L'azione |
Non si capisce se è un pura banalità o un paradosso intollerabile asserire che l'uomo aspira a essere integralmente ciò che vuole, e che non può assolutamente essere suo malgrado.
- È una verità risaputa, se si intende esprimere la grandezza illusoria delle ambizioni, le lusinghe o le lamentele di un amor proprio introverso, il quale ritiene che tutto gli sia dovuto.
- È un'inaudita sfida al senso comune, quando si ha la pretesa di dire che di fatto la volontà sussiste solo nella misura in cui produce e ratifica se stessa in qualche modo, nella misura in cui pervade, domina e suscita persino i suoi organi di espressione.
E tuttavia è proprio questo paradosso che ha giustificato la storia naturale dell'azione, perché, per il solo fatto di volere, l'uomo pone o accoglie una sterminata molteplicità di condizioni necessarie.
E viceversa proprio questa verità banale, per quanto poco vi si rifletta, da l'impressione di dover sconvolgere il piano volontario della nostra vita.
Noi vorremmo essere autosufficienti, ma non possiamo esserlo.
Contro il determinismo dell'azione voluta sembra ergersi, con una forza e un'evidenza ancora maggiore, un determinismo opposto.
Riconoscere questo dato significa recuperare il linguaggio comune: la volontà non sembra essersi voluta essa stessa.
In ciò che vuole incontra perennemente ostacoli insuperabili e disagi spiacevoli.
In quello che fa si introducono debolezze insanabili o errori alle cui conseguenze non può porre rimedio.
La morte da sola compendia tutti questi insegnamenti.
Quindi per forza di cose prima di volere e in tutto quello che vogliamo esiste evidentemente qualcosa che non vogliamo.
Perciò non è semplicemente un nuovo determinismo che bisogna opporre al determinismo dell'azione voluta, ma è un determinismo antecedente e più profondo, un determinismo che precede, ingloba e trascende la nostra iniziativa personale.
Sicché non abbiamo risolto niente ancora, se non si supera la difficoltà che sorge a questo punto.
Infatti ne va di ciò che è, in noi stessi, il principio della nostra volontà, di ciò che ci rivela, al di fuori di noi, che questo principio non risulta affatto nostro, poiché noi siamo vinti nella vita e siamo vinti nella morte.
In che modo dunque questa contraddizione sconcertante si profila nella nostra conoscenza, laddove sembrava che nulla potesse affiorare che non fosse espressione di una volontà recondita e, diciamo così, un estratto dell'iniziativa interna ovvero dell'azione spontanea?
- Ma prima di dare una spiegazione di questo fatto inevitabile, raccordandolo alle sue scaturigini, ci incombe il compito prioritario di constatarlo adeguatamente.
I.
Supponete che l'uomo faccia tutto sulla falsariga di quanto vuole, che ottenga quello che brama, che animi l'universo a suo piacimento, che organizzi e produca secondo i suoi desideri l'ordinamento complessivo delle condizioni su cui fonda la propria vita.
Resta il fatto che egli non ha posto questa stessa volontà, e che non l'ha determinata così come in effetti è.
E anche se non trova nell'utilizzo che ne fa nulla che la contrasti, tuttavia scopre in fondo a se stesso questa contraddizione originaria: vuole, ma non ha voluto volere.
In effetti non basta che la traversata sia favorevole.
Perché mi sono imbarcato? Non c'è in questo una costrizione inesplicabile, che inquina proprio alla sorgente ogni azione umana, anche la più felice?
Può un cuore nobile e generoso accettare anche il più grande dei beni, se è imposto?
Indubbiamente la maggior parte degli uomini non possiede né abbastanza perspicacia né, forse, abbastanza orgoglio per avvertire tutta la singolarità di questo problema.
Però tutti hanno il sentimento acuto di non appartenere a se stessi.
Sanno che non trovano in sé né l'origine, né la sussistenza, né il fine della loro azione.
E pensarvi costituisce per loro un cruccio.
È vero che la malia delle cose futili è assai potente.
È vero che a giudizio dei sensi o allo sguardo della scienza l'universo è abbastanza vasto, abbastanza popolato e curioso per creare miraggi, ma solo per coloro che vogliono essere ingannati.
Con quale ragionamento capzioso spesso ci divertiamo ad accumulare inezie!
E quando abbiamo percepito l'insufficienza di ciascuna minuzia, come ci convinciamo presto che almeno l'insieme è sufficiente!
Allora centomila inezie sembrano formare qualcosa.
Senza dubbio ci vuole un'estrema perspicacia per vedere chiaramente la miserabile pochezza delle conoscenze, delle gioie e dei successi umani, e per tracciare esattamente il limite di tutto ciò che risulta così vasto allo sguardo infantile.
Ma ci vuole una perspicacia ancora maggiore per figurarci di averne un appagamento.
E vi riusciamo solo facendo di tale appagamento e di questo egoismo ironico un nuovo idolo.
È stato merito di una critica lucida mettere a nudo l'inanità delle soddisfazioni apparenti offerte da tutta la gamma delle superstizioni umane a una coscienza bramosa di appagamento.
Che giova all'uomo guadagnare l'universo?
Tutto quello che ha non gli basta, e non gli sembra nulla quando lo ha, perché non basta a se stesso, perché non possiede se stesso.
E tutto quello che aggiunge a questo cibo stuzzicante la fame è cibo poco sostanzioso.
Egli si disgusta degli idoli via via che li insedia nei momenti culminanti della sua vita.
E li innalza solo per infrangerli, come se avvertisse in anticipo che la sua mano apporrà questo coronamento solo per protervia sacrilega.
Ma come il malato, anche quando non ha più speranze, vuole fare ancora qualche cosa per guarire, quante persone acconsentono a essere gabbate, e non vogliono sapere che lo sanno!
Sono commoventi e insieme sciocche quelle illusioni volontarie che sopravvivono alle delusioni più illuminanti, quei sacrifici talvolta eroici che si fanno per puntiglio, per cameratismo, per solidarietà umana, per spirito di corpo, per convenienza, mentre d'altra parte si sa di farli solo per abitudine, con noia, per nulla.
Da tutto ciò bisogna ricavare soltanto una confessione, sempre la medesima: la volontà umana non può custodirsi interamente in sé, perché non deriva interamente da sé.
Per quanto grande sia il cerchio, l'azione lo fa sempre esplodere.
Essa non è padrona di limitarsi.
Nella sua forma astratta, « la volontà è obbligata a volere se stessa », il problema può risultare artificioso o inutile.
E tuttavia nella verità della vita esprime la grande tirannia che sembra gravare sul cuore umano, ed è il principio delle sue pene più profonde.
Alla scaturigine dei nostri atti ci sfugge un'incognita misteriosa.
È come un germe di sofferenza, di oppressione e di morte seminato nella nostra stessa volontà.
Noi non abbiamo voluto ciò che è capitale in noi stessi.
Abbiamo il sentimento invincibile di portare un giogo e di non appartenerci.
È vero che abbiamo potuto accogliere e fare nostro tutto il resto.
Ma tutto il resto non è niente a confronto del fatto che vogliamo.
Anzi meno che niente, è dolore, finché la volontà non ha accolto, compreso e recuperato se stessa.
II.
Indubbiamente la lezione della sazietà è forse quella più probante di qualsiasi altra.
Immesso nell'azione, l'universo non la satura.
Accostarsi allo scopo significa allontanarsi dal desiderio.
E la volontà, che attraversa quasi con un balzo tutte le gratificazioni apparenti in cui si imbatte, si ritrova alla fine di fronte a un vuoto più insondabile.
Ma non tutti sembrano ugualmente in grado di comprendere questo insegnamento.
Quante poche persone vedrebbero chiaro, se bisognasse sperimentare e intendere tutto per ricevere la grande luce del disgusto e del distacco!
Non è possibile, ma non è neppure necessario, esaurire il mondo per avvertire che non ci dissetiamo con esso.
Un'amarezza più forte, un altolà più brutale e diretto ci rendono edotti delle contraddizioni insolenti cui siamo esposti.
Questa lezione è la sofferenza, la sofferenza che defluisce inesauribile dalla nostra misera sostanza di uomini, e che ha spinto istintivamente tanti occhi a sollevarsi, tante braccia a tendersi verso un liberatore.
È vero che certi ostacoli possono essere superati, certe resistenze possono essere vinte, certe sofferenze possono essere comprese, accettate e usate come stimolo salutare di un'attività che riesce a farle rientrare nel piano volontario di una vita felice.
Ma nonostante tutta l'energia possibile e malgrado la tattica più abile, quante volte il dolore infierisce al punto da spingere l'uomo a rimpiangere di essere nato!
Non si da spiegazione sufficiente o deduzione possibile di quella sofferenza che distrugge una vita senza ucciderla, o la uccide senza averla deprivata della sua attrattiva: è lo scandalo della ragione.
Che importano le formule astratte di cui ci lusinghiamo, o le teorie generali di cui ci corrediamo?
Che differenza incalcolabile tra ciò che si sa e ciò che si sente!
Possiamo ben accettare e prevedere le fatiche e i fastidi del lavoro, i rovesci della fortuna, i tradimenti della vita.
Sempre ne restiamo sorpresi e oppressi, perché colpiscono non dove avevamo temuto, e in modo diverso da come ci aspettavamo.
E non è ancora niente conoscerli con la nostra mente.
La cosa atroce è provare la delusione e quasi la tortura della volontà impotente: « Allora è impossibile; allora è inutile, non cambierà niente; per sempre! ».
- Il male, la sofferenza, esattamente come la morte, non sono soltanto fatti che si esibiscono all'osservazione positiva, o conseguenze che scaturiscono dalla ragione, o mezzi voluti dall'uomo in maniera recondita.
Al contrario, costituiscono l'opposizione straziante tra il fatto e la ragione, il conflitto tra il reale e una volontà il cui primo movimento è l'odio e la rivolta contro il reale.
E queste smentite insolenti non nascono soltanto dal di fuori, ma anche dal di dentro.
A che serve parlare di libertà? Deboli come siamo di fronte alla seduzione, fiacchi nell'iniziativa, senza energia per la resistenza, se vogliamo discernere il bene dal male sbagliamo; se tentiamo di fare il bene veniamo meno; se ci cimentiamo a combattere il male veniamo vinti.
Non soltanto dobbiamo subire ciò che non vogliamo, ma neppure vogliamo veramente ciò che vogliamo.
Prima di prendersela con gli altri, la volontà se la prenda con se stessa!
Essa si sente corrotta fin nelle midolla, senza sapere come.
La cosa che le fa difetto è pensare a volere e a fare ciò che ha voluto fare e pensare.
E mentre le decisioni svaniscono quasi nel nulla senza lasciare tracce, in noi e contro di noi si organizza una vita parassitaria che soppianta l'iniziativa personale.
Punta dall'insetto, la foglia è obbligata a emettere abbondante linfa per avvolgere e nutrire il suo nemico: immagine della passione che assorbe e divora la migliore sostanza dell'anima.
Possiamo subire ciò che non vogliamo, non fare tutto ciò che vogliamo, fare ciò che non vogliamo e finire per volerlo: mai sfuggiamo totalmente a questa fatalità umiliante e dolorosa.
Essa ci rivela, in base agli stessi fatti e ai nostri propri atti, ciò che non vogliamo.
Ci costringe a mettere in evidenza ciò che ci resta da volere perché vogliamo tutti i fenomeni, e più ancora perché vogliamo la stessa volontà che li produce così come sono, spesso nostro malgrado.
Eliminando ciò che sembra conforme ai nostri desideri intimi, essa mette in luce ciò che viene comunque imposto all'uomo senza ch'egli vi abbia ancora acconsentito, sia esso favorevole o contrario alle sue profonde aspirazioni.
III.
Laddove questa soggezione si esprime in maniera forse ancora più inesorabile è nell'impossibilità di rimediare ai nostri atti, e di lavarne le inevitabili macchie.
- « Come! Non sono abbastanza forte da disfare ciò che ho avuto abbastanza forza di fare? » No.
- « Come! Sarei incapace di cancellare totalmente ciò verso cui sono stato abbastanza debole da non potermi impedire di commettere? » Sì.
In verità sarebbe assai comodo sconfessare con un decreto, compensare con un atto ciò che un atto ha prodotto, come se, dopo averne fruito i vantaggi, non dovessimo fare altro che sputarne il duro nocciolo.
- Ciò non soltanto sarebbe ingiusto, è impossibile.
Ciò che ho fatto non l'ho mai fatto e basta: al di fuori e al di dentro di me il passato è per sempre.
Infatti al di fuori le nostre opere, come figli disgiunti da noi, agiscono a loro volta senza il nostro consenso.
Ma i figli muoiono, mentre gli atti vivono e sono indistruttibili.
Sarebbe bello per noi convincerci che non abbiamo fatto niente di reprensibile e di compromettente, sperare che il bene possa scaturire dal male stesso con un facile accomodamento, e che felici compensazioni o coraggiose espiazioni rimettano perfettamente a posto tutte le cose.
Ma questo desiderio è una chimera.
C'è una specie di torto che è irreparabile.
Ed è purtroppo vero quello che più ci fa orrore credere: l'azione è indelebile.
Nessun risarcimento costituisce mai una riparazione assoluta.
Nessuna espiazione, nessuna pena messa su un piatto della bilancia fa sollevare l'altro piatto.
Le conseguenze si ripercuotono all'infinito nel tempo e nello spazio, come per rivelarci l'energia interiore dell'azione con la grandezza visibile dei suoi effetti.
Chi non ha avvertito fino all'angoscia la contraddizione di un passato che risulta morto solo per essere suggellato e irrevocabile come un testamento!
Al di dentro, sulla nostra condotta pesa una fatalità che, proprio perché è meno appariscente, è tanto più tremenda.
Probabilmente il peggio non è che non possiamo cambiare i nostri atti, ma che i nostri atti ci cambiano, al punto che non possiamo più cambiare noi stessi.
- Talvolta desidereremmo non accettare le conseguenze vantaggiose di un nostro errore come punto di partenza per il futuro.
Ma l'effetto corruttore dell'azione è precisamente quello di provocare nuovi giudizi e di rovesciare le prospettive interiori della coscienza.
- Talaltra desidereremmo rompere con un passato opprimente e tirannico che ci espone senza soluzione a nuovi compromessi per la logica stessa del disordine.
Ma per ritornare indietro e per rimuovere, con l'impulso colpevole, tutta la covata di desideri ignobili sbocciati nell'ombra, ci vorrebbe qualcosa di più di un timore egoistico o di una velleità di saggezza e di rettitudine.
Chi dunque è capace di questa lacerazione più radicale che apre al sole il fondo di una coscienza?
Vi sono momenti in cui le passioni parlano e decidono come se lasciassero all'uomo solo il diritto di stupirsi dell'ispirazione malvagia che fanno trapelare; una rivelazione questa, che talvolta è violenta come un colpo di Stato e improvvisa, ma dopo quale lunga premeditazione e quali malignità impercettibili!
In tal modo quindi, prima, durante e dopo i nostri atti, c'è dipendenza, costrizione, deficienza.
È per l'appunto questo fondo di schiavitù e di debolezza che viene costretto a svelarsi dall'urgenza dell'azione.
Sappiamo che abbiamo fatto e abbiamo voluto quello che non volevamo e che forse non vorremmo più.
Ma la macchia resta. E in effetti che cosa vuol dire macchiarsi, se non mescolare insieme due volontà ostili?
Una che palesemente prende lo slancio unicamente in se stessa, l'altra che immette nella corrente dell'azione l'inquinamento di un'acqua estranea.
Se l'impotenza che l'uomo avverte di portare a compimento da solo la più piccola delle sue opere l'ha indotto a tutte le forme della superstizione, l'impossibilità in cui si trova di governare con padronanza assoluta la propria vita e di purificare se stesso gli ha ispirato tutta la gamma di suppliche, preghiere e sacrifici di propiziazione.
- Se non avessimo misurato dapprima l'intera potenza della volontà umana, se non avessimo per nulla percorso lo splendido sistema dei fenomeni che essa riesce a organizzare, forse queste constatazioni non sembrerebbero definitive, e neppure queste contraddizioni insolubili ovvero queste condanne senza appello.
Ma dopo l'analisi dell'azione non c'è più scappatoia: è un fatto.
E la forza di questo fatto è che esso è appurato col metodo scientifico dei residui.
Individuando tutto quello che abbiamo potuto, vediamo con precisione tutto quello che non possiamo.
E se abbiamo esibito la possibilità, fino al paradosso, non l'abbiamo fatto per far sentire fino all'evidenza la debolezza del volere umano?
Ciò che non possiamo fare o disfare come vogliamo dimostra che non vogliamo con piena indipendenza neppure quello che riusciamo a produrre o a sanare.
Ma allora, questo enorme sforzo tentato dall'uomo per sollevarsi verso qualche cosa è forse sembrato riuscire, in un primo momento, soltanto per ricadere a un livello ancora più misero?
Partita come conquistatrice vittoriosa, la volontà è forse condannata al fallimento per la stessa grandezza delle sue ambizioni?
Si tratta evidentemente di una delusione tanto più irrimediabile m quanto la volontà incorre in un simile fallimento non per difetto nell'aver agito o acconsentito a tutto quello che le si presentava, ma per aver esaurito tutto, per essersi prestata a tutte le esperienze, per aver affrontato le sofferenze e le bruttezze della vita.
Agire è un bene, per un certo tempo: è una cura, una specie di psicoterapia, che rinfocola un po' di fiducia, offrendo a chi vi si sottopone la splendida illusione di una fede o di un amore fecondo.
Ma dopo? Vivere per vivere non è in fin dei conti assurdo e penoso?
Ha voglia l'uomo di cercare in sé o fuori di sé, nell'infinito della scienza o dell'universo.
Egli è ancora solo, e non può restare solo.
Questa impotenza avvertita non è effetto della sua ignoranza.
Al contrario, più sa, più ha, più è, e più altresì si rinfocola la coscienza che non ha affatto, che non è quello che vuole.
Si direbbe che introiettando in sé tutte le soddisfazioni dei sensi, della mente e del cuore, non faccia che scavare un abisso.
Nella gioia come nella sofferenza, nel successo come nel fallimento, nel possesso come nell'indigenza, eccolo ugualmente costretto a questa dura constatazione: qualunque cosa la volontà sia riuscita a raggiungere con le sue sole forze, l'azione non è ancora equiparata al volere da cui procede, la volontà non ha ancora voluto se stessa integralmente.
I fallimenti palesi dell'azione, le sofferenze o le deficienze che l'attraversano e la gravano, le macchie di cui è incapace di lavarsi, la morte e tutto questo determinismo delle contraddizioni pratiche non fanno che rivelare in modo più perentorio questa impotenza radicale.
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