Il principio Persona |
Ritengo assodato che la scienza sia una straordinaria impresa conoscitiva, ma aggiungo che non è l'unica e forse neppure la più fondamentale.
Come filosofo che ha riflettuto sulle varie modalità con cui l'intelligenza umana conosce la realtà, sono amico del pluralismo conoscitivo e avversario della posizione che riduce ad una sola le fonti del conoscere, un assunto che ha rivestito diverse forme nella storia della cultura.
Attualmente ritengo che un rischio notevole provenga dallo scientismo che definirei come l'assunto secondo cui solo la scienza conosce, solo essa ci offre il bene della conoscenza.
Il prodursi dello scientismo indica frequentemente una crisi della filosofia, un approccio riduzionistico e un postura depersonalizzante e oggettivante nei confronti dell'uomo.
Naturalmente lo scientismo non è la scienza, ma una sua contraffazione seppure oggi alquanto diffusa.
Le scoperte della scienza rivestono un valore primariamente conoscitivo: in tal senso non esagererei nel senso di un fallibilismo oltranzista, di un popperismo senza limiti, che forse finisce per fare più male che bene alla scienza, confinando le sue imprese nel vasto campo del sapere incerto, probabile, rivedibile, su palafitte.
Aggiungo che la verticale della conoscenza scientifica e filosofica è indispensabile, poiché prima di passare al momento morale e politico-giuridico, dobbiamo necessariamente comprendere il tema in esame.
I problemi, prima di valere come interrogativi morali, si pongono spesso come questioni ontologiche.
Nel campo della vita sono perciò necessarie una bio-ontologica, una bio-etica, una bio-giuridica e una bio-politica.
L'attuale condizione della bioetica e dei suoi problemi, nonostante il convergere su di essa di tante ricerche e attenzioni, non può non apparire alquanto precaria, per la difficoltà a fare emergere « evidenze » condivise.
L'urgenza di trovare soluzioni ai dilemmi morali suscitati dal progredire di tecnologie che realizzano un potere di disposizione sulla vita, ha il suo peso nell'indirizzare verso elaborazioni precipitose.
In questo quadro assume valore emblematico il tema dell'embrione umano, in cui si combinano la sua « inapparenza », ossia il suo ridursi a qualcosa di quantitativamente e dimensionalmente minimo, e il costituire un crocevia imprescindibile, perché in esso ne va della comprensione dell'uomo e della vita.
Naturalmente con la questione dell'embrione emerge in tutta la sua forza la domanda sulla persona.
Il chiarimento del concetto di persona appare un'esigenza prioritaria per avviare a soluzione molti problemi con cui la bioetica si confronta.
Se da un lato l'idea che si debba rispettare la persona risulta quasi universalmente accettata ( è una sorta di valore ecumenico ), occorre ammettere che non di rado si è d'accordo solo a parole.
Non è infrequente che nella ricerca sulla identificazione della persona, particolarmente complessa nei casi di confine, vengano ritagliati concetti di persona ad hoc tra loro distanti.
Un tale evento si verifica in ambito bioetico, dove quella identificazione è messa alla prova in modo diretto.
Le scienze biologiche non sanno della persona: con la riflessione su di essa ci si colloca al di fuori della biologia, si accede alla sfera del sapere filosofico.
Volgendosi verso le cose stesse, il metodo della filosofia cerca, diversamente dalla scienza che opera un esteso processo di « disontologizzazione » ( legittimo, sul suo piano ), l'ordine, il valore e per così dire il « sapore » dell'essere.
Nel progetto scientifico moderno l'uomo è visto come sdoppiato in un livello in cui è considerato soggetto inalienabile ( la persona, interpretata soprattutto come titolare di diritti ), e in un altro in cuiè oggetto, ossia parte della natura fisico-biologica, su cui sovrintende la mano della scienza-tecnica.
La prospettiva qui perseguita, che denominerei come « personalismo ontologico », pur assegnando rilievo alla ricerca degli indizi che possano segnalare la presenza della persona, non ritiene che l'esser-persona o il divenirlo siano accettabili solo funzionalmente o empiricamente ( e questo in particolare negli stati-limite ), ma che siano argomentabili razionalmente entro una concezione dell'essere e dei suoi diversi gradi, capace di apprendere nella misura massima possibile dalle scoperte della scienza, non limitandosi però solo ad esse, piuttosto integrandole e interpretandole.
Sollevando la domanda sull'embrione umano ci collochiamo in un ambito problematico diverso da quello morale, oggi tanto frequentemente evocato, che intende rispondere al quesito se qualcosa sia moralmente lecito o illecito.
Non è l'etica il filo conduttore del mio discorso, ma l'ontologia.
Opino che lo slittamento quasi immediato al piano dell'etica sia un equivoco gravido di conseguenze.
Sarà dalla risultanza dell'indagine ontologica che prenderanno rilievo delle obbligazioni morali, in virtù dell'idea che le strutture ontologiche che verranno emergendo veicolano connotazioni di valore e integrità tali da richiedere o porre doveri alla nostra libertà.
Se i dati della biologia saranno costantemente tenuti presenti, l'argomentazione non potrà che risultare inferenziale e non biologica, perché l'esser-persona è una condizione ontologica radicale non sempre evidente, per l'affermazione della quale l'analisi biologica fornisce solo alcuni elementi.
Essa rileva nell'embrione umano una serie di caratteri, dal cui insieme non è possibile attribuire immediatamente la personalità all'embrione: non pare esservi cioè deduzione immediata dallo statuto biologico dell'embrione di un suo eventuale statuto ontologico personale.
Per affrontare tali questioni sono disponibili nella tradizione filosofica linguaggi e concetti fra loro un poco distinti ma fondamentalmente convergenti: il linguaggio ilemorfìco che ricorre alle nozioni di materia e forma e al concetto di anima ( con le funzioni vegetativa, sensitiva, intellettiva ) come forma del corpo, e il linguaggio della sostanza e della trasformazione sostanziale.
Qui mi muoverò soprattutto lungo la seconda strada, non senza adoperare anche il linguaggio della forma.
Non farò ricorso al paradigma concettuale dell'anima ( cfr. l'Annesso 1 ), non perché lo reputi obsoleto, ma perché occorrerebbe preliminarmente dissipare non pochi equivoci di cui si avverte la presenza nella cultura contemporanea.
Comunque le domande pertinenti sono chiaramente determinate e suonano: l'embrione è un individuo umano?
E una persona umana? È fondata l'equiestensionalità dei concetti di individuo umano e di persona umana?
Le idee di individuo e di persona sono assunte insieme nella nota determinazione di Boezio dell'esser-persona: la persona è una sostanza individuale di natura intellettuale ( rationalis naturae individua substantia ).
La nozione boeziana è analogica, applicandosi ad una vasta classe di persone: qui faremo riferimento solo alla persona umana e all'individuo umano.
Il termine individua substantia è la traduzione latina del lemma aristotelico « sostanza prima » ( pusìa prole ) anch'essa individuale.
Individuo significa indivisum in se et divisum a quolibet alio.
Il concetto di individuo non allude ad un soggetto indivisibile quasi si avesse a che fare con un atomon, ma a qualcosa che allo stato è indiviso e insieme individuale e determinato.
Non è dunque l'indivisibilità a fare l'individualità.
L'individuo è una sostanza determinata che può essere divisibile in parti, che sono a loro volta sostanze.
Lo zigote è una sostanza individuale determinata con l'unità propria dell'intero, che in casi rari può scindersi dando origine a due sostanze determinate ( gemelli monozigoti ), appartenenti per il patrimonio genetico alla specie umana.
Al concetto di individuo appartiene quello di individuo biologico che, secondo il Lessico universale Treccani, è « ogni organismo uni o pluricellulare che non può essere suddiviso senza perdere le sue caratteristiche strutturali e funzionali ».
Il concetto di sostanza è un pilastro dell'idea boeziana di persona.
Secondo Aristotele è sostanza ciò che non è in un soggetto ne è predicato di un soggetto ( Categorie ).
Le sostanze prime sono gli individui, i soggetti, che costituiscono tutto ciò che sta nell'universo.
Esse perdurano sotto un certo tipo di cambiamenti ( accidentali ), mentre mutano dando origine a nuove sostanze quando quella di partenza è sottoposta a trasformazione sostanziale, qualcosa che incontriamo in natura molto frequentemente ( ad es. nella nutrizione tramite cibi ), e che ricorre in ogni generazione umana, ossia nell'evento mediante cui dalle cellule germinali maschili e femminili si forma l'embrione.
Non esiste pertanto continuità fra le prime e il secondo nel senso che nella formazione di questo interviene una trasformazione sostanziale e la produzione di una nuova sostanza.
Questo evento essenziale sfugge completamente alle posizioni empiristiche che, in quanto cieche nei confronti della sostanza, lo sono parimenti nei confronti delle trasformazioni sostanziali.
Ciò che è prima della formazione dell'embrione, ossia le cellule germinali, appartiene all'umano ma non è in alcun modo un essere umano.1
Oltre all'idea boeziana di persona, che ci viene dalla tradizione filosofica, si è in vari settori della cultura moderna introdotto un concetto in qualche misura stipulativo e funzionale della persona, nel senso che sotto di esso raccogliamo aspetti o funzioni che conveniamo di considerare del tutto proprie della persona, che riteniamo siano empiricamente accettabili, e che possono ( e di fatto sono ) variabili secondo le assunzioni stipulate e le singole filosofie di riferimento.
Pensiamo alle proprietà quali: libertà, esistenza di flussi psicologici, autocoscienza, riflessione, linguaggio, comunicazione intersoggettiva, capacità simbolica.
Facendo riferimento a diverse funzioni, si va incontro alla spiacevole conseguenza che esser-persona secondo un certo carattere A non comporta l'esserlo secondo un altro carattere B, e dunque esisterebbero diverse classi di persone.
Se partiamo dall'assunto che flussi psicologici siano funzioni essenziali per l'esser-persona, allora determiniamo una classe di persone molto più ampia di quella determinata dall'autocoscienza, dal senso morale, ecc.
Inoltre riducendo la persona ad un certo numero di funzioni, l'esser-persona avrà dei gradi a seconda dell'ampiezza con cui eserciterà quella funzione; potrà anche passare dallo stato personale a quello non-personale se quella funzione per un certo tempo scompare, e poi ridivenir persona.
Non è chi non veda la problematicità di una simile posizione che introduce surrettiziamente una discriminazione fra gli esseri umani sulla base del possesso di certe funzioni, differenziati non in base a ciò che sono, ma in base a quello che fanno o possono fare; non in base al loro atto primo di esistenza, ma in base ad un ventaglio variabile di funzioni.
L'approccio stipulativo è in genere funzionalistico, empiristico, ma anche « idealistico » perché spesso mette l'accento sulle funzioni alte del soggetto ( l'autocoscienza, la libertà ).
Collocarsi sul piano dell'essere e della sostanza significa che si è persona originariamente, prima ancora di comportarsi da persona.
L'approccio funzionalistico in certo modo capovolge l'assunto: poiché ci si comporta da persona, allora lo si è.
La definizione boeziana non esclude il livello corporeo-biologico- genetico, nel senso che la sostanza individuale umana è anche corporea.
Non viene perciò messo da parte il livello genetico-biologico, come sembra accadere nell'approccio « idealistico » che vede l'autocoscienza, la razionalità e il giudizio morale come i fondamentali o unici elementi costitutivi della persona.
Nella tradizione filosofica cui mi riferisco il concetto di azione è strettamente legato a quello di sostanza, essendo solo le sostanze capaci di agire ( actiones sunt suppositorum ), mentre nella posizione moderna, filosofica e scientifica, l'idea di sostanza è sostituita da quella di funzione, come in Kelsen e Cassirer, e funzione significa il variare di una grandezza al variare di un'altra ( a questo aspetto notevole dedicherò attenzione più avanti ).
Queste due cellule hanno la caratteristica di possedere un patrimonio cromosomico dimezzato ( o aploide ) cioè composto di 23 cromosomi.
La fecondazione avviene all'interno di uno dei due canali di collegamento tra ovaia e utero, detti « trombe di Falloppio » o « tube », si sviluppa in una serie complessa di reazioni fino a realizzare la fusione dei nuclei delle due cellule, pervenendo così a costituire una cellula unica con 46 cromosomi, che è il numero specificatamente proprio dell'essere umano.
Il suo patrimonio genetico è nuovo e diverso da quello paterno e materno e da quello di ogni altro essere umano, frutto di una delle miriadi di possibili combinazioni fra i circa i 30.000 geni di cui consta il patrimonio genetico di ognuno dei due gameti.
Incontrandosi i cromosomi dei due gameti, combinano i loro geni, permettendo la formazione di un nuovo essere umano che ha una sua unicità e irripetibilità, e non è solo un miscuglio anonimo di qualcosa dell'uno e dell'altro genitore, bensì un nuovo uomo, altro dal padre, dalla madre e da qualunque altro fratello possa nascere.
Lo zigote, la nuova cellula che risulta al momento della fusione dei gameti unicellulari paterno e materno, inizia a operare come un nuovo sistema - come un'unità, un essere vivente ontologicamente uno - come ogni altra cellula in fase di divisione cellulare ( mitotica ), ma con alcune peculiari proprietà.
Infatti con esso inizia lo sviluppo embrionale di un nuovo essere che, appartenendo alla specie umana, è un nuovo individuo umano al primo stadio del suo sviluppo, che inizia il ciclo vitale, da cui avranno origine per successive divisioni tutti i circa 100.000 miliardi di cellule che compongono il corpo adulto di un uomo o di una donna.
Nel processo che inizia con la fecondazione, tra le molte attività altamente coordinate di questa nuova cellula, durante un periodo compreso all'incirca tra le 20 e le 24 ore, le più importanti sono:
a) l'organizzazione del nuovo genoma, che rappresenta il principale centro informativo e coordinatore per lo sviluppo del nuovo essere umano e delle sue ulteriori attività;
b) l'inizio del primo processo mitotico che porta l'embrione a due cellule, e successivamente a un numero via via crescente.
Sono da sottolineare due principali aspetti della nuova cellula: il primo, che lo zigote ha una sua precisa identità, cioè non è un essere anonimo; il secondo, che è intrinsecamente orientato a un ben definito sviluppo, e ciò attraverso un'autopoiesi ( autocostruzione ), ossia costruendosi progressivamente le sue cellule.
L'autopoiesi è la caratteristica centrale della vita, ciò che differenzia individui viventi dagli individui non viventi come un tavolo o una saracinesca.
Mentre in questi ultimi l'individualità si conserva mantenendo inalterate le parti materiali che lo costituiscono, negli individui viventi l'identità si mantiene non attraverso conservazione di parti materiali ma attraverso il mantenimento della forma/informazione che organizza e supervede al ricambio organico.
Dal lato biologico tale forma in ogni individuo vivente è il proprio patrimonio genetico, il proprio DNA.
Sin quando tale patrimonio si conserva nell'individuo, questi possiederà una ben definita identità biologica, continuerà ad essere se stesso.
L'apparizione di un nuovo patrimonio genetico sarà il segno dell'accadere di una trasformazione sostanziale.
L'autocostruzione è indirizzata a formare un soggetto umano con una precisa forma corporea identificante; e ambedue, identità e orientamento, sono essenzialmente dipendenti dal genoma che porta inscritta, in ben determinate sequenze molecolari, la cosiddetta informazione genetica.
Tale informazione, sostanzialmente invariante, stabilisce la sua appartenenza alla specie umana, definisce la sua identità biologica individuale, e porta a un programma codificato che lo dota di enormi potenzialità morfogenetiche, cioè di capacità intrinseche che si attueranno autonomamente e gradualmente durante il processo ( epigenetico ) rigorosamente orientato.
Da queste considerazioni emerge l'implausibilità ed anche la rozzezza dell'idea che vede nell'embrione niente più che un grumo informe di cellule.
Lo zigote è il punto esatto nello spazio e nel tempo in cui un individuo umano inizia il proprio ciclo vitale.2
Secondo Scott F. Gilbert « con la fertilizzazione inizia un nuovo organismo vivente.
C'è un unico continuo processo dalla fertilizzazione allo sviluppo embrionale e fetale, alla crescita postnatale, alla senescenza e alla morte », in cui l'individuo umano allo stadio di embrione è l'attivo orchestratore del proprio annidamento e della propria vita.3
Da forme molto semplici l'individuo umano svilupperà forme, tessuti e organi sempre più complessi, in un processo di differenziazione guidato dal suo genoma, che è quello di un essere individuale della specie sapiens sapiens dotato di 46 cromosomi.
Secondo E. Boncinelli « dal punto di vista biologico non c'è in sostanza nessuna discontinuità dal concepimento alla nascita ed oltre ».4
L'embrione-zigote, possiede già il suo patrimonio cromosomico e genetico, che dal nucleo dello zigote verrà trasmesso al nucleo di ciascuna dei miliardi di cellule del corpo umano nel suo complesso.
Tale patrimonio, detto genoma, è unico e individuante per ciascun individuo ( la prova del DNA possiede valore dirimente nei procedimenti giudiziari ), ed è un manuale completo di istruzioni per la fabbricazione e il funzionamento dell'intero organismo.
Tale processo vitale è interno o immanente, ossia capace di autorealizzarsi e autoprogrammarsi.
Occorre ora affrontare due punti: la natura umana dell'embrione; e la sua individualità.
Entrambi sono necessari per « verificare » nell'embrione la persona.
Se l'embrione come essere individuale è dotato di natura umana, allora « il semplice possesso della natura umana implica per ogni individuo umano il fatto di esser-persona », poiché la razionalità è un requisito che accompagna necessariamente la natura umana.5
3a) Che l'embrione possa non possedere ancora una natura pienamente umana è posizione non nuova, e riportabile alle tesi dell'animazione ritardata o successiva/multipla, teoria talvolta legata a conoscenze sull'embriogenesi ormai decisamente superate.
Viene in taglio l'avvertenza che, nonostante le evidenti carenze delle conoscenze biologiche sull'embrione umano presenti negli antichi ( la forma o il patrimonio genetico proviene da entrambi i genitori, non solo dal padre come riteneva Aristotele ), i criteri filosofici da loro elaborati possono rimanere validi quando sono applicati alla conoscenza offertaci dalla moderna embriologia.
Questa consente di assumere il DNA come depositario di quelle caratteristiche che accompagnano ogni vivente dall'inizio al termine della sua storia, e che nel caso dell'embrione umano ne segnano l'appartenenza alla specie umana.
Che l'embrione sia individuo appartenente alla specie umana è quanto sostiene il documento Identità e statuto dell'embrione umano elaborato nel 1996 dal Comitato Nazionale di Bioetica ( CNB ): « Ogni embrione derivato dalla fusione di gameti umani possiede sin dalla fase della sua costituzione zigotica un DNA che contiene sequenze specificatamente umane.
Questi sono dati biologici non controversi, che permettono di attribuire all'embrione una natura umana sin dalla fecondazione, anche perché il DNA è portatore di un programma di sviluppo che ( se l'embrione si sarà regolarmente impiantato nell'utero materno ) condurrà alla formazione di un individuo umano completo o eccezionalmente di più individui umani ( in altri termini, lo sviluppo è endogeno e non potrebbe condurre ad esiti diversi ) » ( p. 11 ).
Possiamo dire che il patrimonio genetico assume le funzioni dì forma che presiede al processo di sviluppo dell'embrione e che ne marca l'appartenenza alla specie umana.
3b) Individualità dell'embrione.
Controversa si presenta l'attribuzione dell'individualità all'embrione sin dalla fase del concepimento-zigote, essendo arduo far collimare il linguaggio della scienza che verifica processi biologici distesi nel tempo, e la concettualizzazione ontologica che introduce eventi o mutamenti istantanei ( trasformazioni sostanziali ).
A mio avviso la transizione dai gameti allo zigote, che può occupare del tempo ed essere perciò un processo, segnala che a un certo momento, quello della completa fusione dei due patrimoni genetici, è accaduto un evento che ha dato origine ad una sostanza nuova, ad un nuovo essere individualmente determinato che da allora in avanti si svilupperà senza discontinuità.
E accaduto quanto abbiamo chiamato una « trasformazione sostanziale », ossia la nascita-formazione di una sostanza nuova a partire dalle due sostanze ( i due gameti ) che si fondono nello zigote, e che non è la somma o qualcosa di analogo delle due sostanze precedenti, ma un essere nuovo, dotato di una forma nuova, che da allora governa il processo di modo che le successive mutazioni saranno quelle accidentali, quali il processo di crescita e di differenziazione corporea.
La forma, qui emblematizzata dal genoma individuale, stabilisce la continuità di un soggetto, che sotto la sua regia si sviluppa senza ulteriori trasformazioni sostanziali in un cammino di formazione di cellule, tessuti, organi.
Come la morte è la perdita di unità del vivente, così la vita è l'acquisto di tale unità, che accade con la formazione dello zigote.
I due estremi del processo vitale sono concepimento e morte: come si muore individualmente, così si è concepiti individualmente.
Tutto ciò che mi costituisce materialmente esisteva prima di me ( di me come zigote ): atomi, molecole, ecc. ma la forma quale principio di unità e di autoprogrammazione intrinseco allo zigote non esisteva prima di me o di lui.
In un certo modo viene al mondo ma non dal mondo.
A sostegno della posizione secondo cui l'inizio della vita umana individuale si colloca all'atto della fecondazione vengono presentati i seguenti argomenti: « già al primo stadio dello sviluppo embrionale sono presenti tutte le informazioni genetiche in grado di portare a termine il programma di sviluppo della persona; tale programma di sviluppo è caratterizzato da tre proprietà biologiche importanti: la coordinazione dei vari geni strutturali e di regolazione; la continuità nella formazione dell'organismo; la gradualità di un progetto individuale unico che passa da struttura più semplice a struttura più complessa » ( documento del CNB, cit., p. 14 ).
Sono sufficienti questi aspetti per poter affermare non solo un'identità ma anche una piena identità individuale dello zigote?
3c) Gemelli monozigoti.
In effetti in alcuni casi l'identità genetica non coincide con l'identità individuale, come nel caso della gemellarità monozigotica che implica il medesimo DNA pur entro una individuale distinzione.
Qui rimarrebbe da determinare se un embrione che poi si scinderà sia all'inizio una sola sostanza, o una soltanto in apparenza: ma in entrambi i casi abbiamo che fare con individualità sostanziali appartenenti alla specie umana.
In altri termini non vi sono motivi sufficienti per sostenere che nel processo di formazione di gemelli monozigoti accada una seconda trasformazione sostanziale dopo la prima consistente nell'unione fra spermatozoo e ovocita: piuttosto può accadere una moltiplicazione per due o duplicazione.
In merito osserva L. Lombardi Vallauri: « L'embrione è un individuo-uomo in atto, è semplicemente un uomo che comincia a vivere, a partire dallo stadio zigote ( se c'è scissione e diventano due, gli uomini sono due; se diventano tre, gli uomini sono tre ).
Quando si parla del 14mo giorno, della stria primitiva, di qualsiasi altro criterio che divida l'indivisibile diacronia dell'individuo ( individuo vuol dire indivisibile ), a me sembrano tutti arrampicamenti sugli specchi.
Vedo con evidenza che a partire dalla fusione dei pronuclei c'è un individuo-uomo in atto, che è in potenza solo all'acquisizione di capacità ulteriori come io sono in potenza - spero - all'apprendimento del sanscrito, ma non è in potenza all'acquisizione della natura dell'uomo.
Questa è la prima evidenza ».6
Se, come è innegabile, il processo evolutivo dell'embrione umano è volto finalisticamente alla pienezza dell'esistenza personale, occorre concedere che si dia sin dall'inizio un principio formante di questa esistenza, un principio costruttivo attivo della totalità personale, che progressivamente si autonomizza.
Qui emerge l'importanza della nozione di forma: in base alla dottrina ilemorfica intendo come forma ciò che da unità, identifica una determinata classe di individui o di oggetti, e così operando consente l'intelligibilità.
Vi sono due significati di informazione: quello di diffondere e trasmettere notizie ( informare ), e quello filosoficamente decisivo di conferire forma ad un corpo di qualsiasi ordine.
La forma/morphé in senso aristotelico significa il secondo aspetto in cui è il patrimonio genetico/genoma ad operare come causa informante del corpo in sviluppo.
Ma quale tipo di causa fra le quattro cause aristoteliche ( materiale, formale, efficiente, finale )?
Se ci poniamo dal lato della scienza correntemente praticata, che ha ridotto in genere le quattro cause ad una sola, quella efficiente, saremmo indotti a rispondere che la causalità del genoma sia solo quella efficiente.
Ma sarebbe un equivoco in quanto la causalità del genoma è formale più che efficiente.
Lo intendiamo facilmente meditando sul fatto che qui l'atomismo e la sommatoria di fattori diversi non approdano a nulla, nel senso che non possiamo ridurre il vivente ad un complesso di geni: la mera somma aritmetica dei geni di uno zigote non è la sua forma e non spiegherebbe i complessi fenomeni di interrelazione e coordinamento fra i geni.
La causa formale non è surrogabile nella generazione da alcuna causa efficiente.
Nella generazione ( umana ) rimane fondamentale l'analisi dell'intervento della causalità formale, un tema difficile per la scienza contemporanea che ha cassato la forma: si pensi all'opera di Monod Il caso e la necessità.
L'unità del vivente è inspiegabile se la pensiamo come effetto del concorso di molteplici cause efficienti, riducendola ad una mera addizione di geni.
Di conseguenza la sua unità implica una causalità formale, ossia la presenza e l'unità di una forma che si mantiene e perdura e che « informa » sotto la sua regia l'intero processo vitale.
Ed è in questo campo concettuale che prende rilievo la realtà della trasformazione sostanziale, che illustra come lo zigote valga quale sostanza nuova emergente sotto la guida di una nuova forma ( che non è più quella dell'ovocita o dello spermatozoo ), che permane e orienta il processo di sviluppo corporeo, e rende ragione dell'unità dell'individuo.
Ovviamente i fattori ambientali influiscono su vari caratteri dell'individuo che ha iniziato il suo processo di sviluppo.
Porto ad esempio il fatto secondo cui la specie umana è quella in cui l'individuo nasce col cervello più immaturo, nel senso che alla nascita poche sinapsi sono attivate.
Se le connessioni sinaptiche sono stabilite tanto dal mio genoma quanto dalle mie esperienze personali ed ambientali, questa plasticità non cambia i caratteri essenziali della specie e la mia complessità genetica è tale già prima dell'interrelazione con l'ambiente.
Diremo perciò che nella relazione dell'individuo con l'ambiente non accade una nuova trasformazione sostanziale dopo quella della formazione dello zigote, ma una vasta serie di trasformazioni accidentali, che naturalmente non sono per nulla secondarie.
Sarebbe un serio equivoco ritenere che il termine « accidentale », tipico del linguaggio filosofico, significhi irrilevante o secondario.
Cercheremo di provare che non si può distinguere fra due qualità, quella più ampia dell'essere uomo, e quella più ristretta dell'essere persona.
L'essere persona è una qualità essenziale, non una condizione o uno stato.
Essere persona è un predicato attribuibile come tale a creature viventi in virtù della loro natura o essenza.
Non sono persone soltanto coloro che possono articolare i propri interessi ed entrare in un accordo reciproco con altri partecipanti, puntando sul mutuo riconoscimento.
Se si assume la non-personalità dell'embrione al concepimento, si apre la lunga querelle sul momento in cui la vita umana diventerebbe personale, e qui le opinioni divergono molto: secondo alcuni al 14mo giorno, secondo altri dalla ventesima settimana ( nascita cerebrale ), altri dalla nascita, per altri ancora ( come G. Sartori ) addirittura soltanto quando si è autocoscienti e capaci di ragionamento ( soluzione nominalistica e dalle conseguenze devastanti ).
Si perviene dunque ad un'ampia varietà di risposte, a seconda delle esigenze del momento o in base a posizioni ideologiche.
Non di rado si sostiene che vita e persona non sono sinonimi, una vera banalità che è stata ripetuta molte volte: lo sanno tutti che vita e persona sono cose diverse, ma non è questo il punto, poiché la domanda verte non solo sulla vita indistintamente, ma su quella umana.
Nella bio-ontologica come sin qui elaborata non si da differenza fra individuo umano e persona umana, che risultano concetti equiestensionali.
Viceversa il loro diffalco è teorizzato nell'approccio che abbiamo chiamato funzionalistico e stipulativo.
In base alla corrente che determina la persona sulla scorta della coscienza/autocoscienza, è possibile che esistano individui umani non ancora/non più persone.
Tale è la posizione di Engeihardt che, negando l'equivalenza dei termini « essere umano » e « persona », conclude: « Non tutti gli esseri umani sono persone … I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane.
Tali entità sono membri della specie umana ».7
Tuttavia la definizione di persona come un ente dotato di coscienza o di autocoscienza o di stati psichici non stringe adeguatamente il problema, perché non costituisce una definizione pienamente reale della persona; ne coglie solo un aspetto o un attributo che non è in senso proprio essenziale, cioè relativo ai caratteri essenziali.
Se nella definizione di una cosa si seleziona una sua proprietà, si determina una classe di « oggetti », cui naturalmente appartengono tutti coloro che la possiedono.
Con questo siamo però lontani dall'avere risolto il problema di una definizione reale, che è quanto soprattutto importa, perché la proprietà prescelta potrebbe non essere « essenziale » in senso proprio.
Se si procede così nella determinazione del concetto di persona, ne consegue che verranno arbitrariamente eliminati dalla « classe delle persone » individui che lo sono, ma che mancano del carattere abusivamente assunto come essenziale ( in ipotesi: la coscienza, la memoria, ecc. ).
Per chiarire meglio questo aspetto, è consigliabile condensare i principali asserti che lo riguardano:
- se definiamo caratteri essenziali quelli che concernono la determinazione di essenza di un qualsiasi ente, essi non posseggono un più o un meno, ma ci sono o non ci sono, a differenza dei caratteri accidentali che sono soggetti a cambiamento ( crescita, diminuzione, alterazione, ecc. ).
Nel caso della persona, ciò che la rende tale è l'essere un individuo di natura razionale ( la qual cosa o c'è o non c'è ), non il maggior o minor grado di coscienza;
- i caratteri e le funzioni che possono crescere, diminuire, mancare, sono per ciò stesso non essenziali.
In particolare la privazione di una qualità ( ad es. la vista, la parola, la coscienza ) ammette gradi, mentre ciò non accade con le proprietà essenziali.
Di conseguenza per il fatto che la coscienza o gli stati psichici possono avere gradi, essi non costituiscono una determinazione essenziale dell'esser-persona.
Si può anzi arrivare sino alla privazione completa di una certa qualità non essenziale, senza che muti la natura ontologica di un oggetto: una persona umana non è meno persona se è cieca.
- mentre i caratteri essenziali sono presenti sin dall'istante in cui si forma la sostanza in oggetto, e si perdono solo con la sua dissoluzione, quelli non essenziali possono essere posseduti prima potenzialmente, poi svilupparsi e infine declinare.
Le precedenti considerazioni, nonché quelle che potrei aggiungere sul dislivello tra registro dell'essere e quello dell'agire/funzioni, rendono plausibile sostenere che l'individuo umano è per sé persona, nonostante la possibilità di essere talvolta privo della coscienza ( o della capacità di relazione, ecc. ).
Affermare ciò implica la equiestensionalità dei due concetti di « individuo umano » e di « persona umana ».
L'equivalenza dei concetti di « individuo umano » e di « persona umana » conduce ad attribuire all'embrione lo statuto di persona.
Tale conclusione, che gode del grado di certezza che è proprio del sapere filosofico, sembra la più plausibile.
In virtù dei più sicuri elementi offerti dalla scienza biologica è certa l'individualità sostanziale dell'embrione umano, manifestata dalla sua attività immanente, autonoma, autoprogrammata, finalizzata.
Appena concepito, lo zigote comincia a comportarsi come un essere vivo, indipendente ( nel senso che è autoprogrammato, non nel senso che sia in grado di autoalimentarsi ), in possesso di un patrimonio genetico assolutamente individualizzato e appartenente in modo esclusivo alla specie umana, e che procede a svilupparsi in modo omogeneo e continuo.
Secondo il rapporto Warnock, « una volta che il processo è incominciato non c'è una particolare parte dello sviluppo che sia più importante di un'altra: tutte sono parte di un processo continuo ».
Dalle informazioni della biologia si trae la certezza che sin dall'istante del concepimento c'è vita umana per la sua origine, la sua struttura genetica, per l'organizzazione cellulare, per il senso teleologico dell'ontogenesi.
Ogni individuo che possieda la natura umana è di per sé persona.
Un indizio forte dell'esistenza della natura umana nell'embrione umano è il suo codice genetico che è proprio della specie umana, sebbene non vi sia equivalenza tra codice genetico e natura umana.
L'uomo non può nascere prima della persona, né la persona morire prima dell'uomo.
Né si entra nella comunità delle persone per cooptazione, essendo chiamati, nominati o accolti da coloro che già lo sono; né si dà alcun passaggio graduale da « qualcosa » a « qualcuno ».
Queste deduzioni rigettano la tesi rapidamente diffusasi in varie scuole a sfondo analitico ed empiristico, secondo cui non tutti gli esseri umani sono persone; pertanto l'idea stessa dei diritti dell'uomo dovrebbe venire riformulata in quella dei diritti delle persone: gli esseri umani non avrebbero diritti in quanto uomini, ma solo in quanto persone.
Una conseguenza rischiosissima è che il concetto di persona sia volta a volta ridefinito in base a certe caratteristiche accolte da alcuni e rifiutate da altri, di modo che l'idea stessa di diritti della persona diventi variabile, arbitraria, evanescente.8
Ed è l'insieme di tali aspetti che invita a esaminare attentamente le incoerenze e gli svantaggi del funzionalismo.
In correnti radicali della bioetica contemporanea a sfondo riduzionistico viene rifiutato il concetto stesso di persona, e tutto è ricondotto a forme compiute di utilitarismo etico e di « sensismo »: hanno diritti solo gli esseri senzienti capaci di provare piacere o dolore.
Di conseguenza, saranno titolari di diritti gli animali adulti, perché capaci di godere e di soffrire, ma non gli embrioni umani privi del sistema nervoso.
Dal punto di vista ontologico questo sensismo estremo, che appiattisce ogni rango dell'essere riducendo tutto a materia animata capace di provare sensazioni, si potrebbe definire un « animalismo trascendentale ».9
Diverso è il caso del funzionalismo che cerca di definire la persona a partire da sue operazioni ritenute particolarmente qualificanti.
Questa posizione si potrebbe anche denominare empiristica in senso lato, perché ritiene empiricamente accertabile l'esser-persona e il divenir persona, attraverso la verifica della presenza di certi caratteri, che sono stati assunti come rilevanti per definire la persona stessa.
È noto che vari autori definiscono la persona attraverso i caratteri dell'autocoscienza, dell'autonomia, della razionalità, del possesso del senso morale.
Altri, come Derek Parfit, in base al possesso di stati mentali/psicologici coscienti.
Questa determinazione della persona è più larga della precedente, per cui coloro che sono persone in base al primo paradigma lo sono anche secondo Parfit, mentre è falso il viceversa.
Nelle due posizioni si verifica rispettivamente una « sovradeterminazione » e una « sottodeterminazione » dell'idea di persona: in genere l'approccio kantiano-trascendentale, a cui quello di Engeihardt si collega, inclina verso il primo corno, perché include nel concetto di persona sue funzioni alte, mettendo tra parentesi il lato biologico-materiale, mentre l'approccio psicologico-empirico inclina verso una sottodeterminazione della persona.
In tutti questi casi il principio « ecumenico » del rispetto della persona è da intendere come rispetto di sue singole proprietà o funzioni, non del suo nucleo ontologico radicale.
Con l'assunto secondo cui la condizione necessaria e sufficiente per essere persona è il possedere stati mentali coscienti, si viene tra l'altro a impoverire la vita psichica, perché il riferimento al livello della coscienza psicologica lascia da parte sia la vita dell'inconscio istintuale, sia quella del sopraconscio o preconscio dello spirito.
La definizione psicologica di persona sembra assumere senza prove l'identità di mente ( o spirito ) e di attività psichica conscia, non di rado riducendo lo stesso livello psichico a quello cerebrale-neuronale.
Si è perciò di fronte a una forma di riduzionismo, se intendiamo con questo termine l'intento sistematico di riportare il più alto al più basso, e nella fattispecie lo spirituale allo psicologico, e questo al cerebrale.
Rimane come problema aperto quello dell'identità personale, affidata alla precaria e fluttuante continuità stabilita dalla memoria.
La teoria della persona definita in base ai suoi stati psichici nega più o meno implicitamente la possibilità di una differenza intrinseca tra la specie umana e le altre specie, perché i flussi che accadono nella psiche possono essere ridotti a quanto è comune a specie non-umane e possono coprire molti livelli, da un minimo a un massimo, senza che con questo siano stabilite essenze ontologicamente diverse.
A tale concezione, che trasforma differenze essenziali in differenze di quantità secondo un canone tipico dell'empirismo, si lega il suggerimento di estendere il gradualismo anche ai diritti dell'uomo, ad esempio al diritto alla vita.
In tal caso verrebbe formulato un diritto alla vita che parte da zero e progredisce in relazione al processo ontogenetico del feto, raggiunge un massimo nella vita post-natale sino alla piena maturità e incipiente vecchiaia, e poi inizia a declinare in relazione all'invecchiamento e all'alterazione psicologica dell'anziano.
La concezione gradualistica della persona e del suo diritto alla vita è stata sostenuta da Parfit: « L'ovulo fecondato non è un essere umano e una persona fin dall'inizio ma lo diventa lentamente … ( si osservi che viene negata all'ovulo fecondato anche l'appartenenza alla specie umana, non solo la personalità, n.d.r. ), la distruzione di questo organismo all'inizio non è moralmente sbagliata, ma a poco a poco lo diventa.
Mentre all'inizio non è per nulla moralmente sbagliata, in seguito diventa una mancanza non grave che sarebbe giustificata solo se, tenuto conto di tutto, la futura nascita del bambino fosse un'eventualità seriamente peggiore o per i suoi genitori o per gli altri ( manca ogni cenno agli interessi del feto, n.d.r. ).
Quando l'organismo diventa un essere umano a pieno titolo, ossia una persona, la mancanza non grave si trasforma in un atto moralmente molto sbagliato ».10
Chiaro e sgradevole è l'assunto fondamentalmente materialistico che individualità, personalità e dignità dipendano dal numero di cellule di cui siamo composti, ossia: poche cellule = poca o punta dignità.
Nel caso della bio-ontologica qui seguito l'essere persona non dipende dal grado di presenza e di realizzazione empirica di certe qualità e funzioni, ma da una posizione d'essere, cioè dalla natura ontologica ( essenza ) di determinati individui, costante in loro.
Ne consegue che dalla identica posizione d'essere (essenza) scaturisce l'ugual valore di ogni persona, in modo indipendente dal possesso attuale di certe proprietà e/o funzioni.
Nell'approccio funzionalistico le differenze di essenza sono ricondotte ( già è stato notato ) a differenze di grado, disposte secondo un continuum, per cui non sarebbe più possibile fissare univocamente in base a considerazioni di essenza che cosa sia persona e chi lo sia.
A ciò consegue che la risposta a tali due domande dipenda fondamentalmente da una stipulazione contrattuale per sua natura soggetta a variazione.
In questa posizione si fa avanti un equivoco filosofico notevole, consistente nella dissoluzione della sostanza ( e della sua realtà ) e nella concomitante sua risoluzione nel concetto di funzione.
Kelsen ha espresso in modo incisivo questa capitale trasformazione: « La dottrina pura del diritto ha riconosciuto il concetto di persona come un concetto di sostanza, come la ipostatizzazione di postulati etico-politici ( ad es. libertà, proprietà ) e lo ha perciò dissolto.
Come nello spirito della filosofia kantiana, tutta la sostanza viene ridotta a funzione.
Ciò è stato dimostrato da Cassirer, uno dei migliori kantiani, quando era ancora kantiano, nel suo bei libro ».11
Nel noto dibattito di Davos del 1929 tra Heidegger e Cassirer, quest'ultimo affermava: « L'essere della nuova metafisica non è più l'essere di una sostanza, ma l'essere che viene da una molteplicità di significati e di determinazioni funzionali ».12
L'equivoco cui alludiamo consiste fondamentalmente nell'identificare ordine dell'essere e ordine dell'agire, con una piena risoluzione del primo nel secondo; di modo che la sostanza non è più in radice denotata dal suo atto d'essere ma da una processualità funzional-attualistica, in cui a seconda dei casi e delle scuole si pone l'accento su singole funzioni del campo dell'agire, ad es. quelle idealistiche dell'autocoscienza e della relazione, quelle prassistico-sociali, quelle produttivistico-tecniche, ecc.
Abolito il dislivello tra sostanza/esistenza e le sue funzioni/operazioni, il soggetto individuale è interpretato come attuosità funzionale che si esprime in una somma di atti, non come atto primo di essere d'una sostanza, che costituisca il « luogo » di consistenza e di inesione di tutti gli altri atti, che saranno dunque atti secondi operativi, e che li renda possibili e li « sostenga ».
La filosofia dell'essere avverte che sì l'ordine dell'agire dipende da quello dell'essere ( operatio sequitur esse ) - di modo che l'analisi del primo è utile e necessaria per conoscere qualcosa del secondo - ma che i due ordini rimangono distinti nell'ente finito.
Questo non si identifica mai con le sue operazioni, mentre ciò accade solo nell'Atto puro, che è identicamente il suo essere e il suo agire, il suo conoscere e il suo amare.
Con l'anteriorità e la distinzione dell'atto primo della sostanza rispetto alle sue operazioni si guadagna un assioma notevole, ossia l'antecedenza e il maggior valore della persona nei confronti delle sue operazioni; in ciò si fonda anche l'identità del soggetto, che altrimenti rischierebbe di esser dissolta nella molteplicità anche contraddittoria degli atti temporalmente succedentisi.
Non sembra pertanto risolutivo e corretto il metodo di inferire il carattere personale di un individuo in base a certe sue operazioni.
In virtù del dislivello non colmabile tra i registri dell'essere e dell'agire, dovrebbe rimanere aperta la possibilità che la persona sia presente anche in mancanza di sue operazioni.13
Non c'è perciò contraddizione nel sostenere che un individuo può essere allo stesso tempo persona in atto e personalità in potenza.
Mentre il divenire persona come possesso del proprio statuto ontologico radicale non è un processo, ma un evento o atto istantaneo, per cui si è stabiliti nell'esser-persona una volta per tutte -, la personalità è qualcosa che si acquista processualmente, attraverso l'effettuazione di atti personali ( secondi ).
Ne consegue che dalla identica posizione d'essere ( essenza ) scaturisce l'ugual valore di ogni persona, in modo indipendente dal possesso attuale di certe proprietà e/o funzioni.14
In linea generale l'approccio funzionalistico si manifesta impari nel cogliere la densità preoperazionale e l'ulteriorità della persona, in certo modo risolta-dissolta nelle sue operazioni, nonché nel raggiungere la cosa stessa, ossia il cuore della realtà.
Questa è un'immensa repubblica di soggetti individuali, ciascuno dei quali esercita in proprio, nei gradi e nelle forme più diverse e con una ricchezza al di là di ogni immaginazione, il proprio atto d'essere ( actus essendi ).
Dovunque l'essere e la vita sovrabbondano, crescono, declinano, si mescolano.
Di fronte a ciò sarebbe degno del pensiero lo stupore, la contemplazione, il risveglio al senso dell'essere nel superamento del sonno di fronte ad esso, in cui perlopiù versiamo.
Difficilmente si può essere tanto disattenti da non cogliere la profonda rivoluzione introdotta dalle tecniche di « fecondazione assistita o extra-corporea » umana ( torneremo su quale sia il miglior modo per denominarle ), iniziate nel 1978 e da allora entrate nella vita di tutti, compresi quelli - e sono la maggior parte - che probabilmente non vi faranno mai ricorso.
Le nuove tecniche cambiano il nostro modo di guardare alla procreazione, alla nascita, alla vita, alla famiglia, accendono i desideri, creano nell'immaginario collettivo una nuova percezione della paternità, maternità, figliolanza, sviluppano attese e paure inedite, danno all'uomo un sentimento di onnipotenza.
Se non è qui idoneo il termine di rivoluzione, difficilmente sapremmo dove potrebbe applicarsi.
Il fatto è che la tecnica si pone come mediatrice di un desiderio umano fondamentale: quello di avere un figlio.
È un desiderio sano e solido, non però un diritto che esibisca se stesso per farsi valere a ogni costo.
Il desiderio lasciato a se stesso può raggiungere di fatto due esiti opposti, di cui da testimonianza la cronaca quotidiana.
Essa parla due lingue completamente estranee, entrambe però lingue del desiderio assolutizzato: nessun figlio a nessun costo ( aborto ), e un figlio a ogni costo ( Fivet ).
Sostenuta dalla tecnica, la logica del desiderio, se non è regolata da altri fattori, produce esiti contraddittori.
Naturalmente è facile l'obiezione che, se l'attuale situazione delle tecniche e della loro efficacia è assai meno rosea di quanto si tende a far credere, si può congetturare con buone probabilità di azzeccarci che i progressi delle tecniche potranno rendere sempre più efficaci e con minimi sprechi la « fecondazione assistita ».
Allo stato attuale comunque ignoriamo se e quando sarà possibile arrivare a un solo ciclo di « cura » e a un solo embrione prodotto e impiantato per ottenere un figlio in braccio.
Ma il porsi in una situazione ideale in cui si da per acquisito che la tecnologia della Fivet ( acronimo di « fecondazione in vitro ed embryo transfer » ) abbia raggiunto un alto grado di efficacia e di compiutezza ha il vantaggio, se così si può dire, di far emergere con maggior forza i problemi insiti nella « fecondazione assistita », a cominciare da quello del linguaggio.
La sua costante e spesso intenzionale manipolazione, suggerita dallo scientismo, rinforzata dall'emergere di un'etica utilitaristica e ampiamente propagandata dai mezzi di comunicazione, costituisce la premessa di valutazioni e decisioni erronee.
Opporsi alla manipolazione del linguaggio e ripristinare il suo corretto impiego concettuale costituisce un passo indispensabile per recuperare libertà per l'opinione pubblica e freschezza di giudizio non pilotato.
Evitare le mistificazioni che provengono dall'impiego artefatto del linguaggio è in realtà una grande battaglia di civiltà.
In questo spirito riterrei necessario eliminare i termini in vario modo ingannevoli di « fecondazione assistita » e di « procreazione assistita », che viceversa sono tuttora assai impiegati nel trasmettere all'opinione pubblica un modo non corretto di percepire il problema.
Nella sua fredda oggettività il termine Fivet descrive meglio il processo e poco si presta a manipolazioni: esso dice appunto che il procedimento crea artificialmente o in provetta un embrione umano, che successivamente viene trasferito meccanicamente nel grembo della futura madre.
Ancor meno ingannevole è il termine acronimo inglese « ART » ( Artificial Reproduction Technique ) perché dichiara che siamo di fronte a una tecnica di riproduzione artificiale.
Sufficientemente parlante è pure il termine « tecniche di fecondazione/generazione extracorporea ».
Riterrei invece decisamente da evitare la dizione, peraltro molto usata, di « procreazione assistita » : non siamo infatti di fronte alla procreazione per unione fra due persone di sesso diverso e conseguente gestazione nel grembo materno, ma a qualcosa di qualitativamente differente, nonostante l'identico sbocco dei due processi che sfociano nella nascita del bambino.
La differenza qualitativa sorge dalla considerazione di che cosa significhi « assistere »: là dove vi è realmente assistenza, il soggetto assistito opera come soggetto primo, autonomo e iniziante di un processo vitale, che non gli viene sottratto nelle sue naturali modalità, mentre l'assistenza si limita a coadiuvare.
Nella cosiddetta fecondazione assistita invece i « tecnoioghi della provetta » si sostituiscono ai due soggetti, i futuri padre e madre.
Là dove vi è sostituzione, non può più parlarsi di assistenza, in quanto la Fivet è attuata al di fuori del corpo dei coniugi mediante gesti di terze persone la cui competenza e attività tecnica determinano il successo dell'intervento.
Essa affida la vita e l'identità dell'embrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana.
Se dunque nel termine « fecondazione assistita » è l'aggettivo a fare problema, in quello di procreazione assistita lo fanno tanto il sostantivo quanto l'aggettivo.
Si aggiunga che nella massima parte dei casi la generazione artificiale extracorporea non è attualmente una terapia in senso proprio, poiché se è vero che riesce generalmente a mettere a disposizione l'effetto desiderato ( il figlio ), non interviene sulle cause, ossia non cura i soggetti sterili che rimangono tali e non vengono liberati dalla loro patologia.
E che dire di coloro che mettono a disposizione il loro seme a fini di fecondazione eterologa, e che si disinteressano totalmente dei loro figli, perché tali sono gli embrioni prodotti, compresi quelli congelati?
Il confuso e manipolato lessico finora invalso li chiama « donatori ».
Ma essi non donano un bel niente.
Mettono a disposizione qualcosa che in natura è in genere sovrabbondante, ossia il seme/sperma umano; ma lo rendono disponibile in maniera dissociata, separando il momento della fecondazione da quello in sé fondamentale dell'incontro dell'uomo e della donna in un atto che non è solo biologico ma coinvolge tutto il dinamismo personale e interpersonale della procreazione umana.
Di per sé il dono è un atto personale, libero, intenzionale, rivolto a qualcuno che ci sta dinanzi e di cui vediamo il volto.
Il supposto « donatore » di seme è altra cosa: egli fornisce sperma come un oggetto a qualcuno che è per lui sconosciuto, una x.
Probabilmente il termine donatore è un'estrapolazione impropria di fenomeni chimici all'ambito della generazione.
In chimica si chiama donatore un elemento capace di cedere a un altro qualcosa come un atomo o un raggruppamento atomico: ad esempio è donatore di idrogeno un composto capace di cedere idrogeno ad altro composto che funziona da « accettore ».
Si intende immediatamente quale equivoco vi sia nell'estendere alla generazione umana extracorporea il linguaggio della chimica: significa appunto disumanizzarla e riportarla pienamente nell'area della oggettivazione scientifica e della produzione tecnica.
Non pare dunque scenario inventato la previsione che i successi della scienza e la fiducia in essa che facilmente producono, uniti alla mentalità eugenetica che va prendendo piede, conducano a ritenere che la vera e sicura generazione sia quella interamente artificiale, non più il naturale concepimento seguito da gravidanza.
Si perverrebbe allora alla realizzazione del sogno faustiano della produzione artificiale dell'uomo, descritto oltre due secoli fa da Goethe nel Faust.15
Se Darwin credeva che l'uomo fosse stato « creato dagli animali » nel senso che provenisse da essi, oggi ci incamminiamo a credere che l'uomo futuro sarà prodotto dai tecnologhi.
Faust e Wagner hanno prevalso su Darwin.
Con la nuova posizione l'intero ambito di quel che era appropriato chiamare « procreazione umana » cambia nettamente e, uscendo dall'area del procreare, entra in quella del fare, del produrre tecnico.
Contestualmente nasce una nuova industria: l'industria altamente tecnologica della fecondazione extracorporea che, come ogni industria, è soggetta a fattori ben noti: il profitto, la legge della domanda-offerta, la pubblicità, la concorrenza, il mercato, la sollecitazione al consumo, ecc., dove l'affare ( il business ) è appunto produrre bambini e costruire artificialmente famiglie.
Con il cambiamento detto si opera una transizione per cui « essere qualcuno » si muta in « essere qualcosa ».
A nessuno sfugge la problematica concezione sottostante e i seri rischi che le sono connessi, dipendenti in ultima istanza dalla fuoriuscita del delicato evento della procreazione umana dall'ambito del rapporto naturale fra uomo e donna per entrare in quello della produzione tecnica.
Uno degli aspetti più inquietanti della Fivet non è solo l'inclinazione quasi irresistibile alla eugenetica che essa comporta; consiste nel fatto che si finisce per negare all'embrione ogni diritto.
Esso diventa res nullius, cui si infligge la « pena » violenta del congelamento.
Ma l'indisponibilità dell'embrione umano richiede che nessuna violenza sia esercitata nei suoi confronti, fra cui appunto quella inapparente ma non per questo meno insidiosa e profonda, di congelarlo.
Con questo metodo il soggetto adulto si arroga un potere arbitrario e mostruoso: quello di bloccare la crescita naturale dell'embrione, impedendogli di svilupparsi e di diventare feto e poi neonato.
Sulla base di quale « diritto », se non quello di considerare l'embrione umano o il concepito un « signor nessuno »?
Molti di coloro che sostengono la liceità di manipolare e sopprimere l'embrione, affermano infatti che non si fa del male a « nessuno ».
L'embrione umano, appunto, come nessuno.
Il suo congelamento rappresenta una forma di negazione dell'alterità dell'altro.
L'embrione congelato come nuovo schiavo moderno, reso tale dai nostri desideri e dalla nostra volontà di potenza.
Riducendo l'embrione a nessuno, questi viene escluso dal criterio centrale e fondativo di ogni civile convivenza, raffigurabile nel principio del neminem laedere.
Ma ciò non può che comportare conseguenze catastrofiche, poiché nelle società umane si può forse fare a meno per qualche tempo di un criterio di giustizia distributiva, non invece in alcun modo della garanzia del neminem laedere che non trae la sua validità dal consenso, e tolta la quale non vi si da più alcuna forma di società civile.
Una biopolitica degna di questo nome, chiamata a non derogare al rispetto rigoroso del criterio del neminem laedere, non può che garantire adeguata protezione all'embrione come essere umano appartenente alla specie umana.
Il valore e la portata del « principio-persona » come qualcosa di originale e primitivo, la cui chiarificazione è di pertinenza della metafisica, devono passare dal momento ontologico a quello giuridico-politico per ricevervi riconoscimento e sostegno, alla luce di un intendimento adeguato dell'uguaglianza umana.
Si tratta di un cammino mai finito, di cui anzi ad ogni svolta si scoprono nuovi aspetti.
Nella Dichiarazione di Indipendenza americana ( 4 luglio 1776 ) leggiamo: « tutti gli uomini sono creati uguali ».
Proposizione valida, ma allora falsificata dal fatto che africani, schiavi, donne, le parti deboli della società del tempo, ne erano esclusi.
Due secoli dopo la validità ideale è diventata reale e i diritti di quelle categorie riconosciuti.
Il sentiero dei diritti va nel senso di riconoscerli a tutti gli esseri umani, estendendo la loro fruizione a coloro che in un certo momento ne erano privi perché deboli, inapparenti o ritenuti inferiori.
Entro questo cammino si pone la legge 40 sulla « fecondazione assistita », varata dal Parlamento italiano nel febbraio del 2004, che riconosce parità di diritti fra il concepito e l'adulto.
Il sentiero della libertà e dell'uguaglianza passa attraverso un crescente godimento di diritti per tutti gli esseri umani. Il futuro della civiltà si misura in rapporto al reale rispetto dell'altro che è debole e inapparente.
L'abolizione della schiavitù è stato un grande passo in avanti; oggi ci attende quello di rispettare il concepito attribuendogli una sostanziale intangibilità e riconoscendogli la pienezza del diritto alla vita.
Civiltà giuridica è stare dalla parte del più debole, di colui che non può prendere la parola e autorappresentarsi, di colui che è nelle nostre mani, spesso rapaci, e da cui si attende rispetto e tutela.
Nei confronti di tale posizione si eleva un'obiezione frequente e che all'incirca suona: non possiamo con leggi dello Stato ridurre troppo lo spazio di ciò che è legalmente lecito, che si estende fra quanto è legalmente obbligatorio e quanto è vietato.
« Nello spazio di quanto è legalmente lecito debbono invece poter ricadere azioni che sono moralmente riprovevoli secondo una certa etica e moralmente ammissibili secondo un'altra, in base a principi pur sempre ragionali ( è questo il senso non banale del pluralismo e della tolleranza, che non si identificano con un rozzo relativismo etico ) ».16
Agazzi non nega che l'ordinamento giuridico debba rispettare alcuni principi etici fondamentali, e come tali assoluti e inderogabili, ma ritiene che il rispetto della vita umana sia derogabile in base a ragioni adeguate, ed assume che in una società pluralista la legge debba corrispondere « il più possibile all'effettivo stato della coscienza morale della società entro cui viene emanata ».
Una soluzione scivolosa che, nonostante il tentativo di evitare il relativismo a parole, compromette, quando sia fatta valere nei confronti della vita e del corrispondente diritto, la natura della vita sociale, e il compito della legge e dello Stato.
Su questioni di tanto rilievo il loro compito non è quello di trovare una media aritmetica fra le varie posizioni, ma di garantire i diritti fondamentali dell'uomo, fra cui quello alla vita.
Quando ci sono di mezzo i diritti dell'uomo, il compito essenziale dello Stato è di proteggerli, di garantire il meglio possibile il criterio cardinale del neminem laedere, violato il quale non sussiste più alcuna società civile.
Questo principio non può essere messo ai voti o soggetto a referendum, e neanche quello dell'uguaglianza umana.
Le scoperte della genetica e della biologia entrano profondamente nell'esistenza e ci costringono a rinnovare la nostra esperienza fondamentale.
Per lunghe epoche gli estremi dell'esistenza sono stati segnati dal nascere e dal morire.
Ormai questo non è più vero: gli estremi dell'esistenza sono il concepimento e la morte, e il campo di realtà che si dischiude dinanzi a noi si è molto ampliato.
Ancor più vero risulta il detto: nel principio la fine, ossia nell'origine sta scritto già molto dello sviluppo, del destino e del finire.
Guardando dal lato della cultura, non sono sicuro che siamo sufficientemente attrezzati per intendere il nuovo campo, per ascoltare il messaggio che da qui proviene.
Siamo fortemente influenzati dal modo di pensare tecnico e non da quello teoretico-contemplativo, cui in vario modo appartiene anche la scienza: il primo cerca di operare nella realtà e di produrre, l'altro di ascoltare e comprendere.
La domanda sull'embrione risulta cruciale per la comprensione di noi stessi e della specie umana, ed entra a far parte dell'ingiunzione socratica a conoscere se stessi ( gnothi sauton ): io infatti ero un embrione.
Chi sono io? Quando ho iniziato ad esistere?
La crucialità delle domande va posta a confronto con lo svilupparsi di forme di aggressività nei confronti del concepito, ritenuto disponibile e alla nostra mercé.
Dinanzi ad una simile posizione dovremmo arrestarci a riflettere, poiché l'embrione umano costituisce un caso serio in cui ne va della nostra condizione di uomini.17
In base alla dottrina ilemorfìca e alla filosofia dell'essere di ascendenza aristotelica e tomistica, dove vi è vita vi è anima, forma e automovimento che procede dall'interno.
Alludendo all'anima umana come forma del corpo umano non ci impegniamo sul discorso della sua mortalità o immortalità.
Neppure nella formula boeziana sulla persona vi è riferimento al tema dell'immortalità, che in prima battuta non è toccato.
Per Aristotele l'anima è forma e atto di un corpo organico avente vita in potenza: « l'anima è forma del corpo naturale che ha la vita in potenza » ( De anima, 412 a 21 ).
Il carattere essenziale dell'anima è di essere forma e di dare vita, di essere principio di vita e nel caso dell'uomo del sentire, dell'intendere e del volere.
« Dei corpi naturali altri hanno vita, altri no: per vita intendo il fatto di nutrirsi da sé, di aumentare, di deperire » ( De anima, 412a 13es ).
Il carattere essenziale e primario dell'anima è la vita, e di quella razionale la razionalità, non la coscienza come autocoscienza.
Secondo un'interpretazione di Aristotele abbastanza diffusa, l'anima superiore contiene in sé quelle inferiori ( l'intellettiva contiene la vegetativa e la sensitiva ); in tal senso nell'embrione umano può essere presente l'anima intellettiva, la quale però esercita dapprima le sue funzioni minori, quella vegetativa e sensitiva.
Per Tommaso l'anima è forma sostanziale del corpo, dotata nonostante la sua strettissima unione al corpo di alcune operazioni in cui non « comunica » interamente col corpo: « humana anima non est forma in materia corporali immersa, vel ab ea totaliter comprehensa, propter suam perfectionem.
Et ideo nihil prohibet aliquam eius virtutem non esse corporis actum; quamvis anima secundum suam essentiam sit corporis forma " ( S. Th., I, q. 76, a. 1, ad 4m ).
Di conseguenza l'intelletto non dipende intrinsecamente dal cervello, ma in modo cooperativo nel senso che il pensare della mente non può avvenire senza la cooperazione della sensazione.
L'anima come forma sostanziale possiede delle facoltà che non sono ad essa identiche.
Per l'Aquinate la mente non è la stessa cosa che l'anima: viene qui segnata una differenza radicale rispetto alla futura posizione cartesiana della mens sive anima.
L'anima ( razionale ) si unisce al corpo come forma e non solo come motore, e perciò essa è tutta in tutto ed in ogni singola parte ( cfr. S. Th., I, q. 76, a. 8 ).
Il criterio tomistico sull'anima si colloca all'opposto del principio cartesiano, secondo cui l'anima è fondamentalmente autonoma e separata dal corpo, cui ben poco contribuisce.
Nelle posizioni di Aristotele e di Tommaso l'anima è principio di vita, il che riconduce a considerare come assolutamente centrale l'analisi dell'idea di vita.
In rapporto a ciò non sottovaluterei la pista della neurobiologia della mente, tema che può alludere alla stretta unità « classica » fra anima e corpo e che potrebbe aprire la strada ad un concetto « vitalistìco » tanto dell'anima quanto del corpo, differente dall'idea di mente come computer e come processo calcolante, e aperto invece a impiegare al meglio l'idea di mente come vita.
Inizialmente il termine pre-embrione è stato usato da alcuni membri della European Science Foundation, che riuniti a Londra il 5/6 giugno 1985 hanno dato questa definizione: « Il termine embrione è stato tradizionalmente usato per lo stadio raggiunto nello sviluppo dove l'organogenesi ha incominciato a mostrare la stria primitiva e la certezza che da questo momento si sta sviluppando l'individuo singolo, piuttosto che, per esempio, due gemelli. Il nome pre-embrione descrive il gruppo di cellule ( cluster of cells ) precedenti la comparsa della stria primitiva.
Il pre-embrione è invisibile a occhio nudo ».
Come si nota il termine ha valore descrittivo di un periodo di sviluppo biologico, anche se parlare oggi di occhio nudo diviene un'espressione di poco senso, dal momento che ormai esistono le indagini elettroniche.
Un esempio emblematico della manipolazione semantica al fine di modificare la percezione della realtà da parte dei cittadini proviene dal Rapporto che la Commissione Warnock ha prodotto nel 1984 ( Great Britain, Wamock Committee, Report of inquiry info human fertilization and embriology, Her Majesty's Stationery Office, London 1984 ).
Questa Commissione istituita dal governo britannico per rispondere ai problemi sollevati dalla fecondazione extracorporea e in particolare dagli embrioni in vitro, ha suscitato un vivace dibattito con la tesi della frattura tra disponibilità/non disponibilità dell'essere umano individuato nello sviluppo dello zigote.
Nel rapporto si sostiene la liceità a disporre dell'embrione per sperimentazioni scientifiche entro i primi 14 giorni dalla fecondazione in vitro.
Quanto all'aspetto scientifico il testo afferma sorprendentemente: « Una volta avvenuta la fecondazione, i successivi processi di sviluppo si susseguono l'uno all'altro in ordine sistematico, conducendo attraverso la segmentazione mitotica dall'ovulo fecondato alla morula, la blastocisti, lo sviluppo del disco embrionale e poi verso le caratteristiche identificabili dentro il disco embrionale come la stria primitiva, la cresta neuronale e il canale neuronaie.
Una volta che il processo ha avuto inizio, non vi è un momento più importante di un altro; sono tutti momenti di un processo ininterrotto, e ogni ulteriore sviluppo cesserà a meno che ogni fase avvenga in modo normale, al momento giusto, e nella corretta sequenza ».
Ma allora perché la frattura del 14° giorno?
Il Rapporto riconosce di aver posto un limite « per alleviare la preoccupazione dell'opinione pubblica » e « dare agli scienziati il tempo necessario e pubblicamente accettabile per proseguire la ricerca sull'embrione ».
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1 | Appare un notevole equivoco sostenere che "anche gli spermatozoi e gli ovociti sono esseri umani" (M. Balistreri, Etica e clonazione umana, Guerini, Milano 2004, p. 70), poiché essi dal lato biologico non possiedono le caratteristiche tipiche della specie umana. Un equivoco pertinace se nella stessa pagina si legge: "Alcuni esseri umani non viventi meritano più rispetto di altri viventi: un cadavere ad esempio merita senza dubbio maggior rispetto di una cellula", senza rendersi conto che è assurdo definire il cadavere un essere umano non vivente. In genere nell'empirismo e positivismo si sostiene che la nozione di sostanza è da tempo superata, in base però a scarsa informazione, poiché parti considerevoli della filosofia contemporanea la rivalutano: su ciò cfr. E. Berti, "Sostanza e individuazione", in AA. VV., Seconda Navigazione, Annuario di Filosofia 1998, Mondadori, Milano, 1998, pp. 143-160. Da parte mia sono persuaso che l'oblio della sostanza sia un'espressione di quell'oblio dell'essere che affligge in vario modo parti della filosofia e della scienza di oggi. |
2 | L'ovocita femminile e lo spermatozoo maschile sono due progetti di vita, due cellule con un tempo di vita che va dalle 4 alle 24 ore per l'ovocita e fino ai 6 giorni per lo spermatozoo. Quando questi si fondono danno origine ad un sistema biologico nuovo, con sconvolgimenti fisico-termodinamici enormi, generando una nuova cellula in cui geneticamente non si legge più ne il nome del padre ne il nome della madre ma il nome del figlio. Questa cellula, detta zigote, se posta nell'ambiente adatto (l'utero materno) e se non le capita nessun accidente, da origine ad un essere umano adulto in circa 19 anni, con un processo graduale e continuo, senza nessun salto di qualità che possa far pensare ad un prima in cui non fosse persona e ad un dopo in cui lo diventi. |
3 | S. F. Gilbert, Developmental Biology, Sinauer, Sunderland, MS, 2002, cap.
7. Biologia dello sviluppo, Zanichelli, Bologna 1988. |
4 | Embrioni, non esiste l'ora X, "Corriere della sera", 26-1-05, p. 13. |
5 | "Identità e statuto dell'embrione umano", documento del CNB, 22 giugno 1996, p.9. |
6 | La bioetica e il problema dello statuto dell'embrione, in AA.VV., «Politela», n. 41/42, 1996, p. 30. Sembra invece che H. Jonas assuma un parziale orientamento 'attualistico' (nel senso che l'essere persona sia legato alle sue funzioni superiori), poiché sostiene che "il neonato non è ancora una persona, ma possiede già tutte le predisposizioni e l'impulso a divenire tale", Sull'orlo dell'abisso, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 2000, p. 75. |
7 | H.T. Engeihardt, Manuale di bioetica, p. 126 e s. |
8 | In merito vedi R. Spaemann, Persone. Sulla differenza tra 'qualcosa'e 'qualcuno', cit. Gli argomenti a favore dell'assunto che tutti gli uomini sono persone vengono svolti alle pp. 230-242. Nella linea del personalismo ontologico importanti sono i contributi di E. Sgreccia, tra cui Manuale di bioetica, 2 voli.. Vita e pensiero, Milano 2002. |
9 | Si vedano in proposito gli scritti di Peter Singer, fra cui: Etica pratica, Liguori, Napoli 1989, e La vita come si dovrebbe. II Saggiatore, Milano 2001. |
10 | D. Parfit, Ragioni e persone. II Saggiatore, Milano 1989, p. 410 e s. In un altro scritto ("Later selves and moral principles"), lo stesso autore sostiene: "Se gli embrioni non sono persone, e lo diventano solo gradualmente, al principio che proibisce l'omicidio può plausibilmente essere data una portata minore…". |
11 | Da una lettera di Hans Kelsen a Renato Treves (3 agosto 1933), ora in H. Kelsen, R. Treves, Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di Stanley L. Paulson, ESI, Napoli 1992, p. 216. |
12 | Il testo del dibattito di Davos è in appendice a: M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 234. |
13 | In vari articoli G. Sartori si è schierato per una determinazione
funzionalistica
dell'esser-persona, forse neanche sospettando che ve ne sia un'altra. Domandando
quale sia la differenza fra vita in generale e vita umana, risponde che
"l'uomo è caratterizzato da autocoscienza, dal sapere di sé. Questa risposta laica (o
filosofica) ha
molte varianti sulle quali non mi voglio dilungare". Poi aggiunge che la
risposta religiosa è diversa: "l'uomo è tale perché caratterizzato dalla presenza
dell'anima", risposta curiosa poiché l'anima non è un concetto solo religioso ma anch'esso
filosofico, e
perché sembra che per il nostro autore l'anima sia propria solo dell'uomo.
L'anima
come forma del corpo, di qualsiasi corpo, è idea lungamente elaborata da
Aristotele
(forse Sartori pensa all'anima immortale come a qualcosa di specificamente
religioso). Resta comunque che per lui la vita diventa propriamente umana, e dunque vi
è
persona umana reale, solo quando si "esce dall'utero della madre",
quando l'individuo umano "comincia ad esistere in indipendenza, da solo" ("Corriere della sera". Ma l'anima non ha certezze, 16 aprile 2005, p. 9). Aggiunge che "la tesi che l'embrione è già un essere umano… è razionalmente insostenibile" (dunque l'embrione non solo non è persona, ma non appartiene neppure alla specie umana). Della riflessione sostan- zialistica sulla persona Sartori tace come se non esistesse, eppure è una riflessione tanto filosofica come laica, e si rifugia in una definizione funzionalistico-stipulativa arbitraria e 'cartesiana' che determina la persona secondo la capacità di autoriflessio- ne e del rendersi conto. Dico arbitraria perché stando dal lato delle proprietà potrei tranquillamente definire la persona come presenza di flussi psichici, di senso del tempo, di rapporto con l'altro, ecc., aspetti che non coincidono con l'autocoscienza; e 'cartesiana' poiché ritiene la persona una res cogitans in cui tutto il lato corporeo e biologico è cassato come inesistente. In questo modo ritaglia ad hoc un dominio di soggetti cui attribuisce il nome e la qualità di persone, e magari un altro dominio dove stanno esseri umani non ancora per- sone. Da qui due gravi conseguenze: 1) il mutamento dell'ambito di validità del 'non uccidere' e dell'omicidio, che invece di significare 'non uccidere l'essere umano' o 'non uccidere l'uomo' diventa: 'non uccidere la persona'; 2) l'accettazione della con- traddizione, in quanto l'attribuzione dell'esser-persona all'appena nato ('si è persona quando si esce dall'utero della madre') entra in flagrante contraddizione rispetto alla determinazione da Sartori stesso introdotta ('è persona chi è autocosciente e sa di sé stesso'): ovviamente il neonato non è ne autocosciente ne sa di se stesso. Gli attribui- sco dunque l'esser-persona mentre glielo tolgo! |
14 | Con la differenza tra evento e processo, per cui il primo è un accadimento puntuale e istantaneo, mentre il secondo si distende nel tempo e nello spazio, si possono attribuire i vari aspetti della vita della persona all'uno o all'altro versante. Il concepimento, il divenir persona, la morte sono eventi di per sé puntuali e istantanei nonostante le difficoltà in cui si può incorrere nel loro accertamento empirico, mentre la crescita, lo sviluppo, il declino, l'acquisizione o la perdita di questa o quella qualità sono processi. Nei paragrafi 3 e 4 ho ripreso alcuni brani tratti da "L'embrione è persona? Sullo statuto ontologico dell'embrione umano", V. Possenti, Approssimazioni all'essere. Il Poligrafo, Padova 1995, pp. 110-129. |
15 | "Il procreare che fu già di moda, noi lo dichiariamo una vuota farsa. Il delicato punto dal quale balzava la vita, la dolce forza che si sprigionava dall'intimo essere e prendeva e dava, destinata a dar forma a se stessa e a far sue in un primo tempo sostanze più affini e, poi, sostanze estranee, è stata deposta dalla sua dignità. Se le bestie continuano a provarvi, l'uomo, con le sue grandi qualità, dovrà in futuro avere una più alta, una assai più alta origine" ( Wagner, Atto secondo. Laboratorio ). |
16 | E. Agazzi, "11 Sole 24 Ore" Principi controversi, dunque si voti, 6 febbraio 2005, p. 36. |
17 | Anche se risultasse arduo pervenire ad una comune bio-ontologica sull'embrione umano, appare abbastanza condiviso il dovere morale di rispettarlo. Esso emerge dalle conclusioni del già citato documento del 1996 in cui si afferma che il Comitato Nazionale per la Bioetica "è pervenuto unanimemente a riconoscere il dovere morale di trattare l'embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persona, e ciò a prescindere dal fatto che all'embrione venga attribuita sin dall'inizio con certezza la caratteristica di persona nel suo senso tecnicamente filosofico, oppure che tale caratteristica sia ritenuta attribuibile soltanto con un elevato grado di plausibilità, oppure che si preferisca non utilizzare il concetto tecnico di persona e riferirsi soltanto a quell'appartenenza alla specie umana che non può essere contestata all'embrione sin dai primi istanti e non subisce alterazioni durante il suo successivo sviluppo" ( p. 25 e s. ). |