Confessione Augustiana |
Nelle chiese presso di noi la confessione non è stata abolita.
Infatti siamo soliti porgere il corpo del Signore soltanto a coloro che sono stati preventivamente esaminati ed assolti.
E il popolo viene istruito con grande cura sulla fiducia che deve avere nell'assoluzione, alla quale invece, prima di questi nostri tempi, non si faceva il minimo accenno.
I fedeli vengono istruiti a tenere in altissimo conto l'assoluzione perché è voce di Dio ed è pronunciata per ordine di Dio.
Si esalta il « potere delle chiavi » e si ricorda quale grande consolazione esso arrechi alle coscienze atterrite e che Dio esige la fede affinché crediamo a quella assoluzione come alla voce sua che risuona dal cielo, e che quella fede ottiene veramente e riceve la remissione dei peccati.
In passato si esaltavano esageratamente le opere in funzione della soddisfazione e non si faceva menzione alcuna della fede, dell'opera meritoria di Cristo, della giustizia che proviene dalla fede.
Perciò, a questo proposito, le nostre chiese non sono affatto da accusare, poiché anche questo i nostri avversari sono costretti a riconoscerci come merito, che la dottrina della conversione è stata da noi trattata e spiegata con grandissima cura.
Tuttavia sulla confessione [ i nostri ] insegnano che l'enumerazione dettagliata delle colpe non è necessaria e che le coscienze non devono essere oppresse dallo scrupolo di enumerare una per una tutte le colpe, perché è impossibile esporre tutti i propri misfatti, come attesta il Salmo: « Chi può conoscere i suoi errori? » [ Sal 19,13 ].
E Geremia: « Malvagio è il cuore degli uomini e imperscrutabile » [ Ger 17,9 ].
Che se invece nessun altro peccato, all'infuori di quelli espressamente ricordati, venisse rimesso, le coscienze non potrebbero mai essere tranquille, dal momento che non hanno più presenti né possono ricordare un gran numero di peccati.
Anche gli antichi scrittori attestano che quella enumerazione non è necessaria.
Infatti nei decreti si cita Crisostomo che così afferma: « Non ti dico di esporti pubblicamente, né di accusarti davanti agli altri, ma voglio che tu obbedisca al profeta che dice: "Rivela al cospetto di Dio la tua via".
Confida dunque i tuoi peccati a Dio che è vero giudice, con la tua preghiera.
Confessa le tue colpe non con la lingua, ma con la memoria della tua coscienza ».
Anche la glossa sul « De Poenitentia » ( dist. 5, cap. Consideret ) riconosce che la confessione è di diritto umano.
Tuttavia la confessione è mantenuta presso di noi, sia per il grandissimo beneficio dell'assoluzione, sia per altri utili servizi resi alle coscienze.
Vi è stata in passato la generale convinzione, e non solo nel popolo ma anche in coloro che insegnavano nelle chiese, che le distinzioni dei cibi e simili tradizioni umane siano opere utili per meritare la grazia e dare soddisfazione per i peccati.
E che tutti siano stati di quest'opinione lo dimostra il fatto che ogni giorno venivano istituite nuove cerimonie, nuovi ordini religiosi, nuove festività, nuovi digiuni e i dottori nei templi esigevano queste opere come atti di culto necessari per meritare la grazia, anzi atterrivano fortemente le coscienze se tralasciavano qualcuna di queste pratiche.
Da questa convinzione sul valore delle tradizioni ne sono derivati molti inconvenienti nella Chiesa.
In primo luogo, fu oscurata la dottrina della grazia e della giustizia che proviene dalla fede, che è la parte principale del Evangelo e che bisogna far emergere e mettere in risalto nella Chiesa, affinché si conosca bene il merito di Cristo e affinché la fede che crede che i peccati ci sono rimessi per i meriti di Cristo, sia posta molto al di sopra delle opere e di ogni altro atto di culto.
Per questo motivo anche Paolo insiste moltissimo su questo punto, rimuove la legge e le tradizioni umane per dimostrare che la giustizia cristiana è qualcosa di diverso dalle opere di questo genere, e precisamente è fede che crede che noi siamo accolti nella grazia di Dio per i meriti di Cristo.
Ma questa dottrina di Paolo è stata quasi del tutto soffocata dalle tradizioni, le quali generarono la convinzione che, per mezzo della distinzione dei cibi e altre simili pratiche di culto, si dovesse meritare la grazia e la giustizia.
Al momento della penitenza non si faceva alcun accenno alla fede, ma venivano proposte solo quelle opere ritenute atte a dare soddisfazione; si pensava che tutta la penitenza consistesse in quelle opere.
In secondo luogo, queste tradizioni oscurarono il comandamento di Dio, perché erano preferite di gran lunga ai Suoi ordini.
Si pensava che tutto il cristianesimo si esaurisse nell'osservanza di certi giorni festivi, di certi riti, digiuni, modi di vestirsi.
A queste osservanze era stata attribuita un'altissima qualifica: quella di essere la vita spirituale e perfetta.
Ma, allo stesso tempo, i compiti che Dio assegnava a ciascuno secondo la sua vocazione, cioè che il padre di famiglia educasse la prole, che la madre partorisse, che il principe governasse lo stato, non meritavano alcun riconoscimento.
Si pensava che queste fossero opere mondane e imperfette e di gran lunga inferiori a quelle tanto esaltate osservanze religiose tradizionali.
Questa errata opinione tormentò fortemente le coscienze pie che si dolevano di dover condurre un genere di vita imperfetto, come lo stato matrimoniale, la magistratura o le altre funzioni civili, e che perciò ammiravano i monaci e i loro simili, ed erroneamente credevano che le osservanze di costoro fossero più gradite a Dio.
In terzo luogo, le tradizioni misero in grave pericolo le coscienze perché era impossibile rispettare tutte le tradizioni e pur tuttavia i fedeli continuavano a pensare che queste osservanze fossero atti di culto indispensabili.
Gerson scrive che molti precipitarono nella disperazione, che alcuni si diedero pure la morte perché si erano resi conto di non poter soddisfare alle tradizioni e nel contempo non avevano udito neanche una parola di consolazione sulla giustizia che proviene dalla fede e sulla grazia.
E vediamo che i compilatori di Summae e certi teologi, nell'elencare le pratiche tradizionali, cercano degli adattamenti e attenuazioni ( epieíkeias ) nell'osservanza di esse alfine di sollevare le coscienze; eppure non riescono a svincolarle a sufficienza, anzi talvolta le prendono ancor più al laccio.
Nel raccogliere le tradizioni, le varie scuole e i predicatori furono così occupati che non ebbero tempo di attingere alla Scrittura per cercarvi un insegnamento ben più utile sulla fede, sulla croce, sulla speranza, sul valore delle professioni civili e sulla consolazione delle coscienze nelle grandi tentazioni.
E così Gerson, ed alcuni altri teologi, si sono fortemente lamentati per il fatto che queste aspre contese sulle pratiche e sulle tradizioni li hanno distolti dal potersi dedicare a un migliore genere di dottrina.
Anche Agostino vieta di aggravare le coscienze con osservanze di quel tipo e saggiamente istruisce Ianuario per fargli comprendere che esse sono da osservarsi come cose indifferenti, non necessarie.
Questo infatti afferma.
Non sembri perciò che i nostri abbiano affrontato sconsideratamente questo argomento, o per odio verso i vescovi, come alcuni sospettano ingiustamente.
Era grande la necessità di mettere in guardia le Chiese contro quegli errori nati da una cattiva comprensione delle tradizioni.
Infatti l'Evangelo ci costringe ad insistere nella Chiesa sulla dottrina della grazia e della giustizia che proviene dalla fede, la quale tuttavia non può essere compresa se i fedeli continuano a pensare di meri tarsi la grazia mediante l'osservanza di certe pratiche scelte da loro stessi.
Pertanto insegnarono che, con l'osservanza delle tradizioni umane, non possiamo meritare la grazia o dare soddisfazione per i nostri peccati; perciò non bisogna credere che simili osservanze costituiscano un atto di culto indispensabile.
Si aggiungono le testimonianze tratte dalla Scrittura.
Cristo, in Matteo 15,5, scusa gli apostoli che non avevano rispettato un'usanza tradizionale, che tuttavia sembrava di una certa importanza in quanto si riferiva alle abluzioni della legge giudaica, e aggiunge: « Invano mi rendono il loro culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini » [ Mt 15,9 ].
Non pretende dunque una forma di culto inutile.
E poco dopo afferma: « Non è quel che entra nella bocca che contamina l'uomo » [ Mt 15,11 ].
E così Paolo, in Romani 14,17: « Il regno di Dio non consiste in cibo o bevanda », e in Colossesi 2,16: « Nessuno vi giudichi quanto al mangiare, o al bere, o rispetto a feste, o a sabati … ».
In Atti 15,10, Pietro dice: "Perché tentate Dio mettendo sul collo dei discepoli un giogo che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare?
Anzi noi crediamo di essere salvati per la grazia del Signore Gesù nello stesso modo che loro".
Qui Pietro proibisce di aggravare le coscienze con un gran numero di riti, siano essi prescritti da Mosè o da altri.
E la 1 Timoteo 4,1-3 definisce « dottrina diabolica » la proibizione di usare certi alimenti, perché è assolutamente contrario al Evangelo istituire o fare tali opere alfine di meritare con esse la grazia, o come se non si potesse dare una giustizia cristiana senza tali atti di culto.
A questo punto i nostri avversari obiettano che i nostri vietano la disciplina e la mortificazione della carne al pari di Gioviniano.
Ma in realtà dagli scritti dei nostri si ricava ben altro; ci hanno infatti sempre insegnato, riguardo alla croce, che i cristiani devono sopportare le afflizioni.
Una vera, seria mortificazione e non simulata è questa: essere travagliati da varie afflizioni e crocifissi con Cristo.
Insegnano inoltre che ogni cristiano deve esercitarsi e imparare a contenersi mediante una disciplina del corpo, con esercizi corporali e con fatiche in modo tale che la sazietà o l'ozio non lo ecciti al peccato, senza però che mediante quegli esercizi noi meritiamo la remissione dei peccati o diamo soddisfazione per i peccati.
E si deve sempre attendere con zelo a questa disciplina del corpo e non soltanto in pochi giorni stabiliti, come insegna Cristo: « Badate a voi stessi, che talora i vostri cuori non siano appesantiti dalla crapula ».
E ancora: « Questa specie di demonio non si può far uscire in altro modo che con la preghiera » [ Lc 21,34 e Mc 9,29 ].
E Paolo dice: « Tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù » [ 1 Cor 9,27 ].
Qui indica chiaramente che egli reprime il corpo non per meritare con quella disciplina la remissione dei peccati, ma per avere un corpo obbediente, adatto alle cose dello Spirito e pronto a fare il proprio dovere secondo la vocazione di ciascuno.
Pertanto non sono condannati i digiuni in sé, ma le tradizioni che prescrivono certi giorni e certi cibi con grave pericolo delle coscienze, come se tali opere costituissero forme di culto indispensabili.
Sono tuttavia mantenute presso di noi varie tradizioni, come l'ordine delle letture bibliche nella messa, i giorni festivi e altre utili usanze che contribuiscono al mantenimento del buon ordine nella Chiesa.
Ma nel contempo i fedeli sono avvertiti che tali atti di culto non giustificano nessuno al cospetto di Dio e che la loro omissione ( salvo che sia causa di pubblico scandalo ) non è da considerarsi peccato.
Questa libertà, per quanto riguarda i riti introdotti dagli uomini, non fu ignota ai Padri.
Così in Oriente celebravano la Pasqua in un giorno diverso da quello stabilito a Roma, e poiché i romani, per questa diversità, accusarono l'Oriente di scisma, furono ammoniti da gli altri che non era affatto necessario che tali usanze fossero simili ovunque.
Ireneo dichiara: « Una dissonanza nel digiuno non spezza la consonanza nella fede » e, nella distinctio 12, papa Gregorio fa capire che una tale diversità non intacca l'unità della Chiesa.
E nella Storia tripartita, libro 9, sono raccolti molti esempi di differenze rituali e si conclude con queste parole: « L'intenzione degli apostoli non fu quella di istituire dei giorni festivi, ma di predicare un buon modo di vivere fra gli uomini e un corretto rapporto con Dio ».
Che cosa si insegni presso di noi sui voti dei monaci, lo si può capire meglio se si tiene presente quali fossero le condizioni dei monasteri e quante cose contrarie ai canoni vi si commettessero ogni giorno.
Al tempo di Agostino [ i monasteri ] erano libere associazioni; poi, quando la disciplina degenerò, furono aggiunti i voti, affinché, come in seguito all'istituzione di un carcere, la disciplina vi fosse ristabilita.
E a poco a poco, oltre ai voti, furono aggiunte molte altre regole.
E con queste catene molti furono avvinti, anche se non avevano ancora l'età richiesta, contro le disposizioni dei canoni.
Così si trovarono coinvolti, per errore o per ignoranza, in questo genere di vita, molti fedeli che, per quanto avessero raggiunto l'età richiesta, erano incapaci di una corretta valutazione delle proprie forze.
E, irretiti in tal modo, essi erano costretti a rimanere [ nei monasteri ], benché alcuni avessero la possibilità di liberarsi per motivi ammessi dai canoni.
E questo accadde ancor più spesso nei monasteri femminili che non nei conventi maschili, per quanto si dovesse avere maggiore riguardo al sesso più debole.
Prima di questo nostro tempo tale rigore non piacque a molti uomini onesti i quali vedevano che fanciulle e adolescenti venivano rinchiusi nei monasteri solo perché il loro mantenimento fosse assicurato, notavano anche a quali risultati deplorevoli approdasse quella decisione, quali scandali producesse, in quali lacci avviluppasse le coscienze.
Lamentavano che l'autorità dei canoni, in materia tanto delicata e pericolosa, fosse completamente trascurata e disprezzata.
A questi mali si aggiungeva una tale convinzione, a proposito dei voti, che un tempo - come è ben noto - non era gradita neppure agli stessi monaci, quando se ne trovarono alcuni un po'più comprensivi e sensibili.
Dicevano infatti che i voti equivalevano al battesimo, insegnavano che con quel genere di vita si meritava la remissione dei peccati e la giustificazione dinanzi a Dio.
Anzi aggiungevano ancora che la vita monastica non merita soltanto la giustizia dinanzi a Dio, ma molto di più, poiché osserva ed applica non soltanto i « precetti » evangelici, ma anche i « consigli » evangelici.
In tal modo riuscivano a convincere che la professione di vita monastica era molto più lodevole del battesimo, che la vita monastica aveva più meriti della vita dei magistrati, dei pastori e simili, i quali, senza quelle pratiche artificiose, obbediscono alla loro vocazione negli incarichi che Dio ha loro affidato.
Nessuna di queste loro affermazioni può essere negata, perché si possono leggere chiaramente nei loro libri.
Che cosa avveniva poi nei monasteri?
Un tempo vi erano delle scuole dove si studiavano le Sacre Scritture e altre discipline utili alla Chiesa e di lì si traevano pastori e vescovi; ora è tutta un'altra cosa; non crediamo sia necessario ripetere cose note.
Un tempo si riunivano nei conventi per imparare; ora inventano che quel genere di vita è stato istituito per meritare la grazia e la giustizia; predicano pertanto che quello è lo stato di perfezione e lo innalzano di gran lunga al di sopra di tutti gli altri generi di vita stabiliti da Dio.
Abbiamo riportato tutto ciò senza nessuna esagerazione polemica, affinché si potesse comprendere meglio quel che i nostri insegnano in questo campo.
In primo luogo, a proposito di quelli che contraggono matrimonio, insegnano che a tutti coloro che non sono adatti al celibato è lecito contrarre matrimonio, poiché i voti non possono annullare l'ordine stabilito da Dio e il suo comandamento.
E questo è il comandamento di Dio: « Ogni uomo abbia la propria moglie per evitare la fornicazione » [ 1 Cor 7,2 ].
E non solo il comandamento di Dio, ma anche la creazione di Dio e l'ordine che egli ha stabilito costringono al matrimonio coloro che non ne sono stati esentati grazie ad un particolare intervento di Dio, secondo quel detto: « Non è bene che l'uomo sia solo » ( Gen 2,18 ).
Non peccano dunque coloro che obbediscono a questo comandamento e all'ordine stabilito da Dio.
Che cosa si può obiettare a questi argomenti?
Esalti pure qualcuno l'impegno del voto quanto vuole; non potrà tuttavia far sì che il voto annulli il comandamento di Dio.
I canoni insegnano che per ogni voto è richiesto, come condizione di validità, il consenso di un superiore; molto meno dunque avranno valore questi voti contro l'esplicito ordine di Dio.
Che se poi il vincolo dell'impegno ai voti non avesse alcun valido motivo per essere modificato, neppure i pontefici romani avrebbero concesso dispense.
Non sarebbe lecito infatti ad un uomo sciogliere un vincolo che fosse esclusivamente di diritto divino.
Ma i pontefici romani ritennero invece saggiamente che per questi vincoli si dovesse dar prova di moderazione; per ciò si legge che hanno accordato spesso delle dispense dai voti.
É nota infatti la vicenda del re d'Aragona richiamato dal monastero, né mancano esempi nella nostra epoca.
In secondo luogo, per qual motivo i nostri avversari esagerano l'importanza del vincolo, ossia l'effetto del voto, mentre tacciono del tutto sulla natura stessa del voto, che deve riguardare cosa realizzabile, essere volontario, spontaneamente scelto e ben ponderato?
Ora: nessuno certo ignora quanto rientri nelle capacità dell'uomo di vivere in castità perpetua!
E quanti pronunciarono i voti spontaneamente e dopo matura riflessione?
Le fanciulle e gli adolescenti vengono convinti a pronunciare i voti prima dell'età della ragione, e talvolta vi sono perfino costretti!
Perciò non è giusto disputare con tanta rigidità sull'obbligo [ dei voti ], quando tutti ammettono che è contro la natura stessa del voto il fatto che sia stato promesso non spontaneamente e senza matura riflessione.
La maggior parte dei canoni scioglie i voti contratti prima del quindicesimo anno di età, poiché, prima di quell'età, non ritiene vi sia un discernimento sufficiente per decidere dell'intera vita.
Un altro canone, più indulgente verso la debolezza umana, aggiunge qualche anno in più: vieta infatti di pronunciare i voti prima dei diciotto anni.
A quale dei due ci si deve attenere?
La grande maggioranza di coloro che abbandonano i monasteri è dunque pienamente giustificata, dal momento che moltissimi hanno pronunciato i voti prima di questa età.
In ultimo, anche se si potesse rimproverare loro la rottura del voto, non sembra che ne debba conseguire immediata mente lo scioglimento dei matrimoni contratti da quelle persone.
Infatti Agostino dice che non li si deve sciogliere, 27, quest. I, cap. Nuptiarum e la sua autorità nella Chiesa non è di poco conto, anche se altri in seguito la pensarono diversamente.
Per quanto il comandamento di Dio sul matrimonio sembri liberare un buon numero dai voti, tuttavia i nostri adducono anche un altro motivo per cui i voti sono invalidi: ed è che ogni atto di culto a Dio istituito dagli uomini senza un ordine di Dio e scelto per meritare la giustificazione e la grazia, è un'empietà, come dice Cristo: « Invano mi rendono il culto con precetti di uomini » [ Mt 15,9 ].
Anche Paolo insegna ovunque che non bisogna cercare la giustizia mediante le nostre pratiche e i nostri atti di culto, poiché queste cose sono state inventate da gli uomini, ma che la giustizia è attribuita per fede a coloro che credono di essere ricevuti nella grazia da Dio per l'opera di Cristo.
É pure noto che i monaci hanno insegnato che le loro pratiche artificiose avrebbero dato soddisfazione per i peccati, meritato la grazia e la giustificazione.
Cos'altro è questo se non uno sminuire la gloria di Cristo, oscurare e negare la giustizia che proviene dalla fede?
Ne consegue dunque che codesti voti entrati nell'uso sono stati degli atti di culto empi e sono per tanto invalidi.
Infatti un voto empio e contrario ai comandamenti di Dio non ha alcun valore; poiché il voto non deve essere un vincolo che conduce all'iniquità, come dice il canone.
Paolo afferma: « Voi che volete essere giustificati per la legge, avete rinunciato a Cristo; siete scaduti dalla grazia » [ Gal 5,4 ].
Quindi anche coloro che vogliono essere giustificati per i loro voti hanno rinunciato a Cristo e scadono dalla grazia.
Per ciò anche coloro che attribuiscono ai voti la giustificazione, attribuiscono alle proprie opere quel che appartiene soltanto alla gloria di Cristo.
E in verità non si può negare che i monaci abbiano insegnato che, mediante l'osservanza dei loro voti e delle regole della vita monastica, essi sarebbero giustificati e meriterebbero la remissione dei peccati; anzi hanno inventato cose ancora più assurde, vantandosi di applicare ad altri le loro buone opere.
Se qualcuno volesse metterne in rilievo tutti gli aspetti negativi, senza alcun riguardo, quante cose potrebbe citare di cui i monaci stessi oggi si vergognano!
Oltre a ciò con vinsero pure i fedeli che le loro pratiche artificiose fossero lo stato di perfezione cristiana: e questo non equivale forse ad attribuire la giustificazione alle opere?
Ed è uno scandalo di non lieve portata nella Chiesa proporre al popolo una determinata forma di culto inventata dagli uomini, senza ordine di Dio, e insegnare che tale culto possa giustificare gli uomini al cospetto di Dio!
Così infatti la giustizia che proviene dalla fede ( che è necessario sia insegnata come prima cosa nella Chiesa ) viene oscurata, mentre invece quelle mirabolanti pratiche religiose da « angeli », quella simulazione di povertà, di umiltà e di celibato, sono ampiamente propagandate dinanzi agli occhi de gli uomini!
Inoltre, quando i fedeli sentono dire che solo i monaci sono nello stato di perfezione, vengono lasciati nell'ombra i comandamenti di Dio e il vero culto che gli è dovuto.
La perfezione cristiana, infatti, consiste nel temere seriamente Dio e, d'altra parte, nell'aprire l'animo ad una grande fede e confidare, per l'opera di Cristo, che siamo stati riconciliati con Dio; nel chiedere aiuto a Dio e attendercelo con certezza in tutte le cose che dobbiamo fare secondo la nostra vocazione, e intanto nel compiere diligentemente, agli occhi di tutti, le buone opere e impegnarci nella nostra vocazione.
In queste cose è la vera perfezione e il vero culto di Dio, non nel celibato o nella mendicità o nel portare vesti consunte.
Perciò il popolo si è fatto molte idee dannose ascoltando quei falsi panegirici sulla vita monastica.
Sente lodare fuor di misura il celibato: e pertanto vive il matrimonio con forti scrupoli di coscienza.
Sente dire che solo chi vive di elemosine è perfetto: e pertanto possiede i suoi beni ed esercita attività economiche con grossi scrupoli di coscienza.
Sente dire che il consiglio evangelico è di non vendicarsi: e pertanto alcuni, nella loro vita privata, non esitano a vendicarsi, poiché sentono dire che il divieto della vendetta è un « consiglio » non un comandamento.
Altri invece cadono in un errore ancora più grave perché sono convinti che ogni magistratura e ogni carica civile siano indegne dei cristiani e contrastino con il consiglio evangelico.
Si raccontano così i casi di certi uomini che, dopo aver abbandonato moglie e figli, o la gestione degli affari pubblici, si sono rinchiusi nei conventi.
E la chiamavano fuga dal mondo e ricerca di un modo santo di vivere; non capivano che si deve servire Dio in quegli incarichi che egli stesso ci ha dato e non in quelli inventati dagli uomini.
Buono e perfetto è il genere di vita che ha come fondamento l'ordine di Dio.
É necessario dunque istruire bene il popolo su queste cose.
Prima di questi ultimi tempi, anche Gerson biasimava l'errore dei monaci e, a proposito della perfezione, attesta che ai suoi tempi era nuova la diceria che la vita monastica fosse lo stato di perfezione.
Quante empie opinioni sono collegate ai voti monastici!
Si dice che essi rendano giusti, che siano la perfezione cristiana, che i monaci ottemperino sia ai « consigli » sia ai « precetti » evangelici, che dispongano di meriti supererogatori.
Ma dato che tutte queste cose sono false e vuote, rendono invalidi i voti monastici.
In passato vi furono grandi dispute sul potere dei vescovi, nelle quali alcuni inopportunamente hanno confuso il potere ecclesiastico e il potere temporale.
Da questa confusione ebbero origine durissime guerre e fortissime agitazioni poiché i Pontefici, fondandosi sul potere delle chiavi, non solo istituirono nuovi atti di culto, aggravarono le coscienze con l'istituzione dei « casi riservati » e con l'impiego brutale della scomunica, ma tentarono anche di trasferire in altre mani i regni del mondo e di togliere il potere sovrano all'imperatore.
Fin da molti anni fa vi furono uomini pii e colti che biasimarono questi errori nella Chiesa.
Perciò i nostri, per istruire le coscienze, furono costretti a mostrare la differenza fra potere ecclesiastico e potere temporale, ed insegnarono che entrambi, per ordine di Dio, devono essere rispettati con devozione religiosa e onorati come i massimi benefici di Dio sulla terra.
I nostri dunque ritengono che il potere delle chiavi, o potere dei vescovi, secondo l'Evangelo, è il potere o l'ordine ricevuto da Dio di predicare l'Evangelo, di rimettere o ritenere i peccati, e di amministrare i sacramenti.
Infatti Cristo invia in missione gli apostoli con questo ordine: « Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi.
Ricevete lo Spirito Santo.
A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete sa ranno ritenuti » [ Gv 20,21-23 ].
Anche Marco 16,15: « Andate, predicate l'Evangelo ad ogni creatura, ecc. ».
Questo potere si esercita soltanto insegnando e predicando l'Evangelo e amministrando i sacramenti, sia alle moltitudini, sia ai singoli individui, a seconda della vocazione, poi ché non vengono date cose materiali, ma beni eterni, la giustizia eterna, lo Spirito Santo, la vita eterna.
Queste cose non si possono ottenere se non mediante il ministero della Parola e dei sacramenti, come dice Paolo: « L'Evangelo è potenza di Dio per la salvezza di ogni credente » [ Rm 1,16 ].
E il Salmo 118: « La tua Parola mi vivifica ».
Perciò, dal momento che il potere ecclesiastico concede beni eterni e si esercita soltanto mediante il ministero della Parola, non è di per sé incompatibile con l'assunzione di responsabilità amministrative e politiche, come – ad esempio – l'arte del bel canto non è di per sé incompatibile con il governare uno stato.
Infatti il potere politico si dirige a cose del tutto diverse da quelle di cui si occupa l'Evangelo.
Il magistrato non tutela le menti ma i corpi e i beni materiali contro ogni evidente ingiustizia, e tiene a freno gli uomini con la spada e le pene corporali.
L'Evangelo, invece, tutela le menti contro le empie credenze, contro il diavolo e la morte eterna.
Potere ecclesiastico e potere temporale non devono dunque essere confusi.
Il potere ecclesiastico ha il suo compito di predicare l'Evangelo e di amministrare i sacramenti: non deve quindi usurpare funzioni che non gli spettano, non deve arrogarsi il diritto di trasferire in altre mani i regni del mondo, di abrogare le leggi dei magistrati, di sciogliere [ i popoli ] dal vincolo della legittima obbedienza [ ai sovrani ], di ostacolare giudizi o sentenze di alcun ordinamento civile o riguardo a qualsiasi contratto, di dettar legge ai magistrati sulla forma di organizzazione dello stato, come dice Cristo: « Il mio regno non è di questo mondo ».
E ancora: « Chi mi ha costituito su voi giudice o spartitore? ».
E Paolo dice, in Filippesi 3,20: « La nostra cittadinanza è nei cieli ».
E in 2 Cor 10,4: « Le armi del nostro combattimento non sono carnali, ma potenti nel cospetto di Dio a distruggere le macchinazioni. »
In tal modo i nostri distinguono i doveri di ognuno di questi due poteri e ordinano di rispettarli entrambi e di riconoscere che entrambi sono un dono e un beneficio di Dio.
Se i vescovi hanno un qualche potere temporale, non lo detengono in quanto vescovi, per ordine del Evangelo, ma per diritto umano, accordato loro dai re e dagli imperatori per l'amministrazione civile delle loro proprietà.
Pertanto questa è una funzione diversa da quella del ministero del Evangelo.
Quando dunque si discute sulla giurisdizione dei vescovi, si deve distinguere il potere civile dalla giurisdizione ecclesiastica.
Perciò, secondo l'Evangelo ( o, come dicono, secondo il diritto divino ) questa giurisdizione [ compete ai vescovi in quanto tali, cioè a coloro ai quali è affidato il ministero della Parola e dei sacramenti, di rimettere i peccati, di respingere la dottrina contraria al Evangelo, di escludere dalla comunità della Chiesa – senza ricorrere alla forza umana, ma unicamente con la parola – gli empi la cui empietà sia evidente.
In questo caso le chiese hanno il dovere di prestare loro obbedienza per diritto divino, secondo il detto di Cristo: « Chi ascolta voi ascolta me » [ Lc 10,16 ].
Ma, se i vescovi insegnano o istituiscono qualcosa di contrario al Evangelo, le chiese hanno in tal caso il comandamento di Dio che vieta loro di obbedire.
Mt 7,15: « Guardatevi dai falsi profeti ».
Gal 1,8: « Quand'anche un angelo dal cielo vi annunziasse un Evangelo diverso, sia anatema ».
2 Cor 13,8: « Non possiamo nulla contro la verità, possiamo solo per la verità ».
E ancora: « Ci è stata data l'autorità per edificare, non per distruggere » [ 1 Cor 13,10 ]
E così ordinano pure i canoni ( II, quaest. VII, cap. Sacerdotes, cap. Oves ).
Anche Agostino nell'epistola contro Petiliano, dice: « Ai vescovi cattolici non si deve obbedire se sbagliano in qualche caso o esprimono pareri contrari alle Scritture canoniche di Dio ».
Se [ i vescovi ] hanno qualche altro potere o giurisdizione nell'istruire certe cause, come quelle di matrimonio o riguardanti le decime ecc., lo hanno per diritto umano; pertanto, se in queste funzioni gli ordinari sono negligenti, i principi sono costretti – anche contro il loro desiderio a rendere giustizia ai sudditi per mantenere la pace pubblica.
Oltre a questo, si discute pure la questione se i vescovi o i pastori abbiano il diritto di istituire nuove cerimonie nella Chiesa e prescrizioni sui cibi, sui giorni festivi, sui gradi dei ministri o sugli ordini.
Coloro che attribuiscono questo potere ai vescovi adducono come testimonianza questa parola di Cristo: « Ho ancora da dirvi molte cose, ma non sono per ora alla vostra portata; ma quando sarà venuto lui, lo Spirito della verità, egli vi guiderà in tutta la verità » [ Gv 16,12-13 ].
Adducono anche l'esempio degli apostoli che prescrissero di astenersi dai sangue e dagli animali soffocati.
Citano il sabato mutato nella domenica, in apparente contrasto con il decalogo.
Nessun esempio, in verità, è maggiormente esaltato del cambiamento del sabato.
Sostengono che è ben grande il potere della Chiesa se ha potuto addirittura dispensare dall'osservanza di un precetto del Decalogo.
Ma su tale questione i nostri insegnano che i vescovi non hanno il potere di prescrivere qualcosa che sia contrario al Evangelo, come abbiamo già prima dimostrato.
E lo ammettono anche i canoni, nella distinct. 9,64 pienamente.
D'altronde è contro la Scrittura istituire delle tradizioni alfine di dare soddisfazione, mediante la loro osservanza, per i nostri peccati, o per meritare di essere giustificati.
Si reca offesa, infatti, alla gloria del merito di Cristo, se riteniamo di essere giustificati con tali osservanze.
É noto, inoltre, che a motivo di questa convinzione, le tradizioni si sono moltiplicate all'infinito nella Chiesa, mentre la dottrina della fede e della giustizia che proviene dalla fede fu soffocata; infatti, di volta in volta, fu introdotto un sempre maggior numero di giorni festivi, furono prescritti dei nuovi digiuni.
Furono istituite nuove cerimonie e nuovi ordini, in quanto gli autori di tali cose ritenevano, con tali opere, di meritare la grazia.
Così pure, in passato, si moltiplicarono i canoni penitenziali, dei quali vediamo ancora alcune tracce nelle opere di soddisfazione imposte ai penitenti dopo che è stata impartita l'assoluzione.
Analogamente gli autori di queste tradizioni agiscono contro il comandamento di Dio quando fanno consistere il peccato nel mangiare certi cibi, nel non osservare certi giorni e altre simili cose, facendo pesare sulla Chiesa la schiavitù della legge, come se i cristiani fossero obbligati, per meritare la giustificazione, a rendere a Dio un culto simile al culto levitico, la cui istituzione Dio avrebbe affidato agli apostoli e ai vescovi.
Così infatti scrivono alcuni, e sembra che i pontefici siano stati ingannati, per qualche aspetto, dall'esempio della legge mosaica.
Da qui provengono quei ben noti gravami [ coscienza ]secondo cui sarebbe peccato mortale compiere un lavoro manuale nei giorni festivi, anche se non è di scandalo agli altri; o secondo cui certi cibi insozzano la coscienza, o i digiuni, fatti non per la salute ma come pena per i peccati commessi, sono opere che placano Dio; o secondo cui è peccato mortale tralasciare le « ore canoniche », o il peccato, nei « casi riservati », non può essere rimesso se non sia intervenuta l'autorità che li ha riservati, benché gli stessi canoni parlino non di riserva della colpa, ma di riserva delle pene ecclesiastiche.
Da dove traggono il diritto i vescovi di imporre alle chiese quelle tradizioni per prendere a laccio le coscienze?
Mentre invece Pietro vieta di imporre un giogo ai discepoli, e Paolo afferma che l'autorità è stata data a loro per edificare, non per distruggere.
Perché, mediante queste tradizioni, si fanno aumentare i peccati?
In verità esistono chiare testimonianze che vietano di istituire tali tradizioni per placare Dio o come necessarie alla salvezza.
Paolo, in Colossesi 2,16: « Nessuno vi giudichi quanto al mangiare o al bere, o rispetto a feste, o a noviluni, o a sabati ».
E ancora: « Se siete morti con Cristo alle cose del mondo, perché, come se viveste nel mondo, vi lasciate imporre dei precetti quali: non toccare, non assaggiare, non maneggiare, cose tutte destinate a perire con l'uso?
Sono prescrizioni e dottrine d'uomini che hanno l'apparenza della saggezza ».
Ancora Paolo, nella Lettera a Tito: « Non dare retta a favole giudaiche né a comandamenti d'uomini che voltano le spalle alla verità » [ Col 1,14 ].
Cristo stesso, in Matteo, dice a proposito di coloro che pretendono l'osservanza di tradizioni: « Lasciateli andare; sono ciechi guide di ciechi » e disapprova tali atti di culto: « Ogni pianta che il Padre mio celeste non ha piantata, sarà sradicata » [ Mt 15,13 ].
Se i vescovi avessero il diritto di aggravare le coscienze con queste tradizioni, perché la Scrittura proibisce così frequentemente di istituirle?
Perché le chiama dottrine di demoni?
É forse invano che lo Spirito Santo ci avrebbe messo in guardia da tutto ciò?
Rimane il fatto, dunque, che, in quanto tali ordinamenti, istituiti come se fossero necessari o nella convinzione di meritare la giustificazione, sono in contrasto con l'Evangelo, non è lecito ai vescovi istituire tali atti di culto o pretenderli come indispensabili.
É necessario, infatti, che nelle chiese sia mantenuta la dottrina della libertà cristiana, cioè che la sottomissione alla legge non è necessaria per essere giustificati, come è scritto in Galati: « Non vi lasciate porre di nuovo sotto il giogo della servitù »[ Gal 5,1 ].
In verità è necessario che sia mantenuta questa parte fondamentale del Evangelo: noi otteniamo la grazia mediante la fede in Cristo, non per certe osservanze o per certi atti di culto istituiti dagli uomini.
Che cosa si deve dunque pensare della istituzione della domenica e di simili riti da celebrarsi nei templi?
A questo proposito [ i nostri ] rispondono che è lecito ai vescovi e ai pastori dare delle prescrizioni affinché ogni cosa sia fatta con ordine nella Chiesa, ma non alfine di dare con esse soddisfazione per i peccati, o per vincolare le coscienze perché li considerino atti di culto indispensabili.
Così Paolo ordina che nelle assemblee le donne tengano il capo coperto e che coloro che interpretano [ le profezie ] parlino con ordine nella comunità [ 1 Cor 11,5 ].
É bene che le chiese, in nome della carità e per amor di pace, obbediscano a tali prescrizioni e le osservino in modo che non ne nascano scandali, ma che ogni cosa nella Chiesa si svolga con ordine e con disciplina; le osservino tuttavia in modo tale che le coscienze non ne siano aggravate pensando che tali prescrizioni siano necessarie alla salvezza e che il violarle, senza scandalo per nessuno, costituisca un peccato.
Così, ad esempio, nessuno dirà che una donna che cammina in pubblico con la testa scoperta, senza scandalizzare nessuno, commette peccato.
Della stessa natura è la prescrizione di osservare la domenica, la Pasqua, la Pentecoste e le feste e riti consimili.
Infatti chi pensa che l'osservanza della domenica sia stata istituita dall'autorità della Chiesa come obbligatoria, al posto del sabato, cade in errore: la Scrittura, non la Chiesa, ha abolito il sabato.
Infatti, dopo la rivelazione del Evangelo, tutte le cerimonie mosaiche possono essere abbandonate.
Tuttavia, poiché era necessario fissare un giorno affinché il popolo sapesse quando doveva riunirsi, risulta che la Chiesa ha destinato a tale scopo la domenica, che sembra sia stata preferita ad altri giorni anche perché i fedeli ne ricevessero un esempio di libertà cristiana e imparassero che non era più necessaria l'osservanza del sabato né quella di qualsiasi altro giorno.
Si assiste anche a dispute incredibili sul cambiamento della legge, sulle cerimonie della nuova legge, sullo spostamento del sabato ecc., che sono tutte nate dalla falsa convinzione che il culto nella Chiesa debba essere simile a quello levitico e che Cristo abbia affidato agli apostoli e ai vescovi il compito di inventare nuove cerimonie necessarie alla salvezza.
Questi errori serpeggiarono nella Chiesa perché non si insegnava abbastanza chiaramente la giustizia che proviene dalla fede.
Alcuni sostengono che l'osservanza della domenica non è propriamente di diritto divino, ma quasi di diritto divino; e per ogni giorno festivo prescrivono in che forma e in che misura sia lecito lavorare.
Dispute di questo genere, che altro sono se non lacci per le coscienze?
Per quanto essi tentino di mitigare l'osservanza di queste tradizioni, tuttavia non si potrà mai raggiungere l'equità finché rimane intatta la convinzione che la loro osservanza sia necessaria; e questa convinzione è destinata a perdurare finché si continuerà ad ignorare la giustizia che proviene dalla fede e la libertà cristiana.
Gli apostoli ordinarono di astenersi dal sangue ecc.
Ma chi osserva oggi queste prescrizioni?
Eppure non peccano coloro che non le osservano, poiché neppure gli apostoli, da parte loro, vollero aggravare le coscienze con tale schiavitù, ma quel divieto era solo per quel tempo, onde si evitasse lo scandalo.
Infatti, in quel decreto, bisogna concentrare l'attenzione sulla perpetua volontà del Evangelo.
Anche da parte di coloro che difendono le tradizioni, soltanto qualche canone è osservato alla lettera e molti di essi ogni giorno cadono in disuso.
E non si può portare aiuto alle coscienze se non si osserva questa giusta moderazione: sapere che Conviene osservare le tradizioni senza pensare che esse siano necessarie e che le coscienze non subiscono offesa se qualcosa muta nelle usanze degli uomini in quel campo.
I vescovi potrebbero facilmente conservare la legittima obbedienza se non insistessero sull'osservanza delle tradizioni che non si possono osservare in buona coscienza.
Attualmente, invece, impongono il celibato e accettano [ negli Ordini ecclesiastici ] soltanto coloro che giurano di non voler insegnare la pura dottrina del Evangelo.
Le nostre chiese non chiedono che i vescovi ristabiliscano la concordia a scapito del loro onore, cosa che pure rientrerebbe nei compiti di buoni pastori.
Chiedono soltanto che rinuncino ad imporre dei pesi iniqui che sono nuovi e che sono stati accolti al di fuori delle consuetudini della Chiesa universale.
Forse all'inizio quelle istituzioni ebbero dei motivi plausibili, che tuttavia non sono più in accordo con i tempi attuali.
É anche evidente che alcuni precetti sono stati introdotti per errore.
La clemenza dei vescovi richiederebbe perciò che essi ne attenuassero il rigore, poiché tale modificazione non spezza l'unità della Chiesa.
Molte tradizioni umane, infatti, si sono modificate nel tempo, come dimostrano gli stessi canoni.
Se invece non sarà possibile ottenere che vengano mitigate le osservanze di quei precetti che non si possono osservare senza peccato, si renderà allora necessario per noi seguire la parola degli apostoli che ci comanda di obbedire a Dio anzi ché agli uomini [ At 5,29 ].
Pietro vieta ai vescovi di dominare e di imporre alle chiese la loro volontà.
Al momento attuale, dunque, non si pretende che i vescovi rinuncino al loro potere, ma si chiede questo soltanto: che permettano la predicazione del Evangelo nella sua purezza e che mitighino l'osservanza di certi precetti, pochi in verità, che non si possono osservare senza peccato.
Se invece non lo faranno, constateranno di persona in qual modo dovranno rendere ragione a Dio, poiché con la loro caparbietà e durezza offriranno occasione allo scisma.
Abbiamo enumerato i principali articoli che sembrano controversi.
Anche se avremmo potuto citare un maggior numero di abusi, ci siamo accontentati di menzionare i principali, per evitare la prolissità.
Vi furono grandi proteste per le indulgenze, per i pellegrinaggi, per l'abuso della scomunica; le parrocchie sono afflitte in vari modi dai predicatori straordinari; vi sono state interminabili contese fra pastori e monaci sul diritto parrocchiale, sulle confessioni, sulle sepolture, sulle prediche straordinarie e su altre innumerevoli questioni.
Ma noi abbiamo tralasciato le questioni di quel genere, affinché, con una esposizione concisa, fossero immediatamente riconoscibili gli aspetti più importanti di questa controversia.
E non si creda che, a questo proposito, sia stato detto o citato qualcosa per offendere qualcuno.
Al contrario, sono state elencate quelle cose che sembrava necessario dire onde si potesse capire che, né in fatto di dottrina, né di cerimonie, nulla è stato accolto da noi che sia contrario alle Scritture o alla Chiesa universale; è evidente, infatti, che nelle nostre chiese si è vegliato con grande scrupolo affinché non serpeggiassero nuovi ed empi principi dottrinali.
Abbiamo voluto presentare questi articoli, in conformità all'editto della imperiale maestà, perché in essi trovasse espressione la nostra confessione di fede e perché si potesse comprendere l'essenziale della dottrina di coloro che insegnano presso di noi.
E se in questa confessione sarà trovata qualcosa che lascia a desiderare, siamo pronti a fornire una più ampia informazione, Dio volendo, fondata sulle Scritture.
Alla Vostra Maestà Imperiale, i fedeli e sudditi:
Giovanni, duca di Sassonia, elettore
Giorgio, marchese di Brandeburgo,
Ernesto di Luneburg,
Filippo, langravio d'Assia
Giovanni Federico, duca di Sassonia,
Francesco, duca di Lüneburg,
Wolfango, principe di Anhalt,
Il Senato e i magistrati di Norimberga,
Il Senato di Reutlingen
Augusta, 25 giugno 1530
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