L'azione |
Se fosse necessario ritenere che la stessa rivelazione provenga assolutamente dall'esterno come un dato interamente empirico, anche la sola nozione di dogma e di precetto rivelato sarebbe assolutamente inintelligibile.
Infatti, per ipotesi e per definizione, la rivelazione si serve di intermediari sensibili soltanto come di un veicolo per il soprannaturale, rispetto al quale né i sensi né la scienza sono giudici.
Perciò, senza ancora doversi pronunciare in alcun modo sul valore di ciò che si qualifica come rivelato, è essenziale indagare il meccanismo e la genesi di questa nozione.
Si tratta di una critica che la filosofia non ha quasi neppure avviato.
I.
L'origine della nostra idea di rivelazione non deve essere vista nei segni sensibili, siano essi soprannaturali o meno nel loro principio.
È grazie allo sviluppo dell'attività pratica e allo sforzo compiuto dalla volontà per adeguarsi al proprio impulso che è nato, e abbiamo visto come, il bisogno di una corrispondenza esterna e di un complemento necessario alla nostra azione intima.
Perciò, a seconda della disposizione interiore delle volontà, i medesimi segni rivelatori producono effetti e provocano interpretazioni opposte.
- A colui che ha la pretesa di essere autosufficiente, qualsiasi dottrina o qualsiasi disciplina che si presenti come avente origine soprannaturale risulta una mostruosità più odiosa di qualunque superstizione.
Almeno la superstizione non è che un'invenzione più o meno dichiarata dell'uomo e, diciamo così, un attentato da parte della volontà al mistero universale.
Per chi ha sentito un desiderio dell'infinito, per chi ha coscienza dei bisogni della coscienza, ma senza essere entrato francamente in questa via stretta del trapasso alla vita, a proposito della quale abbiamo mostrato che è la sola strada percorsa da una volontà conseguente, la rivelazione, anche se forse attesa e invocata, rimane opaca, scandalosa, odiosa, dal momento che non è quello che si auspicherebbe che fosse.
In effetti bisogna intendersi sulla natura dei simboli espressivi che soli possono apportare all'uomo, dall'esterno, la risposta positiva che egli reclama.
Essi non potrebbero essere che dei segni ambigui, precisamente perché l'originalità sovrana della vita interiore ammette unicamente quello che essa ha in qualche modo digerito e vivificato.
Quindi tali segni, per quanto eclatanti li supponiamo, non potrebbero avere un'efficacia necessitante, e non possono presentare l'infinito che sotto i lineamenti del finito.
E proprio questo costituisce per gli ingegni sottili uno degli ostacoli più difficili da superare, perché sembra quasi naturale trovare l'assoluto nell'eliminazione del relativo, e la vita soprannaturale nella morte sensibile.
Ma qui sta il miracolo: afferrare l'essere sotto le apparenze sensibili; ammettere che un atto particolare, contingente e limitato, possa contenere l'universale e l'infinito; prendere, nella serie dei fenomeni, un fenomeno che cessa completamente di appartenere a essa.
Le grandezze spirituali non hanno niente di quello sfoggio che imponendosi ai sensi costringe all'assenso, niente di quell'evidenza che violenta l'intelligenza senza salvare la piena libertà del cuore.
Ciò che di esse è visibile agli occhi ed è evidente al pensiero sembra contraddire e nascondere la loro invisibile bellezza.
Sicché sarebbe quasi più facile credervi senza l'apporto del sensibile e del ragionevole presente in esse.
Questo miscuglio di luce e di ombra costituisce un singolare indizio dello spirito, per cui in mancanza della piena luce sembrerebbe che sia possibile unicamente la piena notte.2
E tuttavia non è forse questo il desiderio espresso del cuore, l'invocazione insistente della volontà?
Chiediamo che l'inaccessibile si renda accessibile, e poi se il fattore mirabolante risulta esaurito, ci rifiutiamo di credervi come se fosse uno scandalo troppo forte per la ragione.
Ecco perché quello che soggioga e illumina gli uni è anche quello che indurisce e acceca gli altri.
Signum contradictionis.
Ci si imbatte in un tale groviglio di contrari, che i malintenzionati trovano sempre qualcosa per cui ostinarsi, e invece i credenti qualcosa di utile al loro comportamento e di illuminante per la loro intelligenza.
È così che, talvolta, un uomo troppo lucido alla gente comune appare enigmatico, ed esiste una follia apparente come quella di Amieto, la quale non è altro che l'espressione energica e cruda, fuori delle convenzioni banali, della ragione perspicace.
Quindi, per quanto necessari, i segni non sono mai sufficienti.
La cosa decisiva è l'interpretazione, il bisogno interiore, poiché dipende da questa disposizione che la luce sia accecante o che le tenebre facciano risaltare in maniera più vivida la luce.
Infatti per chi sa intenderlo, il mistero stesso è una nuova illuminazione, perché propone come oscuro ciò che giustamente deve eccedere la capacità di uno sguardo limitato.
E gli stessi miracoli, di cui nessuna scienza può dire che sono impossibili, dato che la scienza si pronuncia unicamente sul reale e non sul possibile, gli stessi miracoli possono essere altro che una sfida alla ragione comune, sempre pronta a farsi da parte nelle sue consuetudini abitudinarie?
Tale provocazione a sua volta soddisfa o irrita i cuori, a seconda della loro disposizione.
Questi colpi bruschi agiscono solo in quanto se ne coglie, non certo l'aspetto prodigioso sotto il profilo sensibile, ma il senso simbolico.
E qual è questo senso? Nessun fatto, per quanto singolare e impressionante, è impossibile.
L'idea di leggi fisse nella natura non è altro che un idolo.
Ogni fenomeno è un caso singolo e una soluzione unica.
Volendo andare a fondo, non c'è dubbio che nel miracolo non c'è niente di più che nel più insignificante dei fatti ordinari, ma altresì nel più ordinario dei fatti non c'è niente di meno che nel miracolo.
Ed ecco il senso di quei colpi bruschi, eccezionali, che inducono la riflessione a conclusioni più generali.
Essi rivelano che il divino non sta soltanto in ciò che evidentemente trascende le possibilità ordinarie dell'uomo e della natura, ma ovunque, anche laddove reputiamo volentieri che l'uomo e la natura siano autosufficienti.
I miracoli quindi sono miracolosi soltanto allo sguardo di coloro che sono già disposti a riconoscere l'azione divina negli avvenimenti e negli atti più consueti.
La natura è talmente smisurata e varia da essere ambigua a tutti i livelli, e quando batte sulle anime da il suono che si vuole da lei.
Quindi all'uomo l'idea di precetti o di dogmi rivelati non può venire ne dalla stessa rivelazione ( nell'ipotesi in cui si dia ) né dai fenomeni naturali ( nell'ipotesi in cui non si dia ).
Questa nozione scaturisce da un'iniziativa interna.
Ma in che modo tale disposizione assolutamente soggettiva potrebbe riconoscere all'esterno, se c'è effettivamente, un alimento pronto per sedare questa fame del divino?
E poi, dopo aver provato l'inevitabile tormento dell'infinito, dopo aver intimato a Dio di sollevare i veli del mondo e di mostrarsi, come ravvisare questa presenza, se è reale?
Come riconoscere questa risposta autentica, se è pronunciata davvero?
II.
Certo, chiediamo a Dio di rivelarsi.
Ma per lo più l'uomo comincia col porre le sue condizioni, come se non cercasse altro che celebrare l'apoteosi dei propri desideri.
Col desiderio di seguire per conto proprio un sentiero più agevole, ha la pretesa che tale sentiero costituisca anche la via giusta.
Di regola, quando non ci abbandoniamo alla volontà di Dio, vogliamo che Dio voglia ciò che vuole l'uomo.
E tuttavia credere in Dio, desiderarlo, invocarlo, tutto questo consenso necessario della coscienza per noi non ha senso, se non in quanto attendiamo da lui quello che non siamo, quello che non possiamo né essere né fare da soli.
Se non lo vogliamo dove è, ciò avviene perché lo vorremmo dove non può essere.
Dove dunque trovarlo, se non laddove la volontà è spinta al di sopra di se stessa per una specie di espropriazione?
E siccome questa abnegazione non è immune da una sofferenza riposta, siccome per essere soprannaturale quest'operazione ha bisogno di crocifiggere le gratificazioni dell'amor proprio, siccome essa tende, secondo le parole di san Paolo, ( Eb 4,12 ) a dividere anima e spirito fino alle giunture più intime e al midollo delle ossa, allora l'identico carattere fa respingere il divino alle persone piene di sé o prive di coraggio, e invece lo rivela alle persone devote, delle quali si può dire che non vogliono saperne di un Dio che non abbia nei loro confronti quelle gelose pretese.
Infatti il grande sforzo del cuore è quello di credere all'amore di Dio per l'uomo.
E chi ha compreso perché l'uomo può e vuole essere amato divinamente come se fosse il Dio di Dio stesso, non si stupisce più che la via dell'annientamento e della mortificazione sia la strada dell'amore pieno.
Chi è buono pretende che si sia esigenti nei suoi confronti.
Quindi una rivelazione si rende utilmente disponibile all'ascolto dall'esterno solo nel vuoto del cuore, nelle anime dedite al silenzio e piene di buona volontà: solo ciò che la rende spregevole e odiosa per gli altri, la rende degna di essere accolta agli occhi di queste persone.
Di sicuro il suono delle parole e la vistosità dei segni non sarebbero nulla, se intEriormente non ci fosse il proposito di accogliere la luce desiderata, il senso già predisposto a giudicare della divinità del verbo ascoltato.
Gli uomini hanno sempre teso l'orecchio e l'occhio, per accogliere quello che non possono vedere e sentire senza morire.
E se hanno creduto di discernere questa parola mortifera e vivificante laddove ancora non risuonava, se le hanno chiuso l'accesso quando ha deciso di risuonare, ciò probabilmente è avvenuto perché non portavano in sé depurato questo senso di una vita più alta.
L'uomo di desiderio è raro; ed è l'unico che sia la misura della verità offerta, l'unico che possegga la competenza e il discernimento circa la sua origine.
Per riconoscerla è necessario aspettarsi che sia non come la vorremmo, ma come è.
E che cosa può essere, che cosa è necessario che sia di fatto, se cerchiamo di formulare, sia pure contro di noi, l'ultimatum della nostra volontà, restando coerenti fino in fondo con noi stessi?
Se esiste, è necessario che la rivelazione divina si presenti come indipendente dall'iniziativa umana.
È necessario che esiga un atto di sottomissione, una surrogazione del pensiero e della volontà, una confessione dell'impotenza della ragione.
Sicché la stessa ragione la reputerebbe falsa, se non pretendesse da noi quel sacrificio ineludibile.
Ma questa salutare disposizione di obbedienza non può afferire unicamente allo sforzo della volontà umana.
Infatti il movimento soprannaturale non si origina da noi.
Quindi è necessario che lo stesso impulso della ricerca che ci conduce a Dio sia, nel suo principio, un dono.
Senza questa mediazione indispensabile noi non siamo e non possiamo niente.
Dunque si da una rivelazione, offerta o ricevuta, unicamente tramite un mediatore.
È questa una esigenza prima ed essenziale.
E tanto meno possiamo portare a termine quello che non possiamo concepire da soli.
Niente di quello che l'uomo compie, niente di quello che rientra nell'ordine naturale dell'azione raggiunge la sua perfezione e perviene a Dio.
Per fare di Dio il fine dell'uomo, secondo il bisogno imperioso della nostra volontà, per diventare suo cooperatore, per riferire tutta la vita alla sua sorgente e al suo destino, è necessario un aiuto, un intercessore, un pontefice che sia quasi l'atto dei nostri atti, la preghiera delle nostre preghiere e l'offerta del nostro dono.
Solo per mezzo di lui la nostra volontà può adeguare se stessa e reggere, dal principio alla fine, tutti gli anelli della catena ( tout l'entre-deux ).
È questa la seconda e più essenziale esigenza: via et veritas, - via innanzitutto.
E un soccorso è essenziale per l'uomo non soltanto per credere e per agire, per conoscere e operare la verità, ma anche per porre rimedio alle ineludibili carenze dell'azione.
Quello che fa, anche nell'ordine specificamente naturale, ha una ripercussione infinita.
E se ha agito male, il suo errore contiene sempre qualcosa di assolutamente irrimediabile.
Quindi per neutralizzare il male c'è bisogno di una potenza e di un'espiazione di cui in noi non ritroviamo mai neppure il fattore più debole.
Distruggere il passato fissato per sempre!
Ridare la vita all'azione morta e alla volontà pervertita!
Porre rimedio a un attacco che è mortale per l'uomo e per Dio!
Il pensiero si smarrisce di fronte all'enormità di questo compito necessario.
Per donare, conservare e restaurare la vita c'è bisogno di un salvatore.
Si tratta di esigenze ultimative cui l'uomo si sente incapace di dare soddisfazione, e di cui la ragione, più che comprendere la possibilità, intravede la necessità.
Esse già per essere semplicemente concepite suppongono un'ispirazione che non proviene dall'uomo solo.
Ma poi ( è questa un'ultima istanza della coscienza umana ) è necessario che questa ispirazione iniziale sia offerta a tutti, come un minimo sufficiente.
Se esiste, la rivelazione per essere autentica deve rivolgersi profeticamente a coloro che l'hanno preceduta, e deve rivolgersi simbolicamente e in maniera anonima a coloro che non hanno potuto conoscerla.
Deve essere indipendente dai tempi e dai luoghi; deve essere davvero universale e deve possedere un'efficacia permanente, perpetuandosi non come qualcosa di futuro o di passato, ma come l'eterno presente; deve essere molteplice e reiterata nella sua applicazione, senza per questo cessare di essere unica e persistente nel suo principio.
III.
E tuttavia non abbiamo ancora di fronte la difficoltà maggiore?
Siamo senz'altro riusciti a mostrare come, grazie a una disposizione del tutto soggettiva, nasce l'idea di una rivelazione possibile e il bisogno di una rivelazione reale.
Siamo riusciti a vedere come, venendo dal di fuori, essa deve esibire i caratteri consoni alle esigenze intime.
Ma è essenziale capire in che modo agisce e conferisce a se stessa le garanzie appropriate per suffragare il suo credito.
Infatti, se anche vedessimo a livello teorico quali sono quelle disposizioni soggettive e quelle condizioni oggettive, se anche ravvisassimo dove e come si stabilisce la concordanza tra loro, questa conoscenza speculativa non sarebbe ancora quella che è necessario avere, poiché, per essere creduta come deve esserlo, la dottrina rivelata deve fornire da sé le proprie credenziali e deve comportare la propria certezza, come un dono soprannaturale.
Se è necessario che venga ammessa, non potrebbe mai esserlo in quanto ci è chiara e in quanto proviene da noi ( peraltro mai questa chiarezza è veramente del tutto trasparente ).
Essa può essere accettata come si deve solo in quanto ci è comunicata e in quanto rimane misteriosa nel suo fondo.
Ora questo è il grande e piuttosto delicato problema: come introdurre e far vivere in noi un pensiero altro, una vita diversa dalla nostra?
E che utilità c'è nell'affermare quello che rimane imperscrutabile?
Quale efficacia e quale salvezza vi sono nel professare l'incomprensibile rivelato?
Come credere in quello che non si può comprendere, e a che giova crederci?
Ancora e soprattutto, si evidenzia qui l'efficacia perentoria e la potenza mediatrice dell'azione.
Infatti da una parte la verità rivelata attraverso il canale dell'azione penetra fin nel pensiero, senza perdere nulla della sua integrità soprannaturale.
Dall'altra se il pensiero credente, per quanto rimanga oscuro tra i raggi che la fede espande dal suo fuoco inaccessibile, ha un senso e un valore, è perché sfocia nell'azione, e trova nella pratica letterale il suo commento e la sua realtà viva.
Soffermiamoci per un momento a riflettere su questa elucidazione decisiva.
Non è necessario ammettere la verità formale del dogma, quando lo sottoponiamo a esame.
Come succede per la geometria, è sufficiente esaminare le relazioni intrinseche e le ragioni di convenienza certe di un'ipotesi, della quale, proprio in forza del determinismo dell'azione umana, l'analisi scopre semplicemente la necessità e la coerenza.
Ecco dunque in che cosa consiste la difficoltà.
Per portare a compimento la natura e per dare sbocco all'aspirazione dell'uomo, l'uomo e la natura non sono sufficienti.
Ora è impossibile che l'espansione integrale dell'azione volontaria non ci conduca a quella voragine spalancata che ci separa da ciò che vogliamo essere.
È impossibile che colmiamo l'abisso; è impossibile che non vogliamo che sia colmato; è impossibile che non pensiamo alla necessità di un'assistenza divina.
E tuttavia sembra inconcepibile che quell'operazione rimanga soprannaturale quando diventa nostra, o che sia nostra senza cessare di essere soprannaturale.
Se, da un lato, dovrebbe, ci sembra, provenire interamente da una sorgente esterna a noi, dall'altro dovrebbe essere totalmente immanente.
Per quale via dunque questa vita superiore potrebbe insinuarsi nella nostra vita, se è vero che nel suo stesso principio deve essere assolutamente indipendente dalla nostra iniziativa?
Quale via di accesso le possiamo aprire? I nostri pensieri?
Ma non si può credere senza agire; i nostri atti?
Ma non si può agire senza credere.
E in questo circolo perfettamente chiuso della vita intEriore sembra non vi sia una porta atta a permettere l'intromissione di un'operazione allotria.
Come fare intervenire allora questo aiuto indispensabile e inaccessibile in quel vuoto enorme che si spalanca al centro della nostra vita?
Si tratta di un'aporia tutt'altro che immaginaria; e non è necessario definirne la difficoltà, per avvertirla.
Anche quando è stata avvertita vagamente, essa ha sconvolto fino all'angoscia tanti uomini pronti a correre, stando a quanto dicono, sulla via di Damasco, se l'avessero conosciuta.
Ma essi conoscono questa strada meglio di quanto non pensino.
Infatti, grazie a una dialettica necessaria, la progressione regolata della vita inferiore rivela loro le esatte condizioni di una sincerità totale.
Forse senza sapere perché, essi avvertono che bisogna agire ancora.
E se non vogliono agire senza sapere perché, è possibile, anzi necessario, che la scienza dell'azione manifesti loro la ragione profonda di questa docilità pratica che sembra loro imposta.
Anche dopo aver messo a tacere le ultime rivolte del proprio io, e dopo aver professato la propria incapacità e il proprio bisogno, l'uomo non ha in sé la vita.
Può essere convinto finché si vuole dell'eccellenza del dogma; può persino riconoscere la possibilità e la necessità del soprannaturale, senza per questo esservi convertito, senza avere la fede, quello che si chiama la fede.
E non l'avrà, finché si fonderà sul proprio pensiero e sulla propria iniziativa, perché fondarsi su di sé significherebbe ancora limitarsi a ciò di cui si è riconosciuta l'insufficienza.
È dunque proprio su questo punto, per reintegrare nella sua operazione voluta tutto ciò che si trova allo stesso principio della sua aspirazione volontaria, che il non credente dotato di grandezza d'animo deve fare il passo decisivo.
Perché? Perché ha bisogno di un dono: e tuttavia è necessario che lo riceva; e l'azione è l'unico ricettacolo che possa contenerlo.
Se, affinché la volontà trovi la sua equazione, ci deve essere sintesi tra l'uomo e Dio, non bisogna dimenticare che l'atto comune che sancisce qualsiasi alleanza costituisce, in un certo senso, nella sua integralità l'opera di ciascun soggetto che entra nella cooperazione.
All'uomo si prospettano atti che per ipotesi sono meramente di fede, atti che non ha alcuna ragione naturale di imporsi, e che ripugnano al proprio io perché richiedono da lui una specie di espropriazione, atti che l'uomo in quanto semplice uomo non compirebbe mai per sé soltanto.
Ed è per questo che ha un'inedita ragione d'agire.
La natura e l'uomo non gli bastano; egli dunque agirà per ciò che non rileva minimamente né dalla natura né dall'uomo.
È vero, senza la fede egli potrebbe produrre quelle singolari azioni solo come opere naturali.
Ma, in fin dei conti, non possiede egli una ragione naturale per farne la prova?
Certo, se è coerente, deve fare la prova.
E la ragione di quest'esperimento ineludibile è di apportare, nel contratto desiderato, tutto il contributo dell'uomo, agendo per quello che non rileva minimamente dall'uomo, in modo da vedere che ivi tutto si rivela come proveniente da Dio.
Non si può sapere come stanno le cose se non attraverso una sperimentazione effettiva.
Qui c'è un motivo d'azione sufficiente, un motivo umano che rende inescusabile qualsiasi omissione sistematica.
Trascurarlo significa venir meno a se stessi.
« Ma poi, come si potrebbe agire con fiducia e senza ipocrisia o servilismo, mettendo in pratica quello che non si crede? »
- Sgombriamo il campo da qualsiasi timore e da qualsiasi equivoco.
Non abbiamo la fede; ammettiamolo pure.
Ma non l'avremo mai con uno sforzo del pensiero.
La fede non investe direttamente la mente, e tanto meno la mente attinge la fede.
Tuttavia, se quanto precede ha un senso, questa visuale umana, questo desiderio umano di ciò che sembra giusto e necessario, è sufficiente a legittimare precisamente l'atto voluto, un atto naturale nella sua intenzionalità.
E probabilmente in questa azione si cela quello che la semplice intenzione non conteneva ancora, la presenza della vita soprannaturale, la quale se esiste si rivelerà all'uomo, e non può rivelarsi che in questo modo.
Se l'uomo elimina gli ostacoli che l'offuscavano, se giunge fino al culmine della sua autenticità, nell'operazione volontaria recupererà la certezza voluta.
Quale scrupolo lo fermerebbe?
- La paura di profanare ciò in cui non crede?
Ma, siccome prima di agire non vi crede, non saprebbe rimproverarsi un atto naturale dal momento che ne riconosce la convenienza naturale.
- L'inquietudine per non essere abbastanza sincero con se stesso?
Ma non abbiamo forse rilevato nella sfera dell'ordine umano quel bisogno di agire per confermare e produrre la volontà di volere seriamente?
- Il terrore per il mistero che affronta e per la luce che forse lo pervarrà e lo soggiogherà subito dopo l'azione?
Ma non è proprio questo che deve augurarsi, se è sincero fino in fondo?
E proprio perché, giustamente, l'atto è quasi il pedaggio e il transito della fede: suppone la rinuncia totale al proprio io; esprime l'umile attesa di una verità che non proviene dal solo pensiero; mette in noi uno spirito altro dal nostro.
Fac et videbis.
Pertanto ( benché questa regola di condotta possa risultare strana ) chi ha capito la necessità, chi ha avvertito il bisogno della fede, senza averla deve agire come se l'avesse già, affinché essa scaturisca nella sua coscienza dalle profondità di quell'azione eroica che sottomette tutto l'uomo alla fecondità del suo impulso.
Infatti essa non procede dal pensiero al cuore, ma dalla prassi desume una luce divina per l'intelligenza.
Dio agisce in questa azione, ed è per questo che il pensiero successivo all'atto è più ricco di un infinito rispetto a quello che lo precede.
L'azione è entrata in un mondo nuovo in cui nessuna speculazione filosofica la può condurre o seguire.
In ogni caso, mettendo tra parentesi questo dato soprannaturale di cui l'uomo non ha la disponibilità né per maturarne la scienza né per farne uso nella prassi, rimane necessario porre puramente e semplicemente questo dono a titolo di ipotesi, per analizzarne non più soltanto la possibilità astratta o le condizioni preliminari, ma per definire il concorso naturale e le conseguenze condizionate che l'azione religiosa esige e porta con sé.
Infatti ( l'insistenza su questo punto non è mai troppa ), supponendo che questa azione teandrica sia totalmente fondata sulla volontà divina, la volontà umana le è coestensiva.
È un dono, ma un dono che si acquisisce come se fosse un guadagno.4
Ma se la prassi può sfociare nella fede, può la fede a sua volta sfociare nella prassi?
E non ci imbattiamo in un'aporia ultimativa, sotto forma di quel dilemma che sembra escludere la fede dall'azione e l'azione dalla fede?
Infatti, se l'atto, anche iniziato senza convinzione, viene portato a termine alla luce di una nuova credenza, tale credenza, una volta recepita e posseduta, non costituisce forse uno stato di sicurezza e di riposo in cui è sufficiente adorare in spirito e verità, senza mescolare le miserie dell'azione effimera con questa vita superiore?
Ovvero, se quella fede è sempre misteriosa come un dono venuto totalmente dall'alto, per quale via il dogma trascendente e incomprensibile potrebbe ispirare atti capaci di esprimerlo senza snaturarlo, e cristallizzarsi nella lettera di un simbolo, di un rito o di un sacramento senza capovolgere in idolatria la purezza del sentimento interiore?
Si tratta di un errore sottile assai diffuso, nato da una filosofia incompleta e da una carenza del senso religioso.
La filosofia lo deve eliminare con una visione più corretta della dignità dell'azione umana e della sua capacità infinita.
Infatti ( volendo semplicemente sviluppare la sequenza regolata delle congruenze basate sulla stessa natura dell'azione ) è al contrario grazie alla prassi che la fede si sviluppa e si purifica, così come è la fede che ispira e trasfigura tutta la vita pratica dell'uomo.
Si dà uno scambio perenne e una solidarietà intima tra la lettera e lo spirito, tra il dogma e il precetto.
La lettera è lo spirito in azione.
E se i misteri sembrano verità meramente speculative, tuttavia, coniugando un mistero con un altro, sorgono verità assolutamente pratiche.
I dogmi sono non soltanto fatti e idee incarnate in atti, ma sono anche principi di azione.
È quanto capiremo studiando il valore della pratica letterale e il senso degli atti di precetto.
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2 | Pascal ha avvertito in maniera acuta questo conflitto necessario tra la luce e le tenebre: " Posso certo amare l'oscurità totale; ma se Dio mi impegna in uno stato di semioscurità, quel poco di oscurità che c'è non mi piace; e siccome non ci vedo il merito di un'oscurità totale, non mi piace. È un difetto, e un segno che mi faccio un idolo dell'oscurità separata dall'ordine di Dio. Ora non bisogna adorare che il proprio ordine ", Pensées, ed. Havet, II, p. 116 [nda]. |
4 | " Gratia liberum excitat arbitrium, eum seminai cogitatum; sanat, cum im-mutat affectum; roborat, ut perducat ad actum; servat, ne sentiat defectum. Sic autem ista cum libero arbitrio operatur, ut tantum illud in primo praeveniat, in ceteris comitetur; ad hoc utique praeveniens, ut iam sibi deinceps cooperetur. Ita tamen quod a sola grafia coeptum est, pariter ab utroque perficitur; ut mixtim, non singillatim; simul, non vicissim, per singulos profectus operentur. Non partim gratia, partim liberum arbitrium, sed totum singula opere individuo peragunt. Totum quidem hoc, et totum illa; sed ut totum in ilio, sic totum ex illa ", Sancti Bernardi Abbatis, Tractatus de Gratia et Libero Arbitrio, XIV, § 47 [nda]. |