L'azione |
È un fatto: in fin dei conti le pretese umane ricevono una totale smentita.
Qualunque cosa abbiamo guadagnato da ciò che abbiamo voluto, se ci collochiamo allo stesso livello delle cose volute, la bancarotta è inevitabile.
Ma questo fatto, come tutti gli altri, si manifesta necessariamente alla coscienza solo in seguito a un'iniziativa più profonda.
Si tratta di un effetto che bisogna raccordare, con un legame di necessità, alla sua causa, prima di individuare quale ne è per forza di cose l'efficacia, prima di comprendere come anche questo effetto rientra nel determinismo della volontà.
Tre proposizioni riassumono questo concatenamento necessario.
- Il sentimento del fallimento palese della nostra azione è un fatto solo in quanto implica in noi una volontà superiore alle contraddizioni della vita e alle smentite empiriche.
- La presenza in noi di quello che non è voluto mette in evidenza la volontà volente in tutta la sua purezza.
- E questo meccanismo interno non fa che manifestare la necessità in cui si trova la volontà di volere e di porre se stessa.
L'essere che abbiamo lo subiamo.
Ma allo stesso tempo non possiamo fare a meno di farlo nostro come se fosse di nostro pieno gradimento.
Pertanto, grazie a una progressione inevitabile dell'analisi, che mette semplicemente in luce una verità già vivente in noi, siamo indotti a volere non tanto l'oggetto, non tanto il fatto, ma l'atto o l'essere medesimo della volontà.
Ci resterà da vedere che cosa comporta, che cosa suppone questa nuova necessità.
La potremo ancora giustificare in noi stessi davanti ai nostri occhi?
I.
L'esperienza della vita e della morte, della persona e delle sue possibilità, della sua azione, della sua sofferenza e delle sue deficienze non è ne totalmente empirica ne puramente a posteriori.
No, il male, il dolore e la morte non sono fatti totalmente positivi, non sono cioè di quei fatti che si possono constatare senza introdurvi prima un'ipotesi nascosta o un desiderio, urtando contro il quale la realtà produce la coscienza di una semplice negazione.
Sono fatti soltanto per contrasto, per effetto di un'opposizione interna tra la volontà voluta e la volontà volente.
Solo questo conflitto spiega in noi il sentimento di una dipendenza, di una privazione o di una « inibizione », in una parola la stessa coscienza e la riflessione.
Coscienza non più soltanto dei fenomeni che accadono in me, ma di me stesso nel quale quei fenomeni accadono.
Coscienza del fenomeno in quanto fenomeno, ossia di ciò che non è autosufficiente e non può sostenersi da solo.
Dunque riconoscere l'insufficienza di qualsiasi oggetto esibito alla volontà, sentire la debolezza della condizione umana, fare l'esperienza della morte significa manifestare un'istanza superiore.
Quei fatti sono possibili, sono reali, sono coscienti soltanto in seguito a un'iniziativa che li preceda.
Chi pone il problema dell'essere e dell'immortalità ne ha già in se stesso la soluzione, grazie all'energia nascosta di una specie di argomento ontologico, ma di un argomento che non si basa su una dialettica delle idee, di un argomento che sviluppa semplicemente l'energia reale e attuale del volere umano.
Non dunque l'immortalità, ma la morte stessa è contro natura, e la sua nozione ha bisogno di spiegazione.
Non siamo noi a essere nel tempo e nello spazio, ma sono lo spazio e il tempo a essere in noi.
Se la morte è un fatto e un fenomeno palese, le azioni viceversa non muoiono.
Il fatto di morire viene constatato e compreso perché possediamo la certezza implicita di sopravvivere.
Poco fa sembrava che un determinismo esteriore, e di conseguenza sconcertante e inintelligibile, si fosse eretto contro il determinismo interno dell'azione voluta.
Ecco che adesso cominciamo a intravedere come l'uno si raccorda con l'altro.
Le contraddizioni in apparenza più ripugnanti alla volontà servono unicamente a mettere in luce il suo invincibile attaccamento a se stessa.
Tramite quello che nega, essa afferma e costruisce se stessa in modo indistruttibile.
Falsificate tutto quello che è voluto, per lasciare sussistere solo ciò che non è voluto: questo metodo rigoroso di falsificazione rivela con maggiore precisione il referente che vuole, e attribuisce al volere unicamente la risorsa del volere.
È quanto dobbiamo capire bene.
Ma come bisogna stare attenti a non intendere male il senso di queste constatazioni necessarie!
Intenderle male non significa rimuoverle o impedirne gli effetti.
Ma questi stessi effetti possono essere stravolti da una falsa interpretazione, portando fuori strada la volontà riflessa sul terreno dell'opzione suprema, alla quale ben presto essa sarà indotta per forza di cose.
È dunque importante comprendere convenientemente l'apparente fallimento dell'azione, e mostrare attraverso quali passi successivi arriviamo a constatare questo fatto, questo fatto decisivo di cui resteranno da determinare le conseguenze necessarie.
II.
Nello scoraggiamento di non poter approdare subito dove pareva portarla il fuoco divorante della sua ambizione, la volontà delusa di tutto ciò che ha voluto ricadrà forse nel nulla, come ha immaginato il pessimismo?
Ma questo nulla, che talvolta essa sembra desiderare e presagire, non esiste ( e per tagliarle la strada di questa pseudo-ritirata è stato bene fin dall'inizio dissipare ogni fittizia speranza dei disperati ).
Abbiamo visto che nessun autentico appetito brama questo nulla.
Questa via del nulla è stata chiusa irrimediabilmente con un muro.
E come un ostacolo che oppone una resistenza infinita, questo baluardo ricaccia indietro con la sua impenetrabilità lo slancio di cui riceve l'impatto.
Proprio mentre sembra anelare all'inabissamento nel nulla, la volontà, che avendo esaurito il fenomeno da a intendere di gettarsi nel nulla, rimbalza in se stessa.
E vi ritrova il suo essere peculiare e autentico, lo sappia o no chiamare col suo nome.
Nonostante un carattere di necessità apparente, l'indistruttibile attaccamento della vita alla vita è l'effetto di un'adesione radicale della volontà alla propria natura.
Solo la volontà è abbastanza forte per sbarrare la strada al volere e impedirgli di distruggersi.
Indubbiamente questo è un modo di parlare all'immaginazione.
Ma viceversa sotto queste parole, che mentre servono a polarizzare la mente, sembrano falsare le procedure naturali del pensiero con una specie di precisione artificiosa, bisogna discernere un'azione più precisa, più certa, più immediata della volontà, una volontà che non ha bisogno di operazioni complicate, di dialettica scientifica, di momenti successivi per giungere a questa conclusione: « Io voglio; e niente di quello che è voluto mi soddisfa, anzi, se non voglio niente di quello che è e di quello che sono, è perché voglio me stesso più di tutto ciò che è e di tutto quello che sono ».
Cessiamo forse di desiderare quello che abbiamo desiderato perché in effetti non raggiungiamo subito il traguardo che anelavamo conseguire?
No, noi lo desideriamo ancora, desideriamo ancora di più.
Non abbiamo trovato che sia troppo per noi tutto questo splendido cosmo dei fenomeni in cui la scienza si muove a proprio agio.
Anzi troviamo che è troppo poco.
E quando dure contraddizioni ci strappano dalle mani quello che pensavamo possedere, forse che, togliendoci il cibo, ci tolgono anche l'appetito?
Sia che si tenga stretto l'oggetto offerto al desiderio, sia che lo si disdegni, è un'identica aspirazione che eccita questa fame o provoca questo disgusto.
Le gratificazioni apparenti o provvisorie hanno potuto mascherare questo bisogno, ma esso era già presente.
Le prove lo svelano.
In quello che vogliamo come in quello che non vogliamo c'è qualcosa che vogliamo al di sopra di tutto.
Dunque nell'azione voluta risulta esserci un contenuto reale di cui la riflessione non ha ancora adeguato lo spessore.
Sembra trattarsi di conclusioni totalmente negative: impossibilità di fermarsi e di appagarsi.
Ed è per questo che sono totalmente positive.
Esse significano: necessità, non di indietreggiare, ma di andare avanti.
La testimonianza più certa è quella che, ingannata da un'apparenza superficiale, in realtà depone contro quello che crede di appurare.
Quindi laddove si dice: nulla del fenomeno, insufficienza del fenomeno, fallimento e insensatezza dell'azione umana, bisogna tradurre: necessità e bisogno di altro, altro di fronte a cui il fenomeno sembra unicamente un nulla.
Sicché, viceversa, per riprendere il linguaggio delle apparenze, è questo altro che sembra nulla, poiché è fuori dei fenomeni.
Senza questo altro i fenomeni non esisterebbero, e senza i fenomeni noi non conosceremmo questo altro.
Perciò da un identico volere procedono sia il proposito di accertare il fenomeno, sia l'impossibilità di attestarsi in esso, sia il movimento di contraddizione che sembra far fallire l'azione, sia l'indistruttibilità di tutte queste aspirazioni naturali.
In una parola, tutto quello che abbiamo voluto fin qui non può più non essere, e non può neppure rimanere semplicemente quello che è.
Questa duplice necessità, in apparenza contraria, è fondata ugualmente su un solo disegno totalmente coerente con se stesso.
Ed è l'unità di questo determinismo che lo rende intelligibile.
III.
A quali profondità non siamo portati?
Se pure non volessimo niente del tutto, vorremmo noi stessi.
E volendo noi stessi, ratifichiamo ciò che fa sì che tutto il resto sia per noi.
Ed ecco giustificata e quasi accettata con favore ogni apparente costrizione che via via è risultata pesare su di noi.
Ma nella misura in cui la necessità recede davanti a una volontà che la assume come piattaforma, quella non ricompare al di là di tutto in maniera più imperiosa?
Siccome il determinismo continua a svolgere la sua catena, non finiamo per ricadere sotto i colpi di un dispotismo più tirannico che mai?
Ci è imposto di volere noi stessi, ci è imposto di imporci a noi stessi.
Non ci sottraiamo al bisogno di renderci conto anche di questa necessità.
Essa ha nella coscienza il suo contraccolpo obbligato e la sua espressione naturale.
Quindi a questo punto bisogna discernere come si rivela alla coscienza.
In effetti dal conflitto che travaglia qualsiasi coscienza nasce inevitabilmente un'alternativa ultimativa, e per forza di cose bisognerà sciogliere quest'alternativa.
Ora la scienza deve seguire il determinismo dell'azione fino a questo problema e a questa soluzione necessaria.
È fuori discussione che questo problema tragico certamente non si prospetta alle coscienze sotto questa forma astratta.
Ma poco importa il modo di presentare il conflitto che sorge in noi, se di fatto vi sorge.
La vita è più sottile di qualsiasi analisi, più logica di qualsiasi dialettica.
La cosa che si avverte di primo acchito, senza aver bisogno di poterla esprimere, è che la volontà non si accontenta di nessuno degli oggetti che ha voluto.
C'è sempre di meno in quello che è fatto o desiderato che non nel referente che fa e desidera.
Il risultato sembra quasi una caricatura o una contraffazione della sua vera causa.
Quindi la difficoltà da cui partivamo rimane integra: è possibile volere se stesso?
E qual è il senso vero di questa ambizione necessaria?
Dissociato tra ciò che faccio senza volerlo e ciò che voglio senza farlo, sono sempre, diciamo così, escluso da me stesso.
Come dunque rientrare in me stesso, e immettere nella mia azione ciò che senza dubbio vi si trova già, ma a mia insaputa e fuori della mia portata?
Come adeguare il soggetto al soggetto medesimo?
Per volere pienamente me stesso occorre che io voglia più di quanto non abbia saputo trovare finora.
Dunque, imbattendomi nella necessità ultimativa della volontà, debbo determinare quello che voglio, affinché possa voler volere in maniera assolutamente piena.
Sì, occorre che io voglia me stesso.
Ora è impossibile che io attinga me stesso direttamente.
Da me a me stesso c'è un abisso che niente ha potuto colmare.
Non c'è scappatoia per sottrarmi a questa distretta, non c'è passaggio per andare avanti da solo: chi uscirà da questa crisi?
* * *
Impossibilità di fermarsi, impossibilità di tornare indietro, impossibilità di andare avanti da solo: da questo conflitto che sorge in qualsiasi coscienza umana scaturisce per forza di cose il riconoscimento dell' « unico necessario ».
Che lo si sappia nominare o meno, è la via per la quale è impossibile non passare.
Perciò in questa sede non si tratta di cercarne una definizione metafisica.
Bisogna farne oggetto di studio non nella misura in cui la conoscenza presume di penetrare nel suo spazio, ma nella misura in cui la sua azione compenetra e promuove la nostra.
Lui pure rientra nel dinamismo della coscienza: grazie alla presenza di questa idea che lavora tacitamente le anime, la vita volontaria riveste per forza di cose un carattere di trascendenza.
Il conflitto dunque si risolve in un'alternativa, la quale, dati i termini contraddittori del dilemma, esige un'opzione ultimativa, e sola permette alla volontà di volere se stessa liberamente quale anela essere per sempre.
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