come se, concedendo al suo dio l'onore di affermarlo e di definirlo, lo seducesse completamente; come se, penetrando nell'intimo della potenza, della sapienza e della santità infinita, fosse in procinto, per essersi creato un ideale di perfezione, di parteciparvi lui pure, e di diventare in realtà proprio quello che dichiarava inaccessibile, quello appunto che nella sua coscienza non ha altra ragione se non di essere incomunicabile e misterioso.
Ma in tal modo non trasforma il fenomeno metafisico, di cui dispone al suo interno, in una sostanza, in un Essere di cui ritiene di poter altrettanto disporre al suo esterno?
Tutto ciò significa quindi soggiacere sempre alla singolare pretesa di afferrare e di utilizzare Dio con le sole forze umane; significa volere al tempo stesso che questo assoluto sia fuori dell'azione, per diventarne la conclusione, sia nell'azione, perché questa sia autosufficiente.
L'uomo, in quello che fa, non può né introdurre né lasciar cadere questo divino.
E tuttavia preferisce dare a intendere che c'è il divino in quello che fa, e c'è soltanto per opera sua.
Anche quando si degna di prescrivere atti particolari nei confronti dell'essere primo ammesso dalla sua ragione, ritiene che la preghiera o l'adorazione procedano unicamente dalla sua ragione e dalla sua volontà.
E queste azioni, qualificate come religiose, sono emendate come tutte le altre da qualsiasi formazione parassitaria e da qualsiasi rito opaco o sacramentale.
La superstizione di quest'uomo è quella di illudersi che non vi sia nulla di superstizioso e di credere di vivere unicamente in base a idee chiare e a pratiche razionali.
Al pensiero di aver soppiantato i vecchi dogmi, gongola.
Anche questa è una fede, ma quanto corriva e intransigente!
Anche l'Inconoscibile, la solidarietà universale, l'organismo sociale, la patria, l'amore, l'arte, la scienza, sono tutti idoli, quando la passione si impadronisce di un cuore, e lo convince che in essi trova quanto occorre per appagarsi, quando consacra a essi tutte le possibilità della tenerezza e della dedizione, come se l'uomo avesse finalmente trovato in loro il suo tutto.
Se l'evoluzionista, elevando le sue idee al di sopra delle prospettive individuali o politiche, ritiene che la cosa migliore per lui è quella di aderire al tutto della natura mediante la conoscenza delle leggi cosmiche; se il socialista consacra il suo pensiero che giudica salvifico a un'opera che reputa d'importanza assoluta; se lo scienziato vive nella fede di avanzare verso la piena verità, e di lavorare per diventare il mago, il sacerdote e il profeta di un futuro già presente, tutto questo non implica forse che costoro attribuiscono all'impiego della loro vita e all'efficacia del loro sforzo una pienezza e una perfezione che bisogna senz'altro qualificare anche come superstiziose?
Infatti, nel loro stato di coscienza due parti su tre sono l'effetto di un desiderio, più che l'espressione di una realtà.
Quello che fanno contiene indubbiamente un senso e un'importanza.
Ma su tale fondamento reale essi aggiungono una duplice finzione:
- la vuota convinzione del carattere eminente e, per così dire, sacro dell'oggetto cui si dedicano religiosamente,
- l'orgogliosa pretesa di rendergli un culto vero e proprio.
Come se il fine e il risultato dei loro atti facessero sì che la vita meritasse di essere vissuta come loro la immaginano.
In tal modo per molti è la scienza stessa che diventa il feticcio.
E talvolta essi si prestano a svolgere agli occhi della gente il ruolo di maghi.
Dispensando alle persone semplici termini colti, espressioni misteriose, simboli scientifici destinati a soddisfare negli ignoranti il bisogno impellente dello straordinario, propongono un oggetto di fede, laddove essi per conto loro presumono trovare piena luce, e danno agli altri per oscuro ciò che al loro sguardo è luminoso, mentre sanno bene che al di là di questa debole luce essi pure si imbattono nelle tenebre e nell'ignoto.
Sicché, forse a loro insaputa, convincono i creduloni che per essi ogni oscurità è già luce, ottenendo che la loro scienza venga adorata come il mistero svelato e il miracolo permanente.
Pertanto, proprio là dove gli atti sembrano determinati nella maniera più rigorosa e dove la vita risulta ridotta all'asciuttezza di contorni geometrici, nella concezione più scientifica dell'esistenza umana che ci si possa immaginare, da dove è bandito a livello di intenzione e di fatto qualsiasi sentimento, qualsiasi slancio di fede, qualsiasi parvenza di superstizione, ebbene proprio là è in atto un colossale postulato.
E bisogna aggiungere che più quella concezione e quelle azioni sembrano positive, più sono rivestite di ingenuità e di illusioni in quelle persone che sono così poco lucide e così illuminate dal proprio entusiasmo da non vedere iscritto in se stesse e nell'universo altro che la gloria, la potenza e la divinità della scienza.
Quando non lo portiamo in noi stessi, non possiamo trovare il divino da nessuna parte.
Ma non possiamo rimuoverlo a tutti i livelli se non concentrandolo in noi stessi e surrogando la fede assente con una nuova credulità.
IV.
Siccome ogni convinzione, anche negativa, e ogni forma del libero pensiero rappresenta ancora una superstizione, non deve sorprendere che la critica si spinga sempre più avanti.
Per protesta contro il culto austero di un imperativo morale velato come Iside, contro l'idolo metafisico dei sistemi adeguati all'universo, contro la devozione dispotica di una Scienza che coniuga talvolta un'insolenza da uomo spocchioso con la temerarietà corriva di un bambino, in molti uomini contemporanei nasce quello che è stato chiamato il nuovo misticismo.
Nuovo, perché in effetti presume di essere fondato sulla stessa scienza e su tutte le negazioni della critica moderna, senza rinnegarne neppure una.
Nuovo, perché in sintonia con tutte le superstizioni del passato, curioso delle credenze popolari, dei riti, delle forme sacramentali, delle pratiche letterali cui talvolta persino si presta, crede di segnare un progresso ulteriore in ciò che chiama giustamente la miscredenza, pur rimanendo più religioso di quanto non lo sia la devozione più ortodossa.
E come se ormai quest'oro fino dell'autentica pietà fosse purificato da ogni amalgama, il mistico miscredente fonde in una sola aspirazione il sentimento, il culto e l'oggetto stesso della sua venerazione.
In verità egli incensa il mistero della sua azione e il fervore del suo cuore.
Lui pure è pietista, a modo suo.
Come dunque si opera questo prodigio?
È grazie a quale astuzia di sentimenti ci si vanta di scoprire sempre aperta la porta della cappella, dove ognuno sale sull'altare, dove l'enigma è svelato e si trova finalmente il riposo della volontà?
L'atteggiamento religioso dei nuovi mistici risulta composto di queste due essenze, alla maniera di un profumo leggero: nessun atto in cui non si avverta quasi un'ebbrezza e un'esaltazione benefica, come al soffio dell'infinito che lambisce l'anima; nessun atto in cui non si avverta che l'oggetto della dedizione, il risultato dello sforzo è illusorio, finito, nullo.
E proprio perché l'agire è vano, perché è fallace, risulta bello, disinteressato e pio compierlo.
Pare che più l'atto è vuoto di qualsiasi oggetto, più si sviluppa la coscienza appagata da una sufficienza e da una pienezza soggettiva.
Il fedele ingenuo proiettava al di fuori il suo amore e il suo tutto.
Ma se conduciamo a fondo l'analisi, non possiamo confinare in noi stessi il nostro culto, e senza adorare nulla, adorare noi stessi?
La persona evoluta, nella sua superiorità sovrumana, non solo non vuole essere costretta ad alcun atto particolare di qualche religione naturale, ma per lei in qualsiasi atto non c'è più alcuna regola specifica, non imponendosi a lei alcun criterio di condotta a causa dell'infinita varietà delle situazioni e dei sentimenti attraverso cui passa.
Sicché, se ciò che fa le importa poco, il grande valore, la sorgente inesauribile del sentimento, il culto consiste nell'agire comunque, nell'agire sempre.
Un culto senza oggetto, senza credenza, senza riti, senza sacerdozio, senza nient'altro: il Culto.
E non è questo lo stesso sentimento che, in una forma meno rarefatta e più generosa ispira quegli apostoli laici, quei predicatori della pietà e della dedizione, il cui Credo e il cui Decalogo si riassume in una parola: l'Azione?
Agire per agire diventa quindi la superstizione di coloro che non tollerano altra superstizione.
Qual è il senso di questa strana devozione?
E tale disposizione raffinata si fonda forse sulla verità di sentimenti provati?
- Nell'azione, qualunque sforzo si possa fare per confinarla in ciò che la scienza insegna all'uomo intorno a lui stesso e all'universo, il meglio resta refrattario a qualsiasi analisi.
Siamo riusciti a svelare la vanità di tutto il resto.
Ma per quanto siano inutili i fini di un'attività sempre delusa e sempre risorgente, l'azione stessa rimane avvolta come in una nube d'incenso che ne cela le squallide miserie e l'inanità.
Ogni atto, ogni opera è bacata, carente, imperfetta.
Ma l'agire rivela quel mistero dell'impotenza che contiene l'aspirazione infinita del cuore.
Quindi anziché cercare di fondarsi sulla sufficienza di una cosa qualsiasi, la volontà celebra il suo trionfo sull'insufficienza di tutto.
Essa adora ciò che le sfugge e la trascende per sempre.
Essa è divina, finché vive, finché ama, finché produce, finché si prodiga anche se in maniera sterile.
A tutti gli atti superstiziosi, che avevano la pretesa di stringere e di fissare l'assoluto, sopravvive solo la superstizione dell'azione e la fede nel divenire, o meglio l'amore di ciò che non può essere fatto e neppure sfiorato, di ciò che non è reale e neppure lo sarà.
Avevamo voluto concentrare tutta la realtà delle cose nell'azione umana, facendola partecipare alla solidità di tutto quello che a quanto sembra sussiste senza di essa.
E invece l'azione non è il sogno che fagocita la sostanza dei fenomeni, il baratro in cui precipita ogni parvenza di esistenza?
E non dovremmo pensare di aver percorso questa lunga peripezia dell'indagine scientifica unicamente per ritornare al punto di partenza, al vuoto?
V.
Il più grande servizio che si possa rendere all'uomo è quello di far svanire ai suoi occhi tutte le superstizioni una dopo l'altra, ma allo scopo di erogare in lui il puro sentimento dell'attesa religiosa.
Quanto è importante non lasciar perdere questo beneficio della Critica impietosa, di non consentire la deviazione della grande corrente del misticismo che oggi vive una rinascita, di non lasciar cadere questo sforzo di una generosità indubbiamente genuina nel vuoto di gratificazioni illusorie, che paralizzerebbero le volontà facendone abortire lo slancio!
Nell'opera di distruzione del pensiero: c'è un grande senso religioso.
Perciò, anziché respingere questo movimento, bisogna impedirgli con tutte le proprie forze di arrestarsi prematuramente.
Non c'è nulla di più incontestabile, di più necessario che considerare ( a parte l'orgoglio o l'ingenuità ) come un selvaggio dedito al feticismo il metafisico invaghito delle sue costruzioni, l'artista innamorato della sua opera, il devoto compenetrato dall'ideale morale o l'apostolo dall'azione per l'azione.
In tutti costoro troviamo la stessa pretesa e la stessa presunzione.
Tutti sono ugualmente propensi a fare di se stessi il loro dio senza Dio.
Mettere a nudo l'inanità di questo sforzo umano è un'opera di religiosa empietà.
Infatti, se l'empio si attiene alle sue conclusioni negative, se è contento di esse con la speranza di aver confiscato e pressoché dissolto il divino, se si vanta di aver scavato in sé un abisso abbastanza profondo per seppellirvi per sempre la sua azione e ogni cosa, non è ancora abbastanza empio.
Egli conserva la superstizione di non soggiacere ad alcuna superstizione; rimane un idolatra.
È lui che, nonostante la sua aria da avanguardia e da portatore dei lumi, risulta retrogrado e oscurantista.
Bisogna allora penetrare più a fondo e demistificare quest'ultimo idolo, l'unico al quale l'uomo potrebbe ancora appigliarsi allo scopo di convincersi che è pienamente sufficiente a se stesso.
Se nell'azione superstiziosa, accanto a un'illusione cangiante ed effimera, c'è un movimento genuino e invincibile della volontà, stiamo ben attenti nella nostra analisi a non prendere l'illusorio per reale e il reale per illusorio.
Percorrendo lo sterminato territorio del fenomeno, l'unica acquisizione che l'uomo ha fatto è stata quella di far emergere con maggiore chiarezza un mistero che sopravvive all'impiego, in apparenza integrale, di tutte le sue facoltà.
Questo residuo non va aggiunto all'azione voluta, ma vi è già contenuto.
E ponendolo, la volontà da cui procede l'atto ne esige l'utilizzazione.
Invano cerchiamo di consacrarlo con un rito all'oggetto chimerico di un culto idolatrico.
Invano presumiamo di inserirlo come suggello in ciascuna delle azioni che qualifichiamo con un carattere sacro, o di depositarlo come una zavorra pesante in qualcuno dei fenomeni di cui questo bisogno nascosto ci aveva fatto sentire l'inanità.
Invano, via via che la coscienza rinuncia all'ambizione mistificante di confiscarlo, intendiamo adorare unicamente l'inconoscibile e l'inaccessibile.
Da tutti questi tentativi scaturisce solo questa conclusione doppiamente perentoria: è impossibile non riconoscere l'insufficienza di tutto l'ordine naturale, e di non avvertire un bisogno ulteriore; è impossibile trovare in sé di che soddisfare questo bisogno religioso.
Esso è necessario, ma è impraticabile.
Ecco, in termini nudi e crudi, le conclusioni del determinismo dell'azione umana.
Ma in questa crisi quasi disperata, com'è facile stravolgere questa duplice constatazione obbligata, con la perfidia, forse inconsapevole, di un'interpretazione alla rovescia! In fin dei conti bisogna mettere a nudo la grossolana sottigliezza di questo sofisma, che si cela sotto tutte le forme della superstizione e della miscredenza.
Invece di riconoscere che l'uomo è impotente a produrre una soddisfazione qualsiasi in ordine al suo bisogno necessario del divino, si tira la conclusione che qualsiasi soddisfazione religiosa è necessariamente impotente ad appagare un bisogno immaginario.
Una tentazione insinuante dell'orgoglio sempre smanioso di essere autosufficiente è questa: dopo aver messo a nudo la falsità di tutti gli idoli e di tutte le superstizioni, vantarsi di conoscere, riconoscendola, la debolezza umana.
Per una strana mistificazione finiamo per essere fieri di una debolezza che riusciamo ad avvertire solo impiegando tutte le nostre forze, e a intravedere solo col massimo di lucidità.
Rimaniamo appagati di non poterci appagare.
E mentre guardiamo dall'alto in basso tutti coloro che hanno chiuso i loro occhi, ingabbiando la loro vita in una formula qualsiasi, noi pure ci attestiamo a contemplarli.
In fin dei conti vogliamo che questa azione umana, di cui abbiamo avvertito l'insufficienza solo perché in ultima istanza volevamo che fosse autosufficiente, sia insufficiente, perché riteniamo che questo è l'unico mezzo per insediarci nell'azione e per essere autosufficienti nel suo spazio.
È chiaro l'equivoco? Individuiamo il circolo in cui ci rinchiudiamo con una decisione arbitraria e capziosa?
Sentiamo risorgere, data l'incoerenza, il conflitto mortale tra due volontà?
E non vediamo in quale sottile forma d'intolleranza siamo pronti a cadere, col pretesto dell'indifferenza e della tolleranza?
Se il dispotismo delle idee chiare e delle certezze scientifiche è tremendo, perché evidentemente non lascia alcun riparo d'ombra a coloro che avvolge nella sua luce, esso tuttavia non riesce a violare il santuario del mistero che ci circonda.
Quindi la tirannia dell'oscurità è ancora più tremenda, perché pesa nella notte su coloro che si credono al sicuro.
Essa impedisce loro non di intravedere una penombra protettiva ai confini della loro scienza, ma di uscire dalle tenebre e di sperare che un barlume possa mai brillare nell'abisso da cui viene fuori e in cui ricadono il loro pensiero e la loro azione.
In effetti che cosa ne sappiamo?
E se crediamo di saperlo, qual è il meccanismo di questa fede, stando la cecità obbligata?
Anche l'irreligione mistica è una superstizione, dal momento che partendo dall'impotenza reale della volontà umana e dalle assurde devozioni del feticismo, dal falso misticismo della scienza o dalle fantasticherie della teosofia, conclude all'impossibilità di ogni rivelazione ulteriore.
Un'impotenza può essere constatata, ma non un'impossibilità.
Probabilmente nella negazione settaria si cela una dose maggiore di credulità e di intolleranza che non nel fanatismo violento.
E, per dirla tutta, di fatto c'è una coscienza dell'impotenza solo grazie a una nozione della possibilità.
Dunque la pretesa dell'uomo di limitarsi ai fenomeni e di essere autosufficiente è radicalmente inconseguente.
Ponendo tale pretesa, l'uomo la smentisce e la supera.
Fondarsi sull'azione debole e incompleta per ammettere la debolezza irrimediabile dell'azione, elevare un fatto all'esponente della verità definitiva ed esclusiva, significa snaturarlo, pur senza dare a vedere di manipolarlo.
Nell'ordine dei fenomeni non si da contraddizione o esclusione, possibilità o impossibilità; si danno solamente fatti determinati.
Ora nel momento in cui si presume di ricavare da questi fatti una negazione che concerne la possibilità stessa di altri fatti, si è fuori della scienza e dei fatti.
Si è superstiziosi, e della peggiore specie dell'empio superstizioso.
Anche in nome del determinismo c'è una sola conclusione inevitabile.
Eccola espressa nei suoi termini nudi e crudi, ne più ne meno: con la sua azione volontaria l'uomo trascende i fenomeni; egli non può adeguare le sue stesse esigenze; possiede in sé più di quanto non possa utilizzare da solo; con le sole sue forze non riesce a mettere nella sua azione voluta tutto quello che è all'origine della sua attività volontaria.
Pertanto, anche se presume di fare a meno di qualsiasi religione o di crearsene una a suo piacimento, nondimeno non esorbita il suo diritto, e tantomeno appaga il suo bisogno necessario o le esigenze della sua volontà.
Tutti i tentativi di portare a compimento l'azione umana falliscono.
Ed è impossibile che l'azione umana non cerchi di portare a compimento se stessa e di essere sufficiente a se stessa.
Questo le è indispensabile, ma non lo può.
Da una parte c'è la necessità di fare piazza pulita di tutte le invenzioni che, partendo dall'uomo e procedendo dal santuario più intimo del suo cuore, hanno come obiettivo ridicolo e patetico di monopolizzare il divino.
Dall'altra il sentimento dell'impotenza e del bisogno che l'uomo ha di un compimento infinito rimane insanabile.
Perciò, per quanto artificiale sia ogni religione naturale, altrettanto naturale è l'attesa di una religione.
Che inestricabile difficoltà, nella quale la volontà umana si è impegolata e si è cacciata da sola!
Infatti richiamiamo alla mente tutte le conclusioni che già le tagliano la strada di qualsiasi ritirata.
È impossibile non porre il problema.
È impossibile trovare una scappatoia nel nulla; non è fatto per noi.
È impossibile accontentarsi del « qualcosa » in cui si è cercato di rinchiudersi.
Dove andare? il fenomeno non è sufficiente per l'uomo; non possiamo ne confinarci in esso ne negarlo.
Troveremo la salvezza, con una soluzione che risulta necessaria e tuttavia sembra inaccessibile?
* * *
Dall'indagine precedente, il cui risultato sembra completamente negativo, vedremo scaturire necessariamente la più positiva delle conclusioni.
Abbiamo depurato la scienza dei fenomeni da ogni amalgama, l'abbiamo sgombrata da ogni ontologia, unicamente per giungere, con una specie di metodo dei residui, a rendere manifesto ciò che nell'azione non è più semplicemente un fenomeno.
Ci imbattiamo in qualcosa d'altro che occorre definire.
E questa realtà dell'azione non è soltanto un fatto che si constata direttamente; se tale realtà ha un valore scientifico, è perché è una necessità, risultante dal determinismo globale del pensiero e della vita.
Aver dato grande rilievo a questo determinismo significa aver eliminato le difficoltà speciose, le quali inducono a confondere i problemi, creando spesso aporie per la filosofia; ma significa anche ricondurre tutto all'opzione suprema, che investe il grande e unico interesse dell'uomo.
Indice |
61 | È questa le tesi di E. Durkheim e della scuola sociologica da lui derivata. Blondel aveva studiato con attenzione il saggio durkheimiano La science positive de la morale en Allemagne, pubblicato nella " Revue Philosophique de la France et de l'Etranger " 24 (1887), pp. 33-58, 113-142, 275-284. |
62 | Il testo porta la ramener; ma si tratta di un evidente refuso tipografico; pertanto ho inteso le ramener. |
63 | La citazione assai precisa rimanda allo scritto kantiano La religione entro i limiti della ragione, § 2 della seconda parte del quarto capitolo (AA VI, 170). |