L'azione

Indice

Il valore della pratica letterale e le condizioni dell'azione religiosa

Capitolo II

Probabilmente siamo riusciti a capire e ad ammettere che grazie allo sviluppo integrale della volontà umana e a una piena generosità nell'azione siamo giunti a riconoscere e ad avvertire l'indigenza relativa a una verità superiore alla ragione.

Ma che a sua volta questa fede possa diventare il principio di atti incarnati nella natura sensibile; che l'intervento divino si cali nel particolare della vita pratica attraverso segni materiali; che la vita soprannaturale abbia un'espressione naturale, tutto ciò è senza dubbio cosa che a prima vista sembra inaccettabile e inintelligibile.

Cercare negli atti umani più che un simbolo imperfetto dell'atto puro di Dio, e pretendere che il divino si contenga, per così dire, interamente nell'umano senza farlo esplodere; credere che il trascendente sia immanente sotto la determinazione particolare dei dogmi, dei riti e delle pratiche, senza nulla perdere della sua infinitezza, non costituisce forse una forma, la più insolente, della superstizione e dell'idolatria? - No.

L'unica maniera di adorare in spirito e verità è quella di elevarsi a una fedeltà letterale e a una sottomissione pratica.

Se lo spirito esige e suscita la lettera, la lettera autentica ispira e vivifica lo spirito.

È fuori dubbio che in questa sede è lecito parlarne solo a titolo di ipotesi.

Ma è necessario farlo, se è vero che questo dono ipotetico deve essere al tempo stesso acquisito integralmente e naturalizzato nell'azione umana.

Lo stesso movimento che ci induce necessariamente a concepire l'idea di un'azione religiosa ci conduce a definire, con la forza di una logica alla quale non si sfugge, le esigenze e, diciamo così, i requisiti di questa concezione inevitabile.

Siamo quindi di fronte a un altro anello del determinismo.

È necessario cogliere anche questo.

Dato quello che sappiamo dell'azione volontaria, rimane da appurare per via di inferenza la condizione indispensabile del suo compimento.

Non abbiamo bisogno di sapere se tale condizione è reale o possibile.

Dal lato dell'uomo non lo è.

Ma si tratta di mostrare che è necessaria.

L'analisi completa del determinismo dell'azione approda non a una realtà né a una possibilità, ma a una necessità.

La scienza non ci deve offrire niente di più e niente di meno che il necessario.

Non ci deve dire se le condizioni da essa richieste sono poste realmente; ma, ammesso che lo siano, le sue esigenze diventano assolute.

D'ora in poi a ciascuno di noi tocca tener conto di questa necessità.

Infatti questo contenuto intrascendibile dell'azione determinato dall'analisi scientifica è precisamente quello che davanti alla riflessione si trasforma in esigenze morali e in obbligazioni pratiche.

È dunque conveniente portare la filosofia fin dove può giungere, fin dove occorre che giunga, senza falso rispetto e senza protervia.

Troppo spesso essa ha abbandonato una parte, la più elevata, del suo campo; bisogna che le sia restituita.

Malgrado i termini insoliti e i problemi negletti che le saranno sottoposti, nessuno si inganni sull'intento propriamente filosofico che ispira questa indagine.

Si tratta sempre di quest'identica considerazione: « Come adeguare il termine voluto allo stesso principio dell'aspirazione volontaria? ».

Infatti, non è possibile indurre gli uomini alla sottomissione, se non facendo loro comprendere che è il segreto della loro autentica indipendenza.

Bisogna dunque mirare all'autentica indipendenza, per comprendere il segreto della necessaria sottomissione.

Perciò, proprio quando è in gioco il soprannaturale, si fa sentire sempre una preoccupazione radicalmente umana, e quasi un grido della natura.

Si tratta di vedere come questa nozione del soprannaturale abbia una genesi necessaria, e come il soprannaturale appaia indispensabile alla volontà umana perché l'azione venga risolta in equazione nella coscienza.

Non si tratta affatto di definire lo stesso contenuto della Rivelazione divina.

Per essere ciò che deve essere se esiste, la Rivelazione deve sfuggire alla ragione nel suo principio, nel suo oggetto e nel suo fine.

Nessuno sforzo dell'uomo meramente uomo potrebbe penetrarne l'essenza.5

Quindi credere che si invada un campo riservato, sottomettendo all'esame razionale quello che è razionale anche nella nozione del soprannaturale, significherebbe ignorare radicalmente quello che la Rivelazione ha la pretesa di essere.

Il compito del filosofo è quello di stabilire che, essendo pienamente coerenti col nostro anelito riposto, giungiamo fino alla pratica letterale, e quello di esprimere le esigenze ineludibili del pensiero e, diciamo così, la preghiera naturale della volontà umana.

Niente di più, ma niente di meno.

Il problema è serio quanto delicato.

Se risulta assai agevole all'uomo mettere in atto la sua giustificazione, quanto è complicato e disagevole giustificare questa prassi salutare!

Senz'altro comprendiamo anche che la prassi preceda e prepari la fede; ma che l'atto di fede ci ispiri la fede negli atti, per alcune tra le coscienze più accese dal divino costituisce il paradosso intollerabile.

Indubbiamente queste anime religiose hanno infinitamente ragione di provare ripugnanza per le ricette e le applicazioni meccaniche che profanano il loro sentimento ineffabile.

Ma, pur essendo superiori a queste meschine superstizioni, esse tuttavia a torto dimenticano che il punto cui godono di essere arrivate è ancora soltanto un gradino intermedio, e che rimane loro un progresso da fare.

Quanto auspicherei di mostrare loro che la fede, nel senso più vasto e più profondo, trova la sua perfezione in atti ben precisi, che solo questa prassi terra-terra e magari umiliante, conserva tutta la sublimità e la purezza del culto interiore, e che, se c'è una lettera abitata unicamente dalla morte e dalla corruzione, ce n'è una necessaria che veicola la vita e la salvezza.

I.

Ciò che non possiamo conoscere, e che soprattutto non possiamo comprendere chiaramente, lo possiamo fare e praticare: qui sta l'utilità, la ragione eminente dell'azione.

Essa non è soltanto il veicolo provvisorio che consegna alla coscienza il dono agognato, la sua mediazione non è effimera, ma permanente, è lo strumento perenne della conversione interiore e del regno della fede.

Infatti essa fa scorrere fino al midollo, in un modo incomprensibile, il senso di una fede ancora oscura, e percorre le vie misteriose che conducono alla luce della riflessione le verità implicite di cui si è nutrita.

Questo è il segreto del valore, questo è il principio naturale dell'efficacia della pratica letterale.

Insomma la fede, per vivificare le membra, ha bisogno di agire in loro, e per vivificare se stessa ha bisogno che esse agiscano su di lei.

Sempre l'azione da più di quanto riceve, e riceve più di quanto da.

Come nessuna intenzione particolare viene portata a termine senza l'operazione che sembrava determinarla, ma che in realtà la completa e l'arricchisce, come la vita morale e religiosa si perfeziona nell'uomo solo interessando tutto l'uomo, allo stesso modo qui come altrove il sentimento non è indipendente dall'organismo in cui si esprime, qui come altrove l'azione non è soltanto una conseguenza o una condizione dell'intenzione, ma vi aggiunge una eccedenza essenziale.

Essa contiene ciò che costituisce la ragion d'essere del sentimento o il referente della tendenza.

Credere che adorare in spirito e verità significhi astenersi da qualsiasi pratica determinata è l'errore assai simile all'illusione in cui si cade, quando si immagina che l'esecuzione reale è soltanto un'appendice accessoria e quasi una degenerazione della decisione ideale.

È fuori dubbio che l'azione sembra restringere la splendida espansione della vita interiore, e sembra depauperare la ricchezza del sentimento; ma è solo un'apparenza.

La necessità di una determinazione pratica, lungi dall'inaridire la generosità dell'effusione intima, ne satura la sorgente.

Come la schiavitù dei segni e delle forme impedisce al filosofo o all'artista di crogiolarsi in intuizioni confuse, così l'anima religiosa trova nel rigore coercitivo della lettera un aiuto contro se stessa.

Sotto lo stimolo di questa coercizione essa si rinnova e, anziché perdersi in una vaga e instabile aspirazione all'infinito, approfondisce e vivifica quei sentimenti che temeva di profanare o di sopprimere, esprimendoli all'esterno, nel corpo di un atto.

Perciò nella semplicità delle pratiche più popolari c'è più infinito che nelle speculazioni più boriose o nei sentimenti più squisiti.

E la persona umile, quando segue letteralmente precetti devozionali che reputa estremamente chiari, mentre non li comprende, possiede senz'altro il senso della verità più di tutti i teosofi di questo mondo.

Nella lettera quella persona ha lo spirito, senza averne la pretesa.

Questi invece hanno la pretesa di avere lo spirito senza la lettera, e invece non l'hanno.

Chi dunque dimostra la propria fecondità spirituale: colui che ostenta grandi discorsi, oppure colui che sa fare quello che non saprebbe dire?

E invece succede che il dialettico del sentimento interiore si vanta dell'esuberanza della sua pietà, mentre la persona fedele alla lettera viene stigmatizzata per una devozione tutta di facciata.

Ma sono i sentimenti, i pensieri, a essere esteriori, mentre le opere sono la cosa più intima, quella che manifesta meglio di tutto la vita e la trasfigura.

Che importanza hanno le evanescenti meraviglie della dialettica o le coinvolgenti emozioni della coscienza: ci vuole una conclusione, l'azione.

In actu perfectio.

Quello che è vero per qualsiasi intenzione particolare, obbligata come è a ricercare nell'operazione che la realizza il suo commento vivente, vale afortiori per l'aspirazione religiosa.

Dove tende quest'ultima, se non a far passare all'atto tutto l'uomo, e a produrre in lui la pienezza di una vita nuova, quasi che, per essere portata a termine, qualsiasi azione dovesse essere una comunione?

Ora questa comunione cui aneliamo necessariamente non può essere realizzata che dalla prassi.

Infatti soltanto la prassi è capace di collegare tra loro due ordini che sembravano incomunicabili.

E soltanto negli atti Dio può prendere piede in noi con l'immensità del suo dono.

Il pensiero umano, sempre insufficiente da qualche lato, quando si crogiola in se stesso non ha mai l'ampiezza atta a contenere tutto ciò che concepisce ed esige.

Ma quello che sfugge a uno sguardo limitato, per la stessa estensione della verità e per la varietà della vita, rimane praticabile.

Non si possono comprendere subito i variegati aspetti di tutto ciò che deve essere conosciuto.

Ma si può passare subito alla realizzazione pratica di tutto ciò che si deve fare.

Agire soltanto nei limiti della chiarezza presente, e limitarsi alla nozione o al sentimento del divino così come lo si prova, senza cercarne nella vita stessa un'applicazione immediata, significa sminuire se stessi.

Con la sua tirannia il pensiero immiserisce l'azione.

Viceversa con la sua sottomissione il pensiero è amplificato dall'azione.

Non parliamo dunque della schiavitù del credente e del praticante.

La sudditanza in cui sembra vivere non è un impaccio per la sua libertà, ma è il mezzo per riuscire a volere tutto quello che vuole veramente.

Quello che asservisce davvero è non pensare ad altro che alla propria luce e agire unicamente a proprio giudizio.

Ogni uomo che non avverta più il bisogno di rinnovarsi e di superarsi non possiede la vita.

Abbarbicarsi alle forme anguste del proprio pensiero significa essere già morti.

Bisogna essere sempre pronti a distruggere le nostre costruzioni illusorie o disastrose, in modo da essere docili alle contraddizioni.

Senza vincoli di passione, di interesse o di abitudine, comporta indubbiamente un certa sofferenza lo sforzo di ringiovanirsi di continuo in spirito nella lettera, ma è l'unico mezzo per conservare tutto il pudore della coscienza e l'autenticità totale.

Non attestarsi né nel dubbio né nella certezza, non abbarbicarsi mai alla verità, come altri fanno con i loro idoli, vivere in timore e libertà, pur promettendo una fedeltà a tutta prova, temere sempre di perdere la luce e attenderla sempre, portare nel cuore l'angoscia dell'investigatore con la serenità e la docilità fiduciosa del bambino: è questa, senza dubbio, la via non della schiavitù, ma della liberazione.

La maggior parte degli uomini si dà da fare per vedere quanto hanno ragione.

Invece bisogna darsi da fare per vedere in che cosa abbiamo torto.

Quanti uomini si reputano religiosi o perché hanno radicata la convinzione di aver emendato lo spirito dalla lettera, o perché si invaghiscono di qualche parola divina, e si beano di essere pienamente d'accordo col suo senso!

Vorremmo che tutto fosse chiaro al pensiero, e che ci fosse un centro di prospettiva unico.

Ma non esiste, questo centro è ovunque.

E quello che non vediamo chiaramente, lo possiamo fare pienamente.

Il vero commento è la prassi.

Perciò gli uomini non hanno veri discepoli, perché non sanno fare appello alle misteriose profondità da cui scaturisce, grazie alle molteplici operazioni della pratica ligia, l'unità delle libere convinzioni.

Quindi la cosa necessaria è stare attenti a quello che ci contraddice, andando al di là del punto in cui vorremmo fermarci.

Nella fede e nei precetti vi sono affermazioni che sembrano in conflitto, prescrizioni che sembrano in contrasto con noi.

Ma per questo è necessario e salutare che acconsentiamo a esse.

Se esiste la legge esteriore, è per ricordarci che finché essa ci appare esteriore, finché spezza in noi alcuni legami della nostra ragione o del nostro cuore, noi non siamo ancora al centro della verità e dell'amore.

Anziché chiuderci, ci obbliga ad aprirci, a vedere in che cosa il nostro pensiero è insufficiente e la nostra volontà carente, ad ammettere gli aspetti con-trari di una verità più ampia della nostra conoscenza, e a conferire misteriosamente alla nostra azione tutta la potenza di questa scienza perfetta.

La lettera, pur essendo incomprensibile e soggiogante, costituisce il mezzo per pensare e per agire divinamente.

Pertanto le esigenze dell'azione umana e le condizioni da essa richieste per essere portata a termine risultano concatenate senza soluzione di continuità.

Grazie al movimento profondo della sua libertà l'uomo è indotto a volersi alleare con Dio e a formare con lui una sintesi unica: ogni atto tende a essere una comunione.

Questa sintesi non potrebbe realizzarsi che grazie all'azione, unico ricettacolo capace di accogliere il dono agognato.

E l'alleanza può non soltanto essere conclusa, ma anche persistere e consolidarsi, unicamente grazie alla pratica letterale.

La fede dunque non è soltanto un atto e l'effetto di un atto, ma per una necessità naturale essa è a sua volta un principio di azione.

Come nel dinamismo della riflessione il pensiero, che è il frutto dell'esperienza della vita, diventa esso stesso un motivo e il punto di partenza di un'esperienza ulteriore, allo stesso modo la fede, che potremmo definire l'esperienza divina in noi, è l'origine di un'attività che investe l'uomo intero e gli fa produrre con tutte le sue membra la credenza di cui vive.

Infatti, se le idee costituiscono momenti di forza, ciò avviene non solo perché hanno già elementi di chiarezza, ma soprattutto perché conservano in sé elementi di oscurità; ed è proprio penetrando in questa penombra che esse ottengono un'aggiunta di luce.

Gettando il nostro pensiero nelle oscurità della prassi, noi troviamo nella chiarezza della prassi di che illuminare le oscurità del pensiero.

La fede dunque è autentica e viva solo se tramite l'azione tende, in ragione delle sue stesse tenebre, a guadagnare le idee e le energie che in noi le sono estranee e refrattarie.

Si tratta di ottenere un'assimilazione totale, un'assimilazione di tutto l'organismo a quel principio di vita superiore.

Dunque nel nostro piccolo mondo dobbiamo cooperare a una specie di creazione, ottenendo la fede da tutti i nostri poteri, fin nelle profondità più riposte degli organi.

In effetti come raggiungere queste energie oscure, come realizzare in quel caos l'opera della ragione e della volontà, come produrre l'uomo e far espandere Dio nel suo seno, se non attraverso la prassi?

La pratica letterale deve essere come un fermento che attraverso una progressione impercettibile solleva a poco a poco tutto il peso delle membra.

Quando alimentiamo in noi questa energia vivificante, nella nostra massa di carne, nei nostri desideri e nei nostri appetiti si produce una lenta opera di transustanziazione e di conversione.

Ogni atto ispirato da una nozione di fede da inizio alla gestazione di un uomo nuovo, perché genera Dio nell'uomo.

Perciò, come il corpo senza l'anima è morto, così la fede senza le opere è morta.

E in effetti che cosa può morire nella fede, se non la sua presenza e la sua operazione vivificante nelle membra?

Il membro non vive che in una stretta dipendenza.

Esso non può elevarsi alla dignità del capo.

Il suo compito è di agire secondo l'ordine del capo, perché è questo il suo modo di partecipare alla vita dello spirito.

Esso non pensa, agisce; e l'agire gli comunica l'essenziale del pensiero.

È questo il suo pensiero e la sua preghiera.

Ma la pratica letterale è necessaria non soltanto per armonizzare tutta la nostra vita interiore.

Infatti la nostra azione è gravida della vita universale.

Essa non è una semplice funzione dell'individuo, ma è una funzione del grande corpo sociale.

È dunque necessario che vi sia cooperazione ed edificazione, per alimentare la circolazione e l'unità nella città degli spiriti, per ritmare la respirazione della vita universale in noi.

Che bella parola, edificazione!

Non è mai sufficiente agire per sé, non lo si può fare.

Bisogna costruire negli altri, farsi parte dell'opera complessiva e identificarsi con l'edificio.

Se, grazie all'azione, ciascuno trova in sé la via alle sorgenti da cui emanano i sentimenti e le credenze, sempre grazie a essa ciascuno trova negli altri il segreto delle idee e delle aspirazioni comuni.

Precisamente in forza di questa unione pratica gli uomini, facendo scaturire da un fondo che essi stessi ignorano le loro certezze e i loro affetti, si legano tra loro con un vincolo così potente e così dolce da non formare che una sola anima e un solo corpo.

Certo, solo la prassi opera questo miracolo di plasmare con la diversità degli spiriti un corpo unico, perché essa adopera e forgia ciò attraverso cui sono uniti gli uni agli altri.

Ecco perché non si da unità dottrinale se non come portato di una disciplina comune e di una conformità di vita.

Ed ecco perché i dogmi e le credenze costituiscono insegnamenti per il pensiero solo al fine di diventare principi di azione.

Bisogna giungere fino a questa verità per comprendere che risulta impossibile l'unione intellettuale tra gli uomini, i quali tuttavia hanno bisogno di essa, e hanno bisogno che essa sia libera e totale; impossibile finché pretende di rimanere indipendente dalla disciplina e dalla tradizione.

Perché la tradizione e la disciplina rappresentano l'interpretazione costante del pensiero mediante gli atti, e nell'esperienza consacrata offrono a ciascuno una sorta di controllo anticipato, un commento autorizzato, una verifica impersonale della verità.

Poi spetta a ciascuno di risuscitarla in sé per prendere posto nell'assemblea delle intelligenze.

Siccome è necessario che ci muoviamo quasi cospirando con noi stessi, con l'umanità e con l'universo, per una tale comunione è necessaria una pratica letterale.

Essa è come il pensiero di questo organismo spirituale, e rappresenta il contributo di ciascun membro di questo grande corpo alle funzioni dello spirito.

Quindi stando a quanto l'analisi delle relazioni necessario e delle esigenze naturali della vita volontaria ci induce a evidenziare, nell'azione scaturita dalla fede è all'opera un duplice mistero.

È per mezzo dell'azione che il divino abita nell'uomo, vi cela la sua presenza, vi inocula un pensiero e una vita nuova.

È per mezzo dell'azione che le parti infime e oscure che esprimono i bisogni dell'organismo e le ripercussioni dell'universo si elevano alla fede, e cooperano all'opera umana e divina che si compie in noi.

Senza l'azione la sintesi non si compie.

Perché tutto il corpo sia rischiarato, è necessario che l'occhio sia luminoso.

Perché l'occhio sia luminoso, è necessario che il corpo sia attivo e sano.

II.

Sembrano superate queste due obiezioni filosofiche.

« La religione, diceva qualcuno, è interiore e non può essere coartata in nessuna forma ».

Anzi, la lettera è necessaria allo spirito.

« La fede in se stessa, aggiungeva qualcun altro, ha valore solo per il sentimento che la ispira, non per la formula che la determina deformandola, né per gli atti che non potrebbero contenere l'immensità del divino nella sua interezza ».

Tutt' altro, la pratica è necessaria alla fede.

E tuttavia queste due obiezioni contengono una verità più profonda di quanto comprendano quegli stessi che se ne avvalgono.

Se la mettiamo in luce, faremo vedere l'errore in cui essi cadono. Ecco come.

Si ha ragione di sostenere che le opere sono indispensabili al sentimento interiore.

Esse devono essere vivificanti in rapporto a tale sentimento.

Allo stesso tempo si ha ragione di sostenere che le opere scaturite spontaneamente dal sentimento sono inadeguate rispetto a quello che esprimono, e che cercare negli atti umani l'alimento divino significa ricadere nella superstizione.

Gli atti sarebbero letali per il senso religioso.

Perciò una pratica è assolutamente necessaria alla fede, e la pratica, che nasce naturalmente dalla fede nella misura in cui la fede a sua volta è un principio di azione, rimane radicalmente insufficiente e vuota.

A coloro che sostengono che non sono i nostri atti che ci santificano, ma che siamo noi che santifichiamo i nostri atti, bisogna opporre che solo l'azione può essere salutare.

A coloro che sostengono che le loro opere buone sono perfettamente salutari bisogna ribattere che solo la fede è santificante.

Per sfuggire a questa contraddizione apparente, qualcuno ha escogitato un compromesso ibrido.

Ma questa soluzione intermedia deve essere assolutamente respinta.

Ecco in che cosa consiste.

Quando si parla della fede e delle opere indispensabili alla fede, c'è un'ambiguità sulla natura di questa relazione necessaria.

Da un lato si ritiene che la pratica è una conseguenza naturale del sentimento intimo che la ispira; dall'altro si riconosce che per avere una fede viva bisogna agire.

Nel primo caso si fa dell'azione una subordinata accessoria della fede; nel secondo caso la si considera come un elemento integrante, un fine essenziale, un'eccedenza indispensabile della fede.

Quindi per opere si intende o la conseguenza naturale di una credenza interiore che si manifesta mediante la spontaneità indeterminata di controprove pratiche, oppure atti determinati compiuti per se stessi, i quali conservano il loro senso originale.

Si riconosce senz'altro che il sentimento più profondo del divino ha bisogno di esprimersi mediante atti.

Ma siccome nessuno di essi risulta adeguato alla stessa fede, si pretenderebbe che questi atti, a differenza degli altri, non costituissero un fine per l'intenzione o un progresso per l'agente.

Si vorrebbe farne una categoria a parte, come se la vita religiosa potesse sottrarsi alle leggi consuete della vita.

E tuttavia proprio per evitare qualsiasi deroga alla natura si è indotti a derogarvi in questo modo!

Insomma, si vorrebbe credere nei propri atti senza mai agire in base alla propria fede.

Ma, in tutta questa scienza della prassi, è risultato di continuo che l'azione è qualcosa di nuovo e di eterogeneo rispetto alle sue condizioni specifiche.

Questa verità scientifica trova anche qui la sua convalida.

Non è possibile considerare la pratica religiosa come una dipendente subordinata e come un accessorio arbitrario o accidentale del sentimento che la ispira.

Credere che questo sentimento totalizzi la religione autentica, reputare che le opere scaturiranno dal cuore nella misura in cui esso vi sarà portato, emanciparsi dalla disciplina di una pratica letterale, significa essere in difetto sia nella sfera della scienza sia nella sfera della coscienza.

Invano quindi si cerca di mantenere questa posizione erronea, come se allo stesso tempo si potesse dire sia che la fede è tanto più viva quanto più è attiva, sia che fare di quelle azioni un mezzo per credere significa sminuire o deteriorare la fede.

Le persone devote nemiche della lettera non sono coerenti fino in fondo né quando hanno torto né quando hanno ragione.

Riconoscendo la necessità di una pratica, bisogna riconoscere l'assoluta inutilità di qualsiasi pratica umana, senza mai sacrificare una di queste due affermazioni all'altra.

Esse sembrano incompatibili, ma siamo indotti con invincibile necessità a enunciarle.

Ed è appunto da questa incompatibilità che scaturisce fuori l'inevitabile soluzione del problema.

Da una parte nessun atto scaturito in modo naturale dalla fede religiosa ne perfeziona o ne adegua la dignità.

Dall'altra la fede è possibile solo nella forma di una lettera precisa e grazie all'efficacia di una sottomissione pratica, e il vero infinito potrebbe essere immanente unicamente nell'azione.

È dunque una necessità che questa azione sia a sua volta l'oggetto di un precetto positivo, e che essa derivi non più dal movimento della nostra natura, ma dal comando divino.

La sua determinazione deve essere riferita a un'autorità diversa da noi, anche quando abbiamo coscienza di acquistare, a prezzo della docilità, un'autonomia più autentica.

Che tale azione ci sia prescritta è appunto conforme alla nostra volontà.

Bisogna giungere a questo riconoscimento per ottemperare alle esigenze proprie delle persone che sono le più giustamente ostili alle devozioni superstiziose, e per essere più coerenti di loro con i loro principi.

E così si accordano queste verità, non già opposte ma concatenate dalla logica del senso religioso più corretto: non si da fede senza pratica; non si da pratica che sia naturalmente adeguata alla fede; non si da verità rivelata se d'altra parte non si danno atti prescritti.

Se dunque la fede, sia per quel tanto di ombra impenetrabile che presenta, sia per quel tanto di chiarezza superiore a ogni altra che arreca, è naturalmente la sorgente necessaria di una pratica, questa esigenza naturale non è sufficiente a determinare la natura particolare o la forma precisa degli atti necessari per sancire l'alleanza indispensabile e l'unione perfetta cui aspira l'uomo.

Perché quegli atti rituali non si riducano a una finzione idolatrica, e perché adeguino la fede di cui devono essere l'espressione vivificante, si richiede che siano non un'invenzione dell'uomo e l'effetto sempre imperfetto del movimento naturale, ma l'espressione di precetti positivi e l'imitazione originale del dogma trascritto divinamente in comandamenti particolari.

Non basta che diventino il veicolo del trascendente, ma è necessario che ne contengano la presenza reale e che ne costituiscano la verità immanente.

Caro Verbum facta.

La disciplina e l'autorità delle prescrizioni positive, essendo emanazioni del dogma, diventano a loro volta dei dogmi originali.

È necessaria una pratica.

E ogni pratica che non sia prescritta come un ordine soprannaturale è superstiziosa.

Non è nulla, se non è tutto.

Perciò l'azione che deve racchiudere la presenza e comunicare la realtà della vita religiosa non potrebbe, esattamente come la fede, partire dall'iniziativa umana.

Se la stessa lettera del dogma è, per definizione, il pensiero divino incarnato in un segno sensibile, il precetto positivo deve anche lui, per quanto arbitraria ne appaia la formula, contenere una volontà diversa da quella dell'uomo.

Nonostante il carattere determinato, relativo, mutevole degli atti prescritti, questo dogmatismo pratico offre a chi vi si sottomette il mezzo per cooperare con l'autore del precetto.

E la volontà umana è pienamente coerente con se stessa solo se giunge fino ad acconsentire a quel bisogno di sottomissione effettiva.

Esimersi dal compiere gli atti, col pretesto che essi costituiscono una costrizione esteriore e degradante, significa disattendere allo spirito, il quale in ultima istanza esige quella sottomissione impegnativa.

Nella pratica letterale l'atto umano è dunque identico all'atto divino.

E sotto l'involucro della lettera si insinua la pienezza di uno spirito nuovo.

Perciò non bisogna dire che certe azioni possono assumere un valore assoluto, nella misura in cui offrono una rappresentazione simbolica del fondo delle cose, e realizzano nei fatti i rapporti che esprimono con fedeltà estrema il mistero reale della verità e del bene.

Del resto non è questa una contraddizione in termini?

Non si da assoluto approssimativo o simbolico.

No, l'atto religioso non potrebbe essere un simbolo; o è o non è una realtà.

Perché i rapporti essenziali che l'uomo intrattiene con l'assoluto si costituiscano in maniera precisa, è necessario che siano assolutamente definiti, e che in quel commercio divino vi sia una consacrazione e un dono che non potrebbero provenire da noi.

Se nell'uomo il bene infinito può essere realizzato solo mediante atti finiti, è necessario altresì che questo finito stesso sia concesso, per una condiscendenza soprannaturale, come il rivestimento, o meglio come il corpo stesso del trascendente.

Se Dio non si mette in quel corpo perché l'uomo lo trovi e se ne nutra, l'uomo non ve lo metterà affatto.

È fuori dubbio che la pratica non opera né per una cieca magia né per un semplice meccanismo.

Esistono atti morti, senza spirito e senza anima.

Essi rappresentano una devozione esteriore, altrettanto inutile o peggiore di ogni altra superstizione.

È fuori dubbio altresì che, in assenza di qualsiasi forma rituale e di qualsiasi precetto riconosciuto, vi sono atti vivificanti che suppliscono all'ignoranza di una rivelazione più chiara.

Si tratta di atti non ispirati da qualcosa di sensibile, di egoistico, di presuntuoso.

Essi fanno appello al dono ignorato.

Ma, se la pratica letterale non è né una mera formalità per coloro che vi si devono sottomettere né una condizione essenziale di salvezza per coloro che non possono essere istruiti in proposito, in ogni caso la nostra volontà nel suo potere di realizzazione dipende, anche se non lo sappiamo, dalla riposta efficacia di una mediazione reale.

È persino possibile che la sconfessiamo, pur non cessando di trame profitto e non cadendo nel peccato contro lo spirito.

Ma questa stupenda estensione della misericordia a coloro che conservano una generosità autentica, pur nel rifiuto esplicito, non elimina la verità integrale alla quale partecipano senza vederla.

L'uomo di desiderio trova nei precetti positivi come tante esperienze confezionate, tante ipotesi da verificare, in cui questa verità integrale si convalida e si consegna a colui che non distoglie da essa né il suo sguardo né le sue mani.

A ben comprendere la pratica, anche quella in apparenza la più arbitraria e la più gravosa per la natura, non è altro che una perfetta conformità alle esigenze della libertà.

Quindi non bisogna trasformare in obiezioni contro il dogma o la disciplina le conseguenze che derivano dalla semplice supposizione che si diano.

In sintesi, c'è un infinito presente in tutti i nostri atti volontari.

Noi da parte nostra non possiamo contenere questo infinito nella nostra riflessione, ne possiamo riprodurlo col nostro sforzo umano.

Quindi, per coglierlo e produrlo come aspiriamo, è necessario che questo principio riposto di ogni azione ci si conceda nella forma specifica nella quale ci è possibile entrare in comunione con lui, riceverlo e possederlo nella nostra piccolezza.

Abbiamo bisogno dell'infinito finito.

E non spetta a noi limitarlo, altrimenti lo ridurremmo alla nostra misura.

Spetta a lui solo mettersi alla nostra portata, e accondiscendere alla nostra pochezza per esaltarci e commisurarci alla sua immensità.

È vero, ancora una volta la realtà di questo dono resta fuori della portata dell'uomo e della filosofia.

Ma è compito essenziale della ragione vederne la necessità e definire le compatibilita naturali che regolano il concatenamento delle stesse verità soprannaturali.

Se gli atti simbolici che hanno lo scopo di realizzare nell'uomo la vita perfetta, e di creare l'equazione della volontà con se stessa nella coscienza, provenissero dall'uomo soltanto, non potrebbero essere che protervi e superstiziosi.

Ed ecco perché siamo sempre tentati di stupirci e quasi di scandalizzarci alla vista di un segno contingente che pretende esprimere la realtà necessaria di un atto relativo e transitorio che si esibisce come assoluto, di qualcosa che deve contenere tutto.

Sarebbe meglio, sembra, che non fosse niente di visibile.

Ma se il precetto proviene, come la stessa ragione richiede, da una fonte diversa dalla volontà dell'uomo, allora deve venir meno lo stupore: la grandezza infinita può adattarsi alla nostra infinita piccolezza.

Il divino è più che universale; è particolare in ogni punto ed è interamente in ciascuno.

Se si offre a tutti come la manna che aveva tutti i gusti, ciò avviene nella forma più accessibile e più umile, perché in questa sublime degradazione la sua bontà e dignità esigono che egli non sia condiscendente con noi a metà.

Più il simbolo sarà poca cosa in relazione ai sensi, più corrisponderà alle esigenze della ragione e del cuore.

Il suo splendore può essere solo quello di un punto, come la stella il cui raggio, salvo una sottile striscia di luce, sembra lasciare nell'ombra l'Oceano, pur illuminando l'immensità dei flutti, poiché da qualsiasi punto guardi l'occhio è attratto dalla sua luce.

Pertanto, nella pratica religiosa è necessario che i rapporti ordinari tra il pensiero e l'azione siano al tempo stesso conservati, completati e rovesciati.

- Conservati, perché rimane vero che la fede, per essere viva e autentica, per compenetrare le membra e assimilare a se stessa l'organismo, ha bisogno di manifestarsi mediante convalide pratiche.

- Completati, perché nel precetto positivo, e Soltanto in esso, si da per ipotesi equazione perfetta tra lo spirito e la forma letterale in cui si esprime.

- Rovesciati persino, perché, a differenza degli atti abituali, nei quali il pensiero precede le operazioni sensibili e compenetra in maniera imperfetta l'organismo che lo realizza, qui proprio il segno sensibile contiene oscuramente la luce di cui il pensiero cerca di scoprire a poco a poco il fuoco invisibile.

Ed è proprio questo che, adesso, è importante capire bene.

III.

L'azione è prescritta soltanto se, in quello che bisogna fare, contiene le realtà di quello in cui bisogna credere.

La pratica e il dogma, eterogenei in rapporto a noi, sono identici in sé.

Il loro compito è quello di rendere identiche in noi la verità conosciuta e la vita conseguita, di introdurre nel pensiero e nella volontà l'unità tra l'ideale e il reale, di reintegrare nell'uomo che costruisce liberamente la propria personalità l'integralità della causa che lo crea e lo anima.

Tale restituzione è possibile solo se la volontà umana, da cui procede come da una causa efficiente il movimento della vita personale, si assimila al fine concepito e voluto come termine del nostro destino.

Perciò, mentre nell'ordine naturale l'operazione materiale che traduce l'intenzione non fa altro che estendere il dominio della volontà e valorizza il pensiero solo nella misura in cui gli concilia le potenze ancora cieche della vita, qui la stessa operazione diventa per lo spirito nutrimento e luce.

Infatti è il volere divino che riluce attraverso l'oscurità del segno sensibile.

Dunque è proprio nel comandamento formale, nell'atto rituale, nella materia sacramentale che si trova il perfetto alimento, l'unico capace di vivificare un pensiero e una volontà animati dalla fede.

Quello che nella pratica letterale è visibile e materiale non è messo in pratica in quanto tale.

Nella pratica non ci si orienta sulla base dei fenomeni.

Al contrario, sotto l'involucro sensibile che serve per dare mordente all'azione, tocchiamo, possediamo la realtà che i sensi non attingono.

L'atto si produce interamente nello spazio dell'assoluto, pur conservando il suo aspetto e le sue leggi naturali.

È come se, obbedendo al precetto, facessimo discendere in noi la verità eminente che esprime.

Questo è vero, ma è vero altresì che trasformiamo e facciamo assurgere al livello di quella verità l'atto prescritto dal precetto.

Se così si può dire, il precetto letterale è più vivo e più spirituale dello spirito di cui prende possesso.

Noi l'assorbiamo in noi ed esso ci assorbe in sé.

La lettera autentica è quindi la realtà stessa dello spirito.

Essa ce ne rende manifesta la vita inaccessibile nel suo fondo; ce lo comunica, perché possiamo generarlo e farlo rivivere in noi.

La generazione non si realizza forse tramite il corpo?

In essa si consuma un mistero impenetrabile all'intelletto, il miracolo di una fecondità che, con un'opera assai singolare, inserisce l'intera specie in ciascun vivente.

Allo stesso modo non è attraverso la parola rivelatrice e la pratica obbediente che un pensiero e una vita non nostra si innestano in maniera diversa, ma interamente, in ciascuno di noi?

Avete riflettuto sullo straordinario potere dell'innesto?

Basta innestare sul tronco poche cellule viventi, perché avvenga una rivoluzione fisiologica in questo punto di contatto intimo, il pollone riprenda nuova linfa e, all'improvviso, per una magia naturale, la fecondità soppianta la sterilità.

Così l'inserimento nelle nostre viscere di un pensiero di fede e di una pratica sacramentale riforma e trasfigura le funzioni della natura.

La linfa umana è l'alimento della vita soprannaturale.

Ma è questa vita che spunta in noi fruttuosamente e si sviluppa per portare alla fine opere piene.

Ma quello dell'innesto è un paragone ancora imperfetto, perché la linfa arricchita non ridiscende alle radici, in modo da farne scaturire direttamente la fecondità.

Al contrario, nell'operazione straordinaria, che grazie a una duplice assimilazione fa di due vite infinitamente distanti una sintesi e un'azione unica, la pratica letterale inocula il germe divino fin nelle più infime funzioni dell'organismo.

Essa associa il corpo a una vita più alta di quella dello spirito.

E proprio da questa materia sacramentale, sotto cui l'infinito vivente sembra azzerato e quasi morto, questa vita divina e umana insieme deve risuscitare grazie allo sforzo della buona volontà.

Tutti noi dobbiamo partorire, generando Dio in noi, υεοτόκοι.

E quasi che bisognasse essere Dio per essere pienamente uomo, l'uomo nonostante la sua incomprensibile debolezza è tale da avere in se stesso quanto basta perché nessun altro essere possa essere più grande.

Il dono che l'azione religiosa gli arreca si incorpora alla sua sostanza in maniera così stretta, che la natura umana diventa capace di produrre e di creare in qualche modo colui dal quale dipende in tutto e per tutto.

Come se, al tempo stesso, il donatore volesse dipendere in tutto dal destinatario del dono, e come se l'uomo, chiamato a dare finalmente soddisfazione all'eccesso infinito del suo volere, diventasse, secondo un'espressione di san Tommaso, « il Dio del suo Dio ».

Quindi, per seguire fino in fondo il determinismo delle esigenze dell'azione umana e la catena delle relazioni necessarie per portare a compimento il nostro destino, è necessario che Dio si offra a noi quasi annientato, perché restituiamo la sua pienezza a questo nulla apparente.

Egli si fa così piccolo nella nostra concezione e nel nostro desiderio che possiamo contenerlo; così debole da aver bisogno che gli prestiamo le nostre braccia e i nostri atti; così condiscendente da abbandonarsi al flusso e al riflusso della vita sensibile; così spossessato da aver bisogno che noi lo restituiamo a se stesso; così morto da doverlo generare di nuovo, come nel misterioso lavoro che ricava le membra vive dagli alimenti inerti.

Era la grande tentazione di diventare « come dei »; sogno impossibile.

E tuttavia sembra che all'uomo sia dato di compiere un prodigio più stupendo: per essere, noi dobbiamo, possiamo far sì che Dio sia per noi e attraverso noi.

Fino a questo punto bisogna giungere perché la nostra volontà trovi finalmente la propria equazione, mettendo in rapporto il suo fine col suo principio.

L'atto per eccellenza è una comunione autentica, una specie di mutua generazione delle due volontà che vivono in noi.

È possibile che i desideri dell'uomo siano appagati e sopravanzati in questo modo?

Chi non ha bramato di ricevere atti di adorazione e di essere oggetto di atti di culto?

Alla ragione spetta dire che noi vogliamo esserlo, alla fede invece spetta dire se lo siamo.

Ma più in là desideriamo ancora un eccesso di bene che non sappiamo definire.

E appunto è necessario che questo eccesso sia promesso a colui che ha la grandezza d'animo di volerlo.

Si tratta di vedere se è stato promesso o no.

Se ogni atto deve fecondare l'anima quasi in vista di un concepimento divino, la morte stessa non rappresenta l'ultima comunione, quella completa, eterna?

E non sarà necessaria di fatto l'eternità, perché l'uomo possa ricevere e assorbire Dio?

Quel Dio che l'uomo ha bisogno di produrre e di volere così come è conosciuto e voluto da lui, per essere e per vivere pienamente.

Non è in nostro potere soddisfare queste esigenze.

Mentre lo è constatare l'ampiezza del vuoto preparato in noi.

E non è il caso di andare a cercare, sotto la straordinaria forza delle parole che abbiamo dovuto adoperare, chissà quale senso simbolico, come se tale senso dovesse essere più esatto, più tollerabile, o ancora più profondo.

No, non si tratta di idee da interpretare, ma di atti da praticare.

L'autentico infinito sussiste non tanto nella conoscenza quanto nella vita.

Non sussiste né nei fatti, né nei sentimenti, né nelle idee, ma nell'azione.

Le angustie apparenti della pratica sono immensamente più ampie della presunta larghezza della speculazione o di qualsiasi misticismo del cuore.

Lo spirito senza la lettera non è più lo spirito.

La verità non vive affatto nella forma astratta e universale del pensiero.

L'unico commento che la lasci intatta è la pratica, che rinnova in ogni intelligenza il mistero del suo concepimento, e la immette interamente in ciascuna di esse con la ricchezza dei suoi aspetti contrari.

È scientificamente accertato che il cielo si trova tanto sotto i nostri passi quanto sopra le nostre teste.

Ma, poiché noi camminiamo e viviamo ancora sulla terra, è precisamente nelle bassure dell'atto che occorre vedere, nonostante l'ostacolo, il cielo che si estende al di là.

La lettera va desunta dalla lettera, perché soltanto in essa, e non nell'interpretazione che se ne darebbe, si cela la realtà dell'operazione che essa prescrive.

La lettera non è anzitutto pensata, ma è soprattutto praticata.

E se nella sua stessa oscurità si danno parole chiare e penetranti come uno sguardo innamorato, ciò avviene a condizione che esse risultino decisive e taglienti come la spada dell'azione.

In questo modo, a poco a poco, si rivela l'ambizione totale della volontà, la quale cercava se stessa senza dapprima conoscersi interamente.

È avanzando la pretesa di adeguare effettivamente la propria potenza che essa cessa di trovare la sua sufficienza soltanto in se stessa.

Volevamo, sembra, fare tutto da noi.

Ed ecco che, attraverso questo progetto, siamo indotti a riconoscere che non facciamo nulla, e che solo Dio agendo in noi ci consente di essere e di fare quello che vogliamo.

Quindi quando vogliamo pienamente, è lui, è la sua volontà che vogliamo.

Chiediamo che egli sia, che sorregga, porti a compimento, e prenda sotto le sue ali tutte le nostre operazioni.

Siamo nostri unicamente per fare appello e consegnarci a lui.

La nostra vera volontà è di non avere altra volontà che la sua.

E il trionfo della nostra indipendenza consiste nella nostra sottomissione.

Sottomissione e indipendenza ugualmente reali.

Infatti quello che dobbiamo ottenere è che il nostro volere si regoli sul suo, e non il suo sul nostro.

E quando, grazie a questa libera sostituzione, riconosciamo che egli compie tutto in noi, ma tramite noi e insieme a noi, proprio allora egli ci consente di aver compiuto tutto.

Noi partecipiamo liberamente alla sua libertà necessaria.

Accettando che egli sia in noi quello che è in sé, otteniamo di essere a nostra volta quello che lui stesso è, Ens a se.

Arriviamo all'indipendenza solo attraverso l'abnegazione, ma vi dobbiamo arrivare.

Ciò che è impossibile rispetto all'intelletto e col solo sforzo del pensiero diventa una realtà nella prassi.

Questa coniuga in una sintesi perfetta due nature in apparenza incompatibili.

Pur essendo sole, le volontà possono entrare in connubio così, in modo da non formare che una sola cosa in una stretta cooperazione, ut unum sint.

Per questo all'azione soltanto è attribuito il potere di manifestare l'amore e di conquistare Dio.

Tutto quanto precede non costituisce altro che un insieme di condizioni subordinate all'azione.

Per giungere al termine di questi bisogni pratici, non resta che giustificarli in assoluto e a loro subordinare l'azione.

Dopo aver considerato tutto, persino la conoscenza e l'affermazione dell'essere, come semplici fenomeni, alla fine bisognerà scoprire nei fenomeni l'essere stesso.

Ciò significa quindi rovesciare i termini usuali del problema, e cercare non ciò che è sotto quello che appare, ma ciò che è in quello che appare.

La visione completa delle esigenze implicate nell'azione ci rivela il segreto delle esigenze che essa subisce; e constatando tutto quello che esigiamo, comprendiamo e giustifichiamo tutto quello che è richiesto da noi.

Indice

5 Probabilmente, per rassicurare le persone nonostante tutto inclini a temere che si faccia violenza all'autonomia del loro pensiero o alla loro credenza, vale la pena indicare in che cosa pretenda consistere precisamente questa divina Rivelazione.
Non si sa mai abbastanza fin dove la ragione è legittimata a muoversi senza temere alcuna potenza confinante, senza mettere in allarme l'autorità che custodisce e interpreta il deposito della fede; e ciò nell'interesse comune della fede e della ragione.
Per la mancanza di questa legittima audacia, la ragione, nel momento in cui avanza la pretesa di rifiutare qualsiasi concorrenza, subisce una riduzione e si priva del suo intero predominio.
Grazie a questa verifica indispensabile la fede, mentre ottiene quello di cui ha bisogno in fatto di preparazione naturale e d'appoggio umano, conserva tutta la sua purezza.
Se, appena la filosofia sfiora la semplice nozione del soprannaturale, si sospetta un abuso di potere o una confusione di competenze, ciò avviene perché si ignora V essenza di questo soprannaturale.
Essendo al di sopra di tutto ciò che ci è possibile ipotizzare o desiderare, questo mistero, anziché temere l'invasione del pensiero, gli apre un orizzonte infinito, senza che esso possa raggiungerlo.
Senza dubbio non tutto, in quello che la fede ci propone, è inaccessibile al nostro sforzo; e in ciò che la ragione può scoprire c'è una parte che la rivelazione custodisce e conferma.
Ma al di là di tutti i progressi della scienza e della virtù umana, tale mistero è una verità impenetrabile a ogni intelligenza filosofica, un bene superiore a ogni aspirazione della volontà. Ed ecco come la fede ci propone questo mistero.
Introducendoci al segreto della sua vita intima, il Dio nascosto ci rivela le processioni divine, la generazione del Verbo dal Padre, la spirazione dello Spirito dal Padre e dal Figlio.
Poi, per amore, egli invita tutti gli uomini a partecipare alla sua natura e alla sua beatitudine.
Adottato dal Padre, rigenerato dal Figlio, unto dallo Spirito, l'uomo è per grazia quello che Dio è per natura, e nel tempo si rinnova il mistero dell'eternità. L'uomo non dice più a Dio: " Padrone ", ma " Padre ".
E da questa grazia divina scaturiscono facoltà divine. La fede illumina l'intelligenza per conoscere l'incomprensibile, la carità dilata la volontà per abbracciare l'infinito.
Non appartenendo più alla nostra natura, queste operazioni risalgono fino alla sorgente da cui procedono: erede del Padre, coerede del Figlio, unito all'uno e all'altro per mezzo dello Spirito, l'uomo contempla Dio, lo ama, lo possiede.
Egli è Dio, ma senza confusione di natura o di persona.
L'incomunicabile si è comunicato.
Di modo che colui che non era, elevato al di sopra di ogni essere creato o concepibile, partecipa all'eterno privilegio di colui che solo può dire: " Io sono colui che sono " [nda].