L'azione |
L'azione non si completa nell'ordine naturale.
Ma il solo termine del soprannaturale non costituisce lo scandalo della ragione?
E il solo atteggiamento del filosofo di fronte a una tale incognita non è quello di ignorarla o, in maniera più decisa e più schietta, di negarla? - No.
Negarla o ignorarla è proprio il contrario dello spirito filosofico.
Lungi dall'invadere un campo riservato, bisogna mostrare che qualsiasi invasione reale è impossibile.
Da questa stessa impossibilità scaturisce una relazione necessaria.
E tocca proprio alla scienza razionale indagare sull'indipendenza assoluta e sulla necessità di quest'ordine superiore.
Proprio a proposito del soprannaturale è quanto mai giusto ripetere l'espressione di Aristotele riguardante la filosofia prima: « Se non si deve filosofare, si deve appunto filosofare ».
Non si può mettere da parte la metafisica se non con una critica metafisica.
E allora la pretesa di pronunciarsi contro quello che in ipotesi è estraneo all'ordine filosofico non eccede forse, in questo suo giudizio sommario, la competenza filosofica?
Allo stesso modo due proposizioni superano lo stretto ambito di diritto della scienza puramente umana: « Non è ». - « È ».
Ora, dimostrare che è impossibile alla filosofia respingere o costituire con le sole sue forze una verità, un'azione, una vita superiore alla natura, è ancora di spettanza del filosofo.
E tuttavia questa critica in apparenza del tutto negativa, la quale rimane sul terreno stesso di coloro che presumono ignorare quello che in effetti negano, ha necessariamente un risultato assai positivo.
Assodare che è impossibile avanzare su questo argomento una negazione valida significa di fatto appurare, non tanto che « è » ( essendo la fede, in ipotesi, un dono gratuito ), ma che « è possibile », poiché non è possibile dimostrare che è impossibile.
Peraltro non bisogna credere che la supposizione del soprannaturale sia puramente arbitraria.
Se lo fosse, si sarebbe autorizzati di fatto a lasciarla cadere come una finzione chiaramente inconsistente.
Ma tutto il discorso fatto in precedenza ha come risultato di indurre in noi la coscienza di una sproporzione insanabile tra l'impulso della volontà e il termine umano dell'azione.
Perciò, studiando le condizioni dell'autenticità integrale, cercando di definire le disposizioni di una volontà totalmente buona e conseguente, non abbiamo ritenuto di intravedere che ci fosse un continuo sottinteso?
A riprova, non tanto che questa indagine nascondeva un secondo fine o intenzioni artefatte, ma che corrispondeva al movimento recondito di una coscienza che, precorrendo il lento cammino dell'indagine, né sa già più di quanto non affetti di sapere, e che volentieri si stupirebbe di vivere nel contesto di verità, dogmi e tradizioni antiche di cui aveva perduto il senso e che ritrova come delle novità.
Ma non è tutto, perché di questa disposizione, che la prassi di vita autentica fa nascere nella solitudine della coscienza, incontriamo anche la testimonianza vivente intorno a noi.
Certo, si tratta di testimoni, μάρτυρες, forse importuni e indiscreti; ma la loro condizione di spirito richiede un po' di quella curiosità partecipativa che si accorda a tanti altri.
Infatti, vivendo nel contesto di questa cultura storica e scientifica che viene sbandierata loro, in quest'epoca di critica e di naturalismo, molti di loro sanno almeno come stanno le cose.
Capiscono le critiche e conoscono il disprezzo degli spiriti forti.
Essi pure pronunciano il motto che si dice a loro riguardo: Stultitia et scandalum.
Se passano oltre, hanno probabilmente le loro ragioni; ed è interesse della scienza conoscerle, così come si conosce un rito buddistico.
Ci si chieda soltanto se i motivi che abbiamo per negare non siano esattamente quelli che dovrebbero indurci ad affermare e a volere quello che respingiamo e disprezziamo!
Sarebbe dunque strano che fosse interesse della scienza escludere quello che non è suo interesse ammettere.
Come se la dimostrazione negativa non fosse in se stessa più difficile da argomentare della dimostrazione positiva.
Infatti, per negare la mera possibilità logica del soprannaturale bisognerebbe far leva su un'impossibilità di fatto.
Ma noi non comprendiamo fino in fondo il minimo dettaglio del più insignificante dei fatti abituali.
Non sappiamo neppure quello che facciamo.
E poi pretenderemmo dire: ecco quello che è possibile, ecco quello che non lo è.
In un certo senso tutto è soprannaturale e niente lo è, perché in ogni atto, o meglio ancora in ogni fenomeno, rimane un mistero irriducibile in tutto ciò che conosciamo.
L'esperienza sensibile è un mistero, eppure tutti ci credono, e sull'autorità dei sensi si costruisce una scienza.
Ma poi ci si rifiuta di riconoscere che vi sia un altro mistero oltre quello.
Come se grazie a quello che ne conosciamo, avessimo definito e limitato anche quello che ne ignoriamo!
Sarebbe dunque strano che fosse competenza della scienza analizzare la lettera e lo spirito di tutti i culti tranne uno.
Abbiamo forse ritenuto che criticare, come è stato fatto, tutte le forme superstiziose e tutte le fantasie escogitate dall'azione umana per crearsi l'illusione di essere perfezionata significasse oltrepassare i diritti della filosofia? No.
Perché allora essa non dovrebbe avere il diritto di indagare se non vi sia qualche forma religiosa che si sottrae a queste stesse critiche e sulla quale non ha più presa?
Non che sia legittimo pretendere di scoprire con la sola ragione quello che deve essere rivelato per essere conosciuto.
Ma è legittimo approfondire l'indagine fino al punto in cui sentiamo che dobbiamo desiderare qualcosa di analogo a quello che i dogmi ci propongono dal di fuori.
È legittimo considerare questi dogmi, non certo in prima linea come rivelati, ma come rivelatori.
In altri termini è legittimo confrontarli con le esigenze profonde della volontà, scoprire in essi, se vi si trova, il riflesso di nostri bisogni reali e la risposta auspicata.
È legittimo accettarli a titolo di ipotesi, come fanno i geometri, i quali suppongono risolto il problema, e ne verificano attraverso l'analisi la soluzione simulata.
Probabilmente considerandoli sotto questo profilo, rimarremo sorpresi del senso umano di una dottrina che molti reputano non meritevole di un esame più approfondito, e che confondiamo ( secondo una critica opposta, e proprio questa contraddizione dovrebbe far sorgere qualche sospetto ) con un arido formalismo di pratiche, un'affettazione di emozioni mistiche, una consuetudine di cerimonie sensibili, una giurisprudenza casistica, una disciplina meccanica.
Occorre interpretarne bene lo spirito, con l'identica diligenza adibita nello studio di un testo sanscrito o di un costume mongolo.
Sarebbe infine strano opporre al soprannaturale quello che ne costituisce l'unica ragion d'essere e la definizione appropriata.
Esisterebbe forse il soprannaturale, se fosse soltanto un oggetto di studio, una conquista dello sforzo umano, se scaturisse dalla stessa filosofia?
Esisterebbe, se non esigesse dall'uomo nulla che trascenda, sovverta e mortifichi la sua natura?
Esisterebbe, se il dono eminente che in ipotesi apporta alla nostra coscienza non fosse talmente consono alle imperiose esigenze della volontà, da esserci imposto come un dovere, invece di essere facoltativo e supererogatorio?
Abbiamo riflettuto su questo coacervo di incongruenze?
- C'è chi sarebbe pure disposto a riconoscere che l'ordine naturale non è sufficiente per l'uomo.
Ma vorrebbe che il soprannaturale rientrasse nello stesso ordine naturale.
- C'è chi ritiene che la sola nozione di rivelazione non sopporti la discussione razionale.
E non si consente che questa conclusione negativa venga messa in discussione.
Col pretesto del rispetto, il libero esame ricusa proprio l'esame della questione.
- C'è chi di fronte al dogma s'impone una riserva sottintesa, una riserva che il dogma non richiede e che invece condanna.
E proprio agli occhi di queste persone rispettose del dogma, perché non vogliono che sia assoggettato a critica, il dogma rappresenta un'invenzione totalmente umana.
- C'è chi riconosce, con la lucidità di una critica tagliente, l'assoluta inanità di tutte le invenzioni superstiziose, perché fanno derivare dall'uomo soltanto quello che non può venire solo dall'uomo.
E di fronte a una dottrina che condanna tutte le superstizioni e si presenta col sigillo di un'origine superiore, si induce una nuova accusa da questa pretesa che la colloca su un altro piano: la si accusa di essere quello che alle altre si rimproverava di non essere.
- C'è chi attribuisce alle stesse superstizioni qualcosa del valore intrinseco che sottrae alla religione, come se in fondo in fondo tutti i culti fossero equivalenti.
E non si rende conto che le persone che non si accontentano di nessuna forma meramente naturale dell'azione sono le stesse che si sanno accontentare della fede, e a essa acconsentono.
È infatti un identico sentimento che ci educa a sentire il bisogno della fede, a trovare in essa l'appagamento cui aneliamo e ad amare le sue esigenze.
Quelli che attendono e che accolgono la verità sono gli stessi che non ne attendono e non ne accolgono altre.
- C'è chi sembra « in procinto di morire per non poter dare un nome a ciò che adora ».
E se poi quello si da un nome, si strappa le vesti gridando alla bestemmia.
Siamo in presenza di una strana fame, che dietro l'apparenza di un appetito divorante, cela una sazietà, una nausea, un'assenza di qualsiasi fame feconda.
Quando si ama la verità più di se stessi, che cosa costa chinarsi col proprio debole pensiero davanti all'infinità di quello che c'è da credere?
E qui si annida il germe di un'incoerenza ancora più grave, da cui di solito sono originate tutte le altre.
- Sembrava che l'espansione del cuore umano fosse infinita, che il suo bisogno di tenerezza, di dedizione, di felicità meritata, l'unica di cui possa fruire, fosse insaziabile.
Sembrava che fossimo pronti a soffrire e a morire per amore.
Ma di fronte ai sacrifici sensibili o intellettuali che l'egoismo dell'orgoglio o del piacere deve portare alla coscienza, ecco che ci ribelliamo come se si trattasse di tirannia e di intolleranza.
La volontà retta riconosceva che solo la mortificazione dei sensi può aprirci, come il crogiolo di una sperimentazione, a una vita superiore, che niente di sensibile ci deve sedurre nel nostro volere l'essere, che per accogliere colui che attendiamo è necessario che in qualche modo annientiamo noi stessi.
E l'uomo crocifigge per odio chi gli chiede di essere crocifisso per amore.
Il compito della filosofia non è forse di raddrizzare fino in cima la volontà dell'uomo, ricercando sempre nella sua azione ciò che è davvero conforme alla sua intenzione primitiva?
Perciò, senza pregiudizio per alcuna questione specificamente religiosa - che rientra in un altro ordine - è necessario superare con la filosofia gli ostacoli che una filosofia, ostile per partito preso, frappone, senza dubbio a torto, non tanto al contenuto di questa o quella formula dogmatica, quanto alla stessa nozione di rivelazione e alla possibilità, all'utilità di qualsiasi dogma definito.
L'esigenza è che la filosofia abbia il suo ambito specifico e indipendente.
Anche la teologia lo vuole insieme a essa e per essa.
Entrambe esigono una separazione delle competenze.
Esse restano distinte tra loro, ma distinte in vista di un concorso effettivo: non adjutrix nisi libera; non libera nisi adjutrix philosophia.1
La pienezza della filosofia consiste non in un'autosufficienza presuntuosa, ma nello studio delle proprie impotenze e dei mezzi che le vengono offerti dall'esterno per farvi fronte.
È vero o no che questi mezzi si confanno alla sua esigenza?
Indice |
1 | L'espressione ricorre altre due volte nell'opera di Blondel: nella Lettera sull'apologetica ( ed. it., a cura di G. Forni, Brescia, Queriniana, 1990, p. 87 ) e in La Philosophie et l'Esprit chrétien, ove l'autore dice di riassumere il pensiero di san Bernardo espresso nel De Gratta et libero arbitrio. In realtà nel testo di san Bernardo l'espressione non ricorre. Invece nel De consideratione ( in op. cit., III, 442 ) c'è un testo che sembra poter essere all'origine della formula adoperata qui ( e altre due volte ) da Blonde!: " Nam etsi constet in christiana philosophia non decere nisi quod licei, non expedìre nisi quod decet et licei, non continuo tamen omne quod licei, decere aut expedìre, consequens erit ". |