Gesù Cristo rivelazione dell'uomo

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Capitolo sesto - IV

IV. Gli sbocchi della solitudine

Occorre trovare uno sbocco alla solitudine subita e all'isolamento scelto.

In pratica vi sono due sbocchi: il divertimento o il superamento.3

Un primo modo di sfuggire alla solitudine è di distrarsi, di stordirsi, di « divertirsi », nel senso pascaliano del termine, cioè voltare le spalle a se stesso e alla propria condizione miserabile per non pensarci affatto.

Si tratta di dimenticare, per infine dimenticarsi.

Ci si agita, ci si affanna, si freme, ci si stordisce, fino all'ubriacatura morale e fisica.

Se si viaggia, è per darsi alla soddisfazione epidermica della curiosità.

Si attraversano paesi e continenti: non si vede che con un occhio, non si ascolta che con un orecchio, ci si rimpinza di monumenti, di musei, di spettacoli.

Al ritorno, se per caso qualcuno ci interroga sul periplo compiuto, tutt'al più si può dire che si sono visti e attraversati tanti paesi, fatti tanti chilometri.

Evidentemente non si è avuto il tempo di capire, e ancor meno quello di penetrare le mentalità e le culture.

Se si resta a casa, ci si stordisce col suono e l'immagine.

E quando il rumore soffoca tutte le voci, non se ne sente nessuna, ne la propria, ne quella di Dio.

Il solo vero sbocco all'isolamento ( caricatura della solitudine ) o al divertimento ( alibi peggiore del male ) è la solitudine vera, feconda.

Ma questa, a sua volta, è una conquista e il frutto di un tirocinio.

La solitudine feconda, infatti, esige che ci si allontani dal tumulto, dal fracasso, dagli alto-parlanti tonanti e rabbiosi, che ci si ritrovi dopo essersi persi.

Se cerchiamo di definire le componenti di questa solitudine autentica, vi troviamo gli elementi seguenti.

Il primo, e più evidente, è il ritiro, il distacco.

Finché ci si stordisce, trepidanti, si vive al di fuori di sé, a lato del suo vero io.

Finché l'animus si agita, direbbe Claudel, l'anima, o l'Io profondo, non riesce a farsi sentire.

Si deve cessare di folleggiare, come lepri, e rientrare a casa.

Solo la separazione, un certo distacco, anche se fossero dolorosi, danno accesso alla vera solitudine.

Un secondo elemento che, in fondo, non è che il rovescio del primo, è il raccoglimento.

Cristo si ritira in disparte, ma per pregare, per ritrovarsi, come Figlio, nell'intimità del Padre.

Senza il raccoglimento, il ritiro diventa siccità, deserto intollerabile.

Se si lascia il tumulto, il vortice, è per ritrovarsi in acque calme.

« Ogni atomo di silenzio è la possibilità di un frutto maturo » ( Valery ).

Si rientra in sé per ritornare agli altri, ma più ricchi, con qualche cosa da offrire.

Un terzo elemento della solitudine vera è infatti l'apertura agli altri.

Senza questa apertura, il raccoglimento non è che ripiegamento su se stessi, narcissismo, e rischia fortemente di ricadere nell'isolamento aggressivo.

Raccoglimento e apertura costituiscono ugualmente una sola operazione.

La solitudine, riconducendo l'uomo al centro, lo rivela a se stesso, nella sua libertà, nel mistero della sua insostituibile unicità, anche nella sua limitatezza, col suo bisogno di conoscere, di amare, di agire per realizzarsi.

Altrimenti si atrofizza e muore.

La solitudine insegna anche a vedere gli altri con lo stesso sguardo, non come ombra indifferente, o come oggetto da possedere, da sfruttare, ma come un uguale mistero di libertà e di unicità, che non si scopre che attraverso una libera testimonianza.

Esclusivismo e totalitarismo sono nemici della vera solitudine.

L'altro si offre come un Tu di fronte a un Io.

Questi due misteri non si rivelano che nella vicendevole accoglienza, apertura all'Io altrui, mediante la fiducia, la confidenza e l'amore.

Altrimenti ci troviamo di fronte a delle monadi ermetiche, come conchiglie ben chiuse.

Ma, per donarsi così nel proprio mistero personale, occorre prima essersi afferrati, identificati e rivelati a se stessi mediante il raccoglimento.

Non vi è offerta senza un dono da offrire.

Solo la solitudine vera conduce all'amicizia e all'amore autentici.

Là dove esiste, il dialogo, nutrito dal raccoglimento e dall'apertura, sgorga dal più intimo di ciascuno per raggiungere il più intimo dell'altro.

La solitudine allora è feconda, a immagine della solitudine divina, che è insieme pienezza infinita e disappropriazione infinita.

La vera solitudine conduce infine al rinnovamento di sé.

Chi è sceso nelle profondità del proprio cuore e si apre agli altri, crea in sé un essere nuovo.

Scoprendosi e aprendosi realizza se stesso.

La vera solitudine e fonte di progresso, di creatività, d'integrazione.

La dialettica della vita è quella della solitudine e della comunione: un ritmo a due tempi.

Intellettualmente e spiritualmente nasce fecondità vera senza solitudine.

Lo sposo, l'amico, il mistico, il ricercatore, tutti devono passare di lì.

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3 3 J.-B. LOTZ, De la solitude humaine, Paris, 1964, pp. 89-114.