Gesù Cristo rivelazione dell'uomo |
La morte, in regime cristiano, è allo stesso tempo azione e passione, rottura e pienezza, disfatta e vittoria, termine della nostra esistenza terrena ed entrata nella vita eterna.
Da una parte la morte è l'esperienza di uno sradicamento, di una rottura violenta, di una frattura.
Si deve togliere l'ancora, fare i bagagli.
Il cristianesimo non cerca di sminuire il lato « duro » della morte, ne di galvanizzare le volontà, come gli stoici.
È un'esperienza che impegna tutto l'uomo, quella di un naufragio che colpisce tutta la nostra vita terrena.
Cristo stesso ha vissuto questa violenza della morte.
Ciò che ci inganna, a volte, è un'antropologia dualista, di tipo socratico, che vede nello spirito una sostanza separata che assiste, insensibile, all'erosione e poi allo sfacelo del suo compagno di carne.
Ci si immagina la sopravvivenza di un'anima che continuerebbe la sua strada senza inquietarsi del peso morto abbandonato.
La verità è che l'anima anima il corpo, ne fa la sua intima espressione modellandolo e guidandolo nel corso di tutta la vita.
D'altra parte, l'anima ha bisogno del corpo per perfezionarsi, poiché è il corpo che le offre i primi oggetti della sua conoscenza e del suo amore, e che, inversamente le permette, nella sua azione, di entrare in contatto con gli altri uomini e col cosmo.
Nella morte la dominazione dello spirito subisce una disfatta; la sua potenza di organizzazione è vinta.
Ma se è vero che la morte colpisce tutto l'uomo, l'uomo non è pertanto annientato.11
Questa morte come termine della vita biologica, col suo carattere di aggressione, d'assalto dall'esterno, è la manifestazione dell'essenza del peccato come rottura dell'alleanza con Dio, come conseguenza e castigo del peccato ( del peccato personale come pure del peccato originale ).
« Il salario del peccato è la morte » ( Rm 6,23 ).
Ma le cose avrebbero potuto andare altrimenti, perché l'uomo creato da Dio non doveva conoscere l'angoscia e la corruzione della morte.
La vita dell'uomo paradisiaco avrebbe senza dubbio avuto un termine, perché la morte, a causa della natura spirituale e corporale dell'uomo, rimane un avvenimento « naturale », ma non avrebbe avuto questo carattere di crollo tragico.
Essa sarebbe stata piuttosto la fioritura della nostra vita interiore, dopo la sua maturazione realizzata durante la vita terrena.
Così maturato, l'uomo avrebbe trasformato il suo corpo di carne in corpo spirituale.
Tale è Cristo risorto che rivede i suoi, mangia con loro e tuttavia possiede un corpo spirituale, sottomesso allo spirito.
Tutto ciò non è un mito.
La rivelazione ci insegna che tale sarebbe stata la condizione dell'uomo originale, dotato dell'immortalità, se non avesse peccato.
La fase terrena sarebbe finita, ma per fare posto immediatamente alla vita celeste, senza angoscia ne corruzione.
È ciò che si augurava san Paolo ( 2 Cor 5,1-5 ); è ciò che ha vissuto Maria.
Tuttavia, anche dopo il peccato originale, l'uomo conserva sempre una tendenza incoercibile verso questo compimento che avrebbe caratterizzato la sua fine sentita come arrivo alla maturità.
Nello stesso tempo in cui termina la sua vita temporale e corporale, mediante la separazione dolorosa del corpo dall'anima, l'uomo si realizza definitivamente dall'interno, come persona, ratificando la sua condotta passata.
La morte mette un termine alla nostra condizione di viaggiatori: chiude il tempo del sì o del no, dell'adesione o del rifiuto: « non si muore che una volta, dopo di che, vi è il giudizio » ( Eb 9,27 ).
L'opzione maturata liberamente quaggiù, in una vita corporale sottomessa al tempo, riceve il suo carattere definitivo, irrevocabile: ciò che conferisce alla vita la sua serietà radicale.
La vita assume il carattere di una storia unica, senza ripetizione e senza ritorno possibile.
Lo stato nel quale l'uomo si trova per libera decisione, differisce ormai dalla situazione transitoria e indeterminata di quaggiù, che può sempre cambiare, revocare.
Il carattere definitivo di questa opzione, che impegna tutta l'esistenza, è un elemento intrinseco della morte, considerata come un atto spirituale e personale dell'uomo.
La morte comporta quindi sempre un doppio aspetto: una fine biologica, passivamente subita e nello stesso tempo un cammino spirituale, mediante il quale, in seno a questa stessa passività, l'uomo si realizza dall'interno ratificando la condotta passata, tramite la quale si è lui stesso realizzato.
La morte biologica coincide con il dies natalis, la sua nascita all'eternità che ha liberamente scelto.
Notiamo che essendo la morte spiritualmente presente all'insieme dell'esistenza, è nella condotta della sua vita quotidiana che l'uomo modella poco a poco la sua realizzazione e ne prepara l'avvento.
La morte si anticipa in tutte le nostre opzioni.12
La morte e dunque ratifica, più che decisione.
Perciò non si deve puntare unicamente sull'opzione da fare in piena lucidità al momento della morte.
Senza dubbio, non si deve inculcare l'idea di una contabilità terrena senza possibile pentimento finale, come pure quella di una santità di vita alla mercé di un traviamento finale.
Ma la teoria della decisione finale sembra rendere impossibile l'impenitenza finale.
Diventa comodo in questa prospettiva rimandare sempre, attendere l'ultima ora o il dopo ultima ora.
Vi è un inferno, ma nessuno dentro.
La gravita dell'ultima ora non deve svuotare la vita temporale della sua densità, della sua attualità di fronte alla morte.
L'albero rimane dove è caduto.
L'opzione fondamentale è intrinseca alla morte stessa.
In altre parole, la morte è spiritualmente presente all'insieme dell'esistenza.
L'aldilà è dentro la vita.
La sopravvivenza non si costituisce dopo la morte, ma prima, o piuttosto al di sopra e nel cuore della vita, liberamente.
Così il Padre Kolbe, che muore liberamente al posto di un altro che non poteva subire una morte che non era pronto ad affrontare.
Per il Padre Kolbe, al contrario, la morte è la sua vita già eternizzata giorno per giorno, nell'offerta di sé.
Così anche Francesco d'Assisi, la cui morte è consenso totale e sereno, come un frutto maturo che si stacca.
Il cielo è per coloro che ci pensano.
È molto imprudente rimandare a un'ultima possibilità offerta a tutti, al momento del passaggio all'eternità.13
Indice |
11 | A. MANARANCHE, Celui qui vieni, Paris, 1976, pp. 176-186. |
12 | K. RAHNER, « Théologie de la mort », in Ecrits théologiques III, Bruges-Bruxelles-Paris, 1963, pp. 122-126 (trad. it. Sulla teologia della morte, Morceiliana, Broscia, 1965). |
13 | Tale è per esempio la posizione di Rahner, Congar, Von Balthasar. |