Gesù Cristo rivelazione dell'uomo |
Lo sguardo di Jean-Paul Sartre su « gli altri », in Huis-Clos, è dell'ordine delle constatazioni: una constatazione del resto molto incompleta, poiché ignora quell'aspetto della realtà umana che si chiama la santità.
Quando dice: « L'inferno, sono gli altri », Sartre non nega il valore degli altri, ma descrive una situazione di fatto.
L'inferno è nella menzogna delle nostre relazioni interpersonali.
Lasciato a se stesso, l'uomo non riesce a raggiungersi: ne a impegnarsi, ne a disimpegnarsi.
La sua solitudine è uno stato di conflitto interiore.
La presenza degli « altri » non fa che amplificare questo conflitto, perché gli ricorda costantemente la sua insufficienza, la sua frustrazione di essere totalmente.
Gli uomini sono costretti a « vivere con gli altri », ma in fondo, rimangono soli.1
Per sfuggire alla loro angoscia, si rifugiano nell'inautenticità.
Tutti sono commedianti, sono attori senza valore che recitano falsi ruoli, che si lasciano suggerire parole e atteggiamenti ipocriti.
L'uomo non è trasparenza, ma menzogna.
E perché gli uomini sono così divisi tra loro, le loro relazioni assumono aspetti infernali.
Si deve ammettere che gli uomini non sono angeli.
Visti in se stessi, ci sembrano spesso egoisti, ipocriti, ripugnanti, pieni di sentimenti fetidi e inconfessati.
Peccato, fonte di peccato, l'uomo è spesso orribile.
Questo sguardo sugli altri, che vuole essere « realista » genera spesso atteggiamenti negativi: svalutativi, utilitari, possessivi.
L'altro allora è concepito in termini di oggetto.
Il suo carattere di persona gli è rifiutato.
Abbiamo già parlato dell'indifferenza generale che caratterizza l'uomo contemporaneo, specialmente quello delle grandi città; o dell'indifferenza « particolare » che colpisce tale partito, tale gruppo, tale persona.
Nei due casi l'altro non esiste più.
Non è raro tuttavia che tale indifferenza serva a mascherare la paura di un rivale, reale o eventuale.
Allora, si evitano i contatti: l'altro è là come se non ci fosse.
Ma presto si arriva alla svalutazione: « un tale è considerato più intelligente di me, ma l'intelligenza non basta a qualificare un uomo »; poi è la detrazione, per maldicenza o calunnia.
Si afferma una qualità nell'altro, con un « ma » che la distrugge immediatamente; oppure, raffinatezza suprema, si provoca una terza persona ad abbattere il rivale, riservandosi il ruolo di attenuare la critica con una parola « caritatevole ».
Alla fine è la diffamazione, l'accusa velenosa: « se .non l'ha fatto, ne ha fatte ben altre! ».
In fondo, si abbassa l'altro per elevare se stessi, per attribuirsi un valore che non si possiede, adombrati da colui che lo possiede.
La negazione dell'altro, tuttavia, non è una vera vittoria.
Un atteggiamento più frequente consiste nel fare dell'altro un « oggetto utile », un valore commerciale: mercé d'acquisto, di scambio o di vendita; un oggetto da acquistare, da possedere, da sfruttare.
In ogni caso, il soggetto, la persona ne resta degradata.
Non cadiamo tuttavia nell'angelismo.
Non ci si deve offendere di espressioni come « ho bisogno di lei per questo affare », « lei mi sarà molto utile », « lei è l'uomo della situazione ».
Nessuno si lascia ingannare da simili espressioni.
Non si può vivere nell'estasi oblativa mancando al realismo della vita.
Nella società abbiamo tutti un « valore commerciale »!
Si deve riconoscerlo e saperne anche ridere.
L'atteggiamento diventa negativo quando questo comportamento, normale in sé, innocente, si ipertrofizza e diventa possessivo, sfruttatore.
Allora si tratta l'altro come una cosa, uno strumento.
La sua interiorità non esiste più per chi lo usa.
Uno « strumento animato »: è appunto la definizione dello schiavo.
Il suo Io, la sua personalità non conta più: ciò che conta è il suo rendimento.
Le rivolte operaie del XIX e XX secolo, erano precisamente una protesta contro la misconoscenza del valore umano del lavoratore, contro la riduzione del suo essere a sola energia che una macchina può vantaggiosamente sostituire.
Questo sfruttamento dell'altro come oggetto può estendersi anche al campo affettivo, per captare l'attenzione, la stima, il cuore dell'altro.
Ogni volta che noi cerchiamo così di confiscare la soggettività dell'altro, noi lo trasformiamo in puro oggetto, lo svalutiamo.
Ma, di fatto, un'alterità ridotta al silenzio,2 non è mai conquistata: o l'altro conserva la sua libertà, la sua dignità, e allora il suo possesso ci sfugge: oppure abdica alla sua. libertà per terrore o seduzione e allora si cosifica.
È vano ignorare l'alterila degli altri o pretendere di sormontarla annettendola, dominandola o sfruttandola.
I rapporti con gli altri non si possono stabilire che sulla base di diversità riconosciute, rispettate, volute.
Si tratta di riconoscere l'altro in se stesso e per se stesso; di rispettare il suo voler essere, il suo poter essere, il suo voler essere meglio.
In breve, si deve riconoscere la sua dignità di persona.
Ora, è attraverso l'amore, nel senso corrente del termine, sgorgato dalle profondità dell'Io e che raggiunge le profondità dell'Io, che si realizza una reale alterila o interiorità reciproca.
Indice |
1 | J. DE FINANCE, L'affrontement de l'autre, Rome, 1973, pp. 161-170. |
2 | Ricordiamo a questo proposito l'opera di VERCORS, Le silence de la tuer (trad. it. Il silenzio del mare, Einaudi, Torino, 1976). |