Gesù Cristo rivelazione dell'uomo |
Un giorno, tuttavia, ciò che sappiamo da sempre « si presenta » alla nostra coscienza, come una cosa che ci concerne.
Questo sentimento della morte come « mia », e della sua prossimità, si fa sentire in modo più acuto in alcuni momenti della nostra esistenza: per esempio, in occasione di una malattia più grave, della morte di un amico, di un parente prossimo.
Noi sentiamo allora il sentimento della nostra fragilità, della nostra impotenza: la malattia si presenta come un'aggressione alla vita personale.
È vissuta come un'anticipazione della morte biologica, o per lo meno come una morte « parziale » della persona; ci si sente andare.4
L'uomo colpito prende da quel momento la morte sul serio.
Passa subitamente dal nozionale al reale, dall'evidenza ragionevole all'evidenza vissuta: lascia il libresco, l'informazione, e anche la metafisica, per il vissuto.
Il suo sapere diventa « effettivo ».
Ciò che conosceva con la punta del pensiero, lo scopre improvvisamente presente in lui, tanto intensamente quanto la vita.
L'assurdo è imminente, alla mia porta.
Sconvolgente questa idea che la grande sera, è questa stessa sera!
Prima, la proroga, il linguaggio potevano attutire il mio contatto con la morte.
Vi erano come dei tamponi, degli schermi tra la morte e me: ormai sono aboliti.
Anche gli anziani sono presi dalla sorpresa, come se non avessero avuto il tempo di prevedere e di prepararsi.
Per vecchi che si sia, si muore sempre troppo presto!
L'uomo avvicina sempre la morte in condizioni d'improvvisazione.
Ma a partire dal momento in cui il mortalis diventa moriturus e, per forza di cose, moribundus, in istanza di morte, l'uomo si rende conto che la morte non è più una eventualità astratta, ma l'approssimarsi di un evento per me.
Quando l'uomo si sente preso di mira, la morte diventa esperienza efficiente, realizzata, vissuta: è un affare personale, un'avventura che non accade agli altri soltanto, ma a me stesso preso in mezzo agli altri.
Questo passaggio dal nozionale al reale personale e vissuto non si effettua mediante il ragionamento, ma balza come un dato immediato, tramite un'intuizione istantanea.
Fino allora parlavo della morte in terza persona: in modo generale, astratto, anonimo, come il medico che fa una diagnosi, come si parla di un problema, di un oggetto che si descrive e che si analizza.
Al contrario, quando parlo della morte in prima persona, « io » sono ferito a morte: si tratta di un mistero che mi riguarda interamente e personalmente; sono io ad essere interpellato dalla morte col mio nome; sono io ad essere tirato per il braccio e indicato col dito.
I rinvii e gli alibi sono ormai impossibili.
È la mia sorte che è in gioco: devo prenderne atto.
Entro anche nella solitudine, perché la morte è un passo che si fa da solo, senza compagni di viaggio.
Mi si può assistere, ma non sostituirmi.
La mia morte tuttavia resta sempre un futuro: fino all'ultimo battito del cuore, la morte è ancora da morire.
Alla fine della vita, all'incrocio della vita e della morte, ogni distanza spaziale e temporale è abolita.
La mia morte sarà un'istantanea: una presenza « presentissima », eternizzata.
Abbiamo sottolineato che l'esperienza della morte può essere data, fino a un certo punto, anche attraverso la mediazione della morte degli altri: parenti, amici, consiglieri spirituali.
Vivere, infatti, è essere attivamente inseriti in un insieme di rapporti.
Ne puramente biologico, ne puramente solitario, l'uomo è il centro di una molteplicità di legami personali ( di lavoro, di amicizia, d'amore ) che lo riallacciano alla nazione, alla sua professione, alla sua famiglia.
L'uomo che va in pensione sa quanto costi rompere tutti quei legami e vivere ai margini della società.
Ora la morte è la distruzione di ciò che fu lentamente creato e che forma il tessuto della mia coscienza.
La morte dell'altro diventa un po' la mia morte.
Incomincio a morire la mia vita, vivendo la morte che mi tocca.
Più il legame con l'essere amato era profondo e autentico, più la morte è vissuta come morte.
Si pensi alla lacerazione di una madre alla morte del suo figlio unico, carne della sua carne!
Se la morte colpisce mio padre o mia madre, di colpo mi rendo conto che perdo l'ultimo intermediario tra la morte e me.
Posso reinventare, riordinare le mie idee, ma non posso ridare vita all'essere che amavo.
La morte mi appare allora come l'assenza di comunicazione da me a me stesso.
Inoltre più il numero degli amici scomparsi aumenta, più ho l'impressione che il mio universo si sposta, che è con loro, piuttosto che quaggiù.
Tuttavia è vero che io non muoio la morte dell'altro: è sempre l'altro da solo che muore davanti a me e prima di me.
L'esperienza della morte degli altri non mi informa sull'esperienza stessa di morire, ma mi insegna che si muore soli, senza schermo davanti a Dio.
A questo riguardo, mi aiuta a capire il senso della morte per la coscienza personale.
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4 | Ibid.. pp. 5-32. |