Il principio Persona |
Nell'affrontare i problemi bioetici ci portiamo dietro non solo tutta la nostra etica, come comunemente si afferma, ma tutta la nostra filosofia e la visione del mondo cui aderiamo.
Spesso anzi le differenze morali tra diverse visioni risultano minori delle differenze ontologiche e antropologiche, per cui le questioni convenzionalmente determinate come bioetiche, si presentano non di rado come questioni antropologiche e ontologiche più che morali.
Molti hanno osservato che le contrapposizioni sono più difficili da superare nel momento dei principi che in quello delle soluzioni di singoli casi concreti.
Se il concepito o lo zigote umano sia persona o meno non è in alcun modo un tema morale - il quale interverrà successivamente in ordine al grado di rispetto che occorre riconoscere all'embrione - ma uno schietto tema ontologico.
Nella cultura attuale - in genere segnata dalla nuova koinè naturalistica e scientistica che sta sostituendo quella ermeneutica, rimasta in auge alquanto a lungo - non è raro incontrare una quasi irriflessa consonanza con le posizioni empiristiche, come se tale filosofia fosse il pensiero spontaneo dell'epoca.
Le obiezioni più diffuse nei confronti dell'ontologia sostanzialistica sulla persona provengono dall'empirismo filosofico radicale, spesso alleato col positivismo e l'utilitarismo, e da settori della scienza-tecnica, oggi in specie dalla genetica e dalla biologia.
In realtà o lezione dell'empirismo si rivolge all'intera filosofia, cui tende a negare il carattere di disciplina intellettuale e conoscitiva dotata di autonomo esso alla realtà.
Secondo l'empirismo i problemi considerati filosofici sono solo quelli morali ossia prescrittivi.
Conseguentemente esso opera una riduzione della filosofia alla morale, assegnando l'intero ambito della conoscenza teoretica ( spesso designata col riduttivo termine di « conoscenza descrittiva » ) alle scienze empiriche, frettolosamente considerate la sola forma di spiegazione della realtà.1
Naturalmente del riduzionismo empiristico fa le spese in maniera pesante la dottrina della sostanza.
Il motivo fondamentale per cui l'empirismo non possiede i titoli per intenderla è che esso risulta impermeabile e a vero dire cieco dinanzi al concetto di essere: si può illustrare ad un empirista radicale la scienza dell'essere?
Sarebbe come insegnare ad un cieco nato quella del colore.
Conseguentemente l'empirismo è impermeabile alla nozione di sostanza che costituisce, come già rilevato, la prima e fondamentale concrezione del concetto di essere: infatti solo le sostanze individuali esistono e la loro esistenza si esprime in funzione dell'idea di essere.
Lasciando da parte l'elaborazione del concetto di essere o riducendolo a un quadro nominale che include alla bell'e meglio le infinite percezioni sensoriali che si susseguono entro il divenire, l'empirismo non è in grado di elaborare il concetto di persona ( se non forse sul piano emotivo dell'eventuale rispetto a essa dovuto ), né di pervenire ad un'accettabile teoria dell'identità personale, le cui difficoltà sono già presenti in Locke e Hume.
L'emergere dell'empirismo e delle culture collegate, fra cui il biologismo e l'evoluzionismo, segnala che i rapporti fra natura e storia, tra naturalismo e storicismo, sono mutati.
Mentre per un periodo più che secolare la storia ha rivendicato con Marx e il liberalismo, e con Dilthey e l'ermeneutica, la sua primazia sul naturalismo settecentesco di ascendenza illuministica, da qualche tempo si assiste ad un ritorno del naturalismo a base biologica, all'avvento del biologismo come nuova figura del materialismo.
Questo, negando reali discontinuità fra regno animale e vita umana, riprende e prosegue l'opera decostruttiva iniziata dagli illuministi, basata allora sulla fisica e la meccanica ed oggi sulla biologia e genetica.
Dopo il materialismo storico del marxismo, entro cui l'attacco antipersonalistico ha toccato un vertice d'inusitata violenza, è adesso l'epoca di un non meno virulento materialismo, quello naturalistico, anch'esso apertamente antipersonalistico.
Entro tale quadro si conferma l'alleanza tra utilitarismo e materialismo biologistico, che comporta la dissoluzione del principio-persona e la crisi delle etiche normative.
La naturalizzazione della mente/anima.
Nello scientismo radicale si ritiene che ogni mistero sia stato dissolto dalla « luce al neon » della scienza.
Richard Dawkins ( cfr. la prefazione al suo Orologiaio cieco ) sostiene che la nostra esistenza, un tempo il massimo di tutti i misteri, oggi non sia più tale perché l'enigma è stato sciolto.
Un noto esponente della biologia molecolare, Francis Crick, afferma: « Lo scopo ultimo dell'indirizzo biologico moderno è in realtà quello di spiegare tutta [ corsivo dell'autore ] la biologia in termini di fisica e di chimica », che è una chiara posizione di riduzionismo radicale.2
Niente vitalismo dunque, niente forze vitali, niente finalismo di alcun genere, ma riduzione della vita a fisica e a chimica.
Il riduzionismo, ossia il cercare di comprendere e di riportare i fenomeni di un certo livello in termini di concetti relativi a un livello inferiore, ritenuto più fondamentale, diventa il metodo esplicativo primario.
Ciò comporta il passaggio dal riduzionismo metodologico, necessario nelle scienze per ridurre la complessità, a quello contenutistico, di cui un caso è la riconduzione della mente umana a fatto puramente biologico.
In tal caso il riduzionismo non più metodologico ma contenutistico consiste nell'espungere completamente i termini mente, coscienza, percezione, pensiero e di impiegare solo i termini sinapsi, lobotomia, proteine, segnali elettrici, ecc.
In sostanza il nuovo naturalismo antropologico radicale ha vari volti, che convergono nel ritenere che ogni problema, filosofico o meno, relativo alla « mente » e all'uomo possa essere risolto entro il quadro delle scienze naturali: fisica, chimica, biologia, neuroscienze.
Il tentativo di pervenire alla naturalizzazione della mente/anima è parte di un processo indirizzato all'integrale naturalizzazione dell'uomo: l'uomo risolto nella vita della physis, nel suo divenire evolutivo e cieco.
Sembra crescente la persuasione che la concezione scientifica del mondo porterà necessariamente ad un paradigma antropologico apertamente naturalistico.
L'anima come spirito, come « spettro nella macchina », sarebbe solo il cattivo frutto nato da un dogma: la res cogitans cartesiana.
In realtà non vi sarebbe alcuno « spettro nella macchina » da cercare, nessun anima come entità a sé da studiare, perché la psiche e i fatti psichici si riconducono soltanto a fisica.
In questa linea viene a conclusione contraddittoria - grandiosa eterogenesi dei fini - l'aspirazione di Nietzsche a preparare l'avvento dell'oltreuomo ( Ubermensch ): quell'aspirazione non si è realizzata, a meno che non si intenda per avvento dell'oltreuomo le possibilità di potenziamento della sua corporeità offerte dalle recenti scoperte biologiche e genetiche.
Non dobbiamo sottovalutare il rischio che un esteso naturalismo antropologico conduca infine a un deciso nichilismo sull'uomo: l'uomo come « null'altro che », infine l'uomo come prodotto casuale dell'evoluzione quale ultima parola dell'evoluzionismo nichilistico.
Con l'avvento della tecnica si è confermato quanto l'homo faber possa essere nel bene e nel male una sfida mai terminata per l'homo sapiens.
Le biotecnologie pongono in discussione credenze e abitudini assai antiche, su cui si è basata la civiltà per millenni.
Esse mutano desideri, bisogni, modi di comportamento.
Provocano la separazione fra sessualità, genitorialità e procreazione.
Cambia l'immaginario, si amplia di molto la portata del desiderio.
Mentre per lunghissime epoche l'uomo è stato abituato a non desiderare troppo - se vuoi essere contento, sii modesto nei desideri, si diceva - da tempo la vita sociale è fondata sulla sollecitazione dei desideri, più recentemente sulla fissazione sull'immediato.
Va in crisi l'etica del sacrificio e ci si concentra nel presente per cercarvi tutto ciò che la vita può dare.
Lo scientismo tecnologico diventa un'ideologia popolare nel senso che è la lente attraverso cui guardiamo alla realtà e interpretiamo le nozioni di soggetto, mente, mondo, verità.
Veicolando un'idea di libertà intesa come potenza di trasformazione di ogni cosa, lo scientismo tecnologico ne riduce la portata perché vede la libertà solo come potere di operare cambiamenti esterni e non come interna autodeterminazione dello spirito per scopi ultimi.
Inoltre esso si fa portatore di un'etica secondo cui non solo è possibile fare tutto ciò che è tecnicamente fattibile, ma tale attività è doverosa.
Si può riassumere il problema mettendo a confronto tre asserti:
- non tutto ciò che è tecnicamente possibile/fattibile è moralmente lecito;
- tutto ciò che è tecnicamente possibile è ipso facto lecito e può essere fatto;
- è doveroso fare tutto ciò che è tecnicamente possibile.
Nella prima posizione si riconosce l'esistenza di un dislivello fra tecnica ed etica; nel secondo tale dislivello cessa; nel terzo l'ideologia della tecnica svela il suo carattere di volontà di potenza, ossia la fattibilità tecnica si muta in imperativo categorico a fare comunque e senza remore.
Il corpo-oggetto.
In vari casi l'approccio naturalistico include la possibilità per il soggetto di trasformare ad libitum il proprio corpo, considerato come un oggetto separato o una proprietà, come sostiene Engeihardt: « In quanto persone, possiamo fare dei nostri corpi degli oggetti.
Possiamo scoprire dei modi migliori in cui avremmo potuto essere plasmati ».3
Questa posizione in cui i corpi non nascono, ma si fanno e vengono prodotti, è legata ad un'antropologia dualistica che vede il corpo come mera proprietà di un soggetto.
Non viene valutata l'idea che i mutamenti del corpo inducano mutamenti nella psiche, poiché si ritiene acriticamente che l'uomo sia la giustapposizione di corpo e psiche, e che questi comunichino il meno possibile.
Gli interventi sul corpo sono interpretati da alcuni autori « liberali » come non limitati alla linea somatica degli individui di modo che non possano essere trasmessi alla discendenza, ma mira linea germinale con trasformazioni destinate a trasmettersi alle generazioni future.
Nello sfondo sta l'idea di produrre Superman e Wonderwoman.
Rimane l'inaggirabile interrogativo su che cosa ci autorizzi ad intervenire sull'altro, sul futuro suo e della specie umana, soprattutto in quanto domani nessuno di quelli oggi esistenti sarà presente per rispondere delle decisioni assunte.
Questo elemento tipico di un'etica dellaresponsabilità è stato ricordato da Jonas: « Azioni sugli altri, di cui non si debba rendere loro conto, sono ingiuste. Il dilemma morale di ogni manipolazione biologica sull'uomo che vada al di là del fatto puramente negativo di preservare da difetti ereditar! è proprio questo: che la possibile accusa del discendente contro colui che l'ha creato non trovi più nessuno che sia in grado di rispondere e pagare nessun mezzo di risarcimento ».4
Attraverso gli interventi sull'uomo si ritiene possibile e forse necessario dare un nuova forma alla natura umana, considerata come una realtà variabile cui la libertà e i desideri dell'uomo possono assegnare la versione preferita.
Spesso si ritiene che i concetti di natura e di naturale siano superati e ormai inservibili ai fini di qualche normatività etica.
La situazione merita un approfondimento, in specie in rapporto alla profonda equivocità del termine « natura », di cui spesso non si è minimamente consapevoli: sarebbe un tributo pagato alla malinconia raccogliere, anche da opere di grido, un dossier che mostri quante volte la nozione di natura/naturale è usata del tutto univocamente, ossia come se si riferisse esclusivamente alla natura fisica, alla natura che è il cosmo.
In realtà della nozione di natura, cruciale come poche altre per la comprensione della vita, dell'uomo, del cosmo, si danno almeno tre concetti:
1) la natura come physis e cosmo, come universo soggetto ad evoluzione e strutturato secondo una notevole varietà di leggi meccaniche, chimiche, elettriche, elettroniche, biologico-genetiche, ecc. di cui si occupano le scienze.
Tale prima idea di natura come cosmo comprende tanto l'area della vita come quella degli enti inanimati;
2) la natura come sinonimo di essenza: questi due concetti riguardano tutto ciò che è tipicamente proprio, o appunto essenziale, di una specie e la definisce.
Col riferimento alla natura come essenza viene introdotto un concetto centrale e insostiuibile della tradizione filosofica.
Quando diciamo che il sorgere del sole, i terremoti, le maree sono fenomeni naturali, impieghiamo naturale nel primo significato.
Quando parliamo di natura od essenza umana lo impieghiamo nel secondo significato e i due termini lessicalmente identici rappresentano concetti molto lontani;
3) la natura come vita, come principio interno di autocostruzione o autopoiesi che si esplica nella crescita e declino propri di un soggetto vivente: questo terzo concetto è legato al secondo, e come il precedente riguarda l'ambito dei viventi, umani e non-umani.
È ovvio che si partirà col piede sbagliato e ci si caccerà in un ginepraio inestricabile, se non si provvede preliminarmente ad operare un poco di pulizia concettuale, il che accade raramente poiché non ci si cura di distinguere almeno fra il significato 1) e il significato 2) di natura.
Il tema si complica ulteriormente quando in opposizione al naturale viene introdotto l'artificiale, spesso osservando che nella vita di oggi vi è un mix inestricabile di naturale e di artificiale.
Osservazione corretta se riferita al significato 1 ) di naturale, ma che però viene spesso giocata malamente sottintendendo che l'intervento artificiale possa cambiare la natura/essenza secondo il significato 2).
Quando si rivolge all'uomo, la cultura oggi prevalente tende a vedere nella natura come essenza ( dunque nel significato 2) o un costrutto culturale privo di ogni normatività, o una realtà inferiore, puramente biologica, un dato che trasformare e assoggettare tramite la tecnica.
Viene supposto uno iato fra esistenza individuale-biografica e dimensione corporeo-bio logica: la prima vissuta come evento totalmente soggettivo e sganciato dal momento corporeo, l'altra riportata a base biologica oggettivata e non personale.
Una delle maggiori direttrici della critica verso l'idea di natura come essenza prende le mosse dalla teoria dell'evoluzione intesa come nuova « filosofia prima » che, si dice, ci informerebbe che siamo soli e abbandonati a noi stessi nel cosmo.
La natura è soltanto l'insieme dei prodotti della storia evolutiva passata, che fa tranquillamente a meno d'ogni essenza, ridotta a meroflatus vocis.
Secondo H. T. Engeihardt « l'appello alla natura umana come guida per l'azione morale, benché tradizionale, ci viene tolto nel momento in cui riconosciamo che non siamo plasmati secondo un piano deliberato, ma dalle forze cieche della mutazione e della selezione naturale ».5
Conseguentemente la natura umana potrà essere riprogettata, e noi siamo liberi di riplasmarla ( cfr. p. 433 ).
Il termine « natura umana » rimane ancora qua e là poiché rappresenta un lessico tradizionale, ma non significa più nulla ( non compare neppure nell'indice analitico del libro di Engeihardt, a testimonianza che è un concetto del tutto residuale ).
La domanda se sia possibile mutare la natura umana, una questione veramente cruciale e inaggirabile, non viene posta tanto è considerata ovvia la risposta.
L'empirismo evoluzionistico si assolve facilmente cancellando i problemi.
Spesso l'elogio di una morale pluralista e relativa, praticato da numerosi autori, è figlio diretto di questi assunti nel senso che il concetto di natura è meramente fattuale e privo di ogni normatività.
Anzi la normatività dell'etica è basata sul consenso, né pare che vi siano azioni buone o cattive in sé, essendo la natura e perfino l'etica un mero prodotto dell'evoluzione.
In altre parole si ritiene che, avendo l'evoluzionismo cancellato ogni nozione di essenza/natura, la realtà si distende lungo un continuum, un flusso ininterrotto entro cui non sono possibili tagli netti, e su cui ci informa esaurientemente solo la teoria dell'evoluzione universale.
Se invece elaboriamo il concetto di natura attraverso il metodo ontologico - che può accogliere elementi della teoria dell'evoluzione, ma non la sua « filosofia prima » per cui all'origine vi è solo caso e divenire puro - vediamo che nell'uomo quel concetto è portatore di un finalismo, nel senso che si innesca in ogni essere umano la dialettica fra l'uomo come è e l'uomo come dovrebbe essere se raggiungesse la pienezza concreta della sua natura.
Se intesa adeguatamente nella sua universalità, l'idea di natura umana ( e di uomo come soggetto dotato di logos, ossia ragione e linguaggio ) è invariante tanto diacronicamente quanto sincronicamente: le essenze sono « eterne ».
Conseguentemente l'uomo non può cambiare la natura o l'essenza umana, intesa nel suo significato proprio e rigoroso.
Si può intervenire sul singolo uomo con molte trasformazioni accidentali, mai con una trasformazione sostanziale.
Le prime, pur non mutando la natura/essenza umana, rivestono notevole rilievo per i rapporti sociali, l'etica del genere, l'uguaglianza e i diritti, le libertà del singolo ( questi aspetti saranno svolti nel cap. V ).
Aggiungiamo che l'idea di una natura/essenza umana invariante non implica il fissismo, ma il mandato di edificare se stessi nel senso che l'uomo non è mai pienamente la sua essenza: l'individuo A è insieme « già se stesso » e « non ancora se stesso ».
Lungi dall'essere un criterio che blocca, l'idea di essenza umana come invariante fondamentale di paragone opera entro la persona singola e l'intera storia umana come un potente e mai spento principio di movimento, inadempimento e « rivoluzione ».
Tanto il singolo quanto l'intera specie umana non avranno mai finito di diventare nella realtà ciò che già sono per essenza: diventa sempre meglio di quello che già sei.
Se ora ci volgiamo al significato 3) di natura, la sua legittimità è stata, contro ogni apparenza, piuttosto rinforzata che abolita dalla scienza contemporanea della vita, quando essa sia capace di lasciare da parte il meccanicismo che, assimilando gli esseri viventi a macchine, conduce fuori strada nell'intendere il vivente.
Intendiamo per natura in tale terzo significato « un principio e una causa del movimento e della quiete in tutto ciò che esiste di per sé e non per accidente », o con un linguaggio oggi più idoneo, l'esistenza nel vivente di un principio interno di autocostruzione o autopoiesi.6
Questo concetto « classico di physis è primariamente orientato alla sfera del vivente e il suo paradigma è l'uomo ».7
La natura è dunque qui compresa come principio interno o regola immanente di autocostruzione, a partire dal fenomeno elementare del metabolismo cellulare, agevolmente interpretabile con le categorie dell'ilemorfismo nel senso che lo scambio di materia ed energia con l'ambiente avviene nel mantenimento della forma.
Nel metabolismo inizia sin dal suo livello più modesto un presagio di libertà in quanto vi si manifesta un primo livello di interiorità.
Il meccanicismo non conosce l'interiorità e perciò non conosce la spontaneità e l'autodeterminazione dall'interno; conosce solo l'esterno e la causa efficiente di natura meccanica.
Vi è radicale differenza fra movimenti e processi che sono regolati e provenienti dall'interno, e movimenti indotti o regolati da forze esterne.
Il riduzionismo fisicalista e il meccanicismo dove ogni movimento è indotto dall'esterno ( una forza si applica dall'esterno su un corpo e lo mette in moto ), lo negano.
Ma l'epistemologia biologica più avvertita evita di interpretare la vita alla stregua di un puro meccanismo.8
Il concetto di natura come quasi-sinonimo di vita e di essere vivente rappresenta uno snodo essenziale del tema della persona, nel senso che il suo recupero e recupero dell'idea di vivente vanno insieme.
Il dualismo cartesiano nasce nel momento stesso in cui viene congedata l'idea di vita, rimasta poi marginale in tante filosofie successive.
Ora per studiare la vita occorre partire non dall'astratto ma dal concreto, ossia decidersi a studiare i viventi: la vita si spiega solo con la vita e il paradigma della vita sono gli esseri viventi nella loro quasi infinita varietà, fra cui l'essere umano.
Il suo vivere va compreso nella sua realtà e specificità propria.
In base all'idea di natura come principio di autopoiesi e crescita dall'interno si stabilisce la differenza fra ciò che è tecnicamente prodotto o fabbricato, e ciò che cresce organicamente, dislivello che manca nelle bioetiche che intendono prescindere da un'analisi sufficiente dell'idea di natura.
Anzi la cancellazione della differenza fra ciò che è naturalmente divenuto e ciò che è tecnicamente prodotto sembra essere lo scopo o il desiderio della eugenetica « liberale ».
Nei confronti del concetto di natura umana e della sua normatività ( è infatti la natura dell'uomo, non la natura come cosmo regolato da leggi di vario genere, a essere luogo di normatività ), si elevano in genere due obiezioni: quella naturalistica o materialistica e quella libertaria.
In entrambi i casi ma in diverso modo la natura non è ritenuta normativa, e l'uomo sprovvisto di fini determinati dal suo essere.
Nel materialismo la « normatività » sarà seguire impulsi e istinti, nel libertarismo sarà rendersi indipendenti da ogni naturalità biologica e concordare contrattualmente nella piazza pubblica le regole da seguire.
Le filosofie morali che si collegano a queste posizioni, fra le maggiori del XX secolo, presentano un mix variabile di razionalismo contrattualistico, di esistenzialismo decisionistico e di istintivismo.
Non lontano è il rischio del positivismo morale che, aderendo acriticamente alla scienza e alle sue scoperte, ricalca la morale del momento sullo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, ossia trasforma in dover essere l'essere fattuale della scienza.
Una forma frequentata di riduzionismo nei confronti dell'idea di natura è la sua storicizzazione, operata sostenendo che essa sia compiutamente culturale, dipendente dalle scelte, valori, decisioni degli uomini: la dialettica natura/essenza-cultura viene abolita, con la risoluzione del primo termine nel secondo.
In tal modo il problema del loro rapporto è segato alla radice per cui, essendo in ipotesi tutto culturale, niente è più naturale e niente è più innaturale.
Nella riduzione storico-culturale dell'idea di natura e nel silenzio sulla sua plurivocità si individua un limite maggiore del « Manifesto di bioetica laica » pubblicato nel 1996: « Al contrario di coloro che divinizzano la natura, dichiarandola qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che il confine fra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai valori e dalle decisioni degli uomini.
Nulla è più culturale dell'idea di natura … i criteri per determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è non possono in alcun modo derivare da una pretesa distinzione tra ciò che è naturale e ciò che naturale non sarebbe » ( « Il sole 24 ore », giugno 1996, p. 27 ).
Gli estensori hanno proceduto per le spicce, facendo ruotare il loro argomento intorno ad un'affermazione che solleva molti problemi, almeno per l'evidente equivocità con cui si è assunta l'idea di natura e il mancato suo chiarimento; ossia non ci si cura di definire se sia quella fisica o qualcosa che assomiglia all'essenza.
Ora un concetto di natura umana non-ontologico e non-universalistico ma di tipo esclusivamente storico e culturale, oltre ad essere infondato, è esposto al gravissimo svantaggio di non essere universalizzabile, di lasciare nelle mani dei potenti di turno lo stabilire chi appartiene alla natura umana e chi no.
Il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'uomo del 1948 adotta una diversa prospettiva, nella quale è chiaramente implicita l'idea che non tutto è culturale e storicamente variabile, ma che esistono valori e diritti universali e non contestuali: « il riconoscimento dell'inerente dignità e di uguali ed inalienabili diritti a tutti i mèmbri della famiglia umana è il fondamento della libertà, giustizia e pace nel mondo … i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nella Carta la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e valore della persona umana, e negli uguali diritti di uomini e donne ».
L'idea che la natura ( umana ) sia un costrutto culturale e storicamente variabile è contraddittoria e autodistruttiva, specialmente se è proposta da coloro che aderiscono ai valori di libertà, giustizia, tolleranza per tutti e prestano fiducia alla scienza come fonte universale di conoscenza.
La contraddizione consiste nel sostenere da un lato valori universali, che possono essere tali se sono radicati in una natura umana parimenti universale, e d'altro lato nell'accettare la posizione opposta del multiculturalismo e contestualismo che intende culture, popoli e tradizioni isolati in spazi incomunicanti e senza alcuno zoccolo comune.
Il Preambolo della Carta delle Nazioni Unite nonché la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo oppongono una forte resistenza al tentativo, molte volte esperito in Occidente negli ultimi 30-40 anni, di proporre un'interpretazione esclusivamente libertaria dei diritti umani, trattando i due testi come una lista da cui si può scegliere a piacere i diritti che meglio fanno al caso nostro, ossia alla battaglia cui ci si è votati che spesso privilegia i diritti di libertà.
Ne è seguito un esito sconcertante, ossia che non poche agenzie culturali, mediatiche e politiche hanno creato un insieme di frammenti iperlibertari strappati con forza dal tessuto unitario della Dichiarazione universale, e proiettati in contesti extraoccidentali dove fanno molto fatica ad attecchire per la ben differente situazione della cultura e delle istituzioni.
Nel contempo queste avanguardie libertarie hanno cercato di gettare l'oblio o il discredito sul paradigma legato alla dignità della persona umana e sugli aspetti che più lo connotano, ad es. i temi della solidarietà, giustizia e del carattere naturale della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna.
Ora la Dichiarazione non è una lista di garanzie assolutamente separate l'una dall'altra, di modo che ciascuno a piacere ne estrae quella che al momento gli viene utile.
Essa è un quadro di diritti inalienabili e interconnessi, di modo che nessun diritto può essere assolutizzato e portato all'infinito a spese degli altri, e in specie dei diritti fondamentali.
Se i diritti umani sono universali, indivisibili e interdipendenti è impossibile assumerne uno ignorando la sua relazione con gli altri, di modo che nessun diritto può essere lasciato fuori e nessuno completamente subordinato ad un altro.
D'altra parte se ogni diritto viene inteso come un assoluto privo di qualsiasi limitazione, l'esito sarà solo un inconciliabile conflitto.
Ciò significa che oggi come ieri e domani abbiamo bisogno di una cultura realistica dei diritti umani che ne conservi e ne illustri il valore.
Realistico qui significa che i diritti umani sono fondati al meglio in una filosofia a base obiettiva e realistica ( parlo del realismo filosofico quale quello di Tommaso d'Aquino e nel XX secolo di Maritain ), che non cede alle sirene del relativismo e del contestualismo.
Digressione sul genere.
Nelle questioni di « genere » ( gender ) il dibattito evidenzia l'esistenza di posizioni femministe che pongono l'accento sul genere come elemento strutturale o essenziale, e di altre che lo dissolvono a favore di un primato attribuito alla cultura.
Nel primo caso emerge il tema della differenza, che si fa avanti nel momento in cui l'esplosione dei concetti forti della modernità ( soggetto, identità, io, trascendentale, uno ) propizia la nascita di culture che intendono la differenza come « differenza tra » ossia tra i due poli del maschile e del femminile negando che uno sia superiore all'altro.
Questo tipo di differenza è diverso dalla « differenza da », concetto in cui è veicolata l'idea che esista un canone o un modello in rapporto al quale si stabilisce la distanza e il paragone ( il canone ancor oggi prevalente, ma ormai in difficoltà, rispetto a cui si misurano le differenze è l'uomo bianco cui si attribuisce una superiore razionalità ).
Nel caso della donna si è passati dall'idea della sua inferiorità al riconoscimento della diversità rispetto all'uomo, entrambi portatori dello stesso valore e dignità; e poi dalla diversità al riconoscimento dei diritti.
Dunque dalla subordinazione alla rivendicazione di uguaglianza, giocata in vario modo fra cui quello che fa della donna un'antagonista dell'uomo, che si appella alla rivalità fra i sessi per ottenere la liberazione femminile.
Nel secondo caso, quello del « femminismo di genere », si cancellano le differenze fra i due sessi, considerate l'esito di condizionamenti storico-culturali reversibili.
In omaggio al primato della cultura sulla natura, la differenza sessuale o corporea è minimizzata e quella propriamente culturale ritenuta primaria.
Il genere sarebbe qualcosa che si sceglie: ciascun essere umano, a prescindere dal genere in cui è stato posto dalla nascita, avrebbe un sovrano diritto di libera scelta del proprio genere sociale, culturale e personale.
Pertanto ogni differenza e ogni rapporto fra differenze sarebbe perfettamente possibile e moralmente privo di connotazioni negative.
Si tratta di un ulteriore caso di rifiuto del « secondo natura » ( kata physin ) per il primato della libertà di scelta.
Second Judith Butler ( Il problema del genere. Il femminismo e la sovversione dell'identità ) « Il genere è una costruzione culturale, non è il risultato causale del sesso.
Concependo il genere come una costruzione culturale indipendente dal sesso, risulterà libero da vincoli.
Di conseguenza, uomo e maschile potranno essere riferiti sia a un corpo femminile, sia a uno maschile; donna e femminile, sia a un corpo maschile sia a uno femminile ».
Coerentemente i sessi non sono più due ma cinque: femminile eterossessuale, femminile lesbico, maschile eterosessuale, maschile omosessuale, individui bisessuali.
Le differenze naturali di sesso vengono perciò negate in questa posizione, mentre nel femminismo concorrente sono divaricate sino allo scontro fra i due generi.
Le idee di essenza e di natura avanzate in questo saggio implicano una filosofia che si sottragga all'empirismo radicale che risolve differenze di qualità/essenze in mere differenze di quantità.
Una filosofia del genere è oggi rara per l'antiessenzialismo indotto da generalizzazioni pseudoscientifiche dell'evoluzionismo, che qui mostra una valenza nichilistica.
Quando questa si esercita sulla natura umana, cerca di privarla di ogni necessità, di considerarla completamente trasformabile e in sé priva di un senso, che le dovrà essere attribuito dal soggetto.
Un esito di questo processo è l'attenuazione sino alla cancellazione delle differenze fra interventi terapeutici e interventi « manipolativi-migliorativi », nell'intento di rimettere alle preferenze individuali dei soggetti, all'ingegnere genetico e alle regole del mercato il compito di gestire l'intero ambito della salute, della terapia, della selezione genetica.
Coerentemente N. Agar ha scritto:« I liberali dubitano che il concetto di malattia possa servire a risolvere, in sede di teoria morale, i problemi posti dalla distinzione fra terapia e selezione genetica ».9
Su questo importante aspetto che chiama in causa due concetti reggenti di ogni medicina, quelli di malattia e terapia, ora ci soffermiamo.
Là dove si eserciti una scepsi senza restrizioni sul concetto di natura ( umana ), essa implica la crisi di un suo correlato immediato, ossia dell'idea di normalità di funzionamento del soggetto umano in quanto corpo, e dunque dei concetti di salute, di malattia e di terapia.
Le idee di malattia e terapia necessariamente rinviano alla natura come normalità di funzionamento, alla malattia come scostamento da tale normalità, e alla terapia come ricostituzione della normalità.
In effetti l'idea di terapia è dipendente e consecutiva a quella di malattia e quest'ultima implica che vi sia una deviazione dallo stato normale, cioè dalla condizione di salute, che costituisce la «condizione naturale ».
La medicina come arte e scienza e l'idea di terapia che le è immanente non possono venire esplicitate senza fare riferimento a queste nozioni e al loro accertamento anche statistico.
Ora, se il concetto di natura smarrisce ogni rilevanza obiettiva almeno fenomenologicamente accertabile, e diventa soltanto il prodotto culturale storicamente variabile di scelte e decisioni del singolo in cui si esprimono i suoi desideri, impulsi, istinti, anche i concetti di malattia e di terapia andrebbero abbandonati.
Se niente è di per sé naturale e normofunziona le, neppure lo stato di salute lo è, e neppure la declinazione dal naturale ( ossia la malattia ) ha senso: conseguentemente cade il concetto di terapia.
Più in generale viene compromesso il concetto di medicina ippocratica, che è basata su poche ma nodali nozioni che ne sostengono l'impalcatura: il concetto di naturale quale normalità di funzionamento, la malattia come deviazione da una condizione naturale o normale, la terapia quale azione volta a ristabilire la salute.
Il fine originario della medicina è il guarire ed in ciò il medico è un aiutante della natura: medicus curat, natura sanat.
Per i « culturalisti » occorre riconoscere il valore meramente convenzionale di quanto viene ritenuto fisiologico e di ciò che si giudica patologico: categorie culturali appunto, senza alcun fondamento nella realtà o nell'uomo.
In tal modo il concetto di statisticamente normale perderebbe significato.
Ne consegue che, sganciate da ogni obiettiva distinzione fra fisiologia e patologia, le aspirazioni del paziente o dell'uomo rischiano di essere subiettive e arbitrarie.
Ma la salute è largamente definita dalla natura, non dai desideri o dalla cultura: difficilmente gli individui potranno restare in forma e sentirsi bene con la febbre a 40 gradi.
Poiché la contingenza genetica sta diventando qualcosa che è a disposizione dell'uomo, ciò può produrre profonde dissimmetrie fra persone in linea di principio libere ed eguali, mediante un intervento anomalo e arbitrario sul futuro di un individuo, esercitato in ipotesi di genitori o dall'ingegnere del genoma sul corredo genetico dei figli.
Il diritto ad un patrimonio genetico integro e non manipolato è il diritto a essere e rimanere se stessi, nel senso che - pur non dandosi coincidenza fra uomo e suo patrimonio genetico - quest'ultimo è un segno notevole dell'essere uomini.
Se dunque occorre garantire la nostra identità personale che si radica pure in chiari fondamenti biologici e nel genoma, occorre rispettare l'indisponibilità e la non-manipolabilità del nostro individuale patrimonio genetico.
Rimane aperto il notevole interrogativo se la medicina debba mantenere la diversità fra fisiologia e patologia, oppure aderire alla « medicina dei desideri » secondo cui l'elemento trainante della domanda di salute risulta il modellamento del corpo in base al desiderio, assunto che nega l'idea stessa di limite naturale.
Forse la maggior parte dei problemi acuti che travagliano la medicina e la bioetica ( procreatica, manipolazione genetica, Fivet, clonazione, ecc. ) deriva dal ruolo centrale assunto dal desiderio rispetto al bisogno.
Sappiamo la delicatezza, la problematicità, le insidie che si parano dinanzi nel trovare un adeguato e complessivamente condiviso concetto di salute.
Quello proposto nel 1946 dall'OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità ), secondo cui la salute è definita come un completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo dall'assenza di affezioni e malattie, è diffuso internazionalmente, per quanto da varie parti si osservi che la definizione finisce per rendere la salute un bene assoluto di portata sì vastissima, ma anche largamente indeterminata e definibile entro limiti non poco variabili.
In effetti la definizione dell'OMS finiva per abbandonare il concetto di fisiologia o di normalità di funzionamento tradizionalmente implicato nel concetto di salute come assenza di malattie, e spostava il problema sul lato soggettivo cui appartiene l'idea di completo benessere.
Ciò si ripercuote sui concetti stessi di malattia, terapia, fisiologia e patologia.
Secondo alcuni autori, la medicina assume un carattere costruito in base a cui diventa convenzionale la distinzione fra ciò che è fisiologico o normale e ciò che si giudica patologico.
Oltre questi aspetti emergono ulteriori domande sul concetto di salute, se cioè sia identico in se stesso e valido per tutte le stagioni della vita, o se invece possegga una interna modulazione per cui non abbia lo stesso significato per il giovane e per il vegliardo.
Ne è difficile cogliere il rilievo dei problemi sollevati dalla definizione dell'OMS quando si rifletta sulla portata del termine « psichico », chiedendosi se esso includa o meno il livello spirituale: un problema veramente arduo, cui qui basterà aver accennato senza minimamente pretendere di suggerire soluzioni.
Una certa qual assolutizzazione del diritto alla salute influisce fortemente su un problema che si incontra con grande frequenza, quello del bilanciamento fra diritti diversi, che diventa quasi ingestibile se un diritto come quello alla salute viene posto come assoluto.
Esso si mostra molto più lato e indefinito rispetto alla pratica medica precedente che puntava essenzialmente alla tutela ( profilassi e cura ) dei disturbi anatomici e funzionali, cui d'altro canto si può addebitare una comprensione incompiuta e non piena degli scopi della medicina.
Ad esempio quest'ultimo tipo di approccio non includeva - ma spesso per motivi essenzialmente legati alla mancanza di conoscenze e di tecnologie adeguate - la « medicina potenziante » fra gli scopi della medicina.
Ed è proprio su questi aspetti che si palesa l'importanza e l'urgenza di riprendere a riflettere sulla teleologia della medicina, come ha fatto il Comitato Nazionale di Bioetica nel documento « Scopi, limiti e rischi della medicina » ( 11 dicembre 2001 ): urgenza avvalorata dal fatto che i mezzi sempre più potenti di cui dispone la scienza medica rischiano di prendere la mano al medico, se appunto non si ritorna con grande determinazione sui fini.
La discrasia fra mezzi potenti e scopi incerti o soggetti a dubbi crescenti appare una condizione alquanto generalizzata in Occidente, assai oltre il pur importante campo della medicina.
Il documento puntualmente osserva come negli ultimi anni l'attenzione prevalente « si sia concentrata soprattutto sugli strumenti e sui mezzi della medicina e dell'assistenza sanitaria, piuttosto che sugli scopi.
Hanno dunque prevalso le analisi sugli aspetti gestionali e organizzativi, sui costi e sul problema dei finanziamenti, sulla questione delle privatizzazioni, sulle innovazioni politiche e burocratiche, ed altri di interesse indubbiamente rilevante …
Ma il nucleo centrale degli scopi attuali della medicina che qui cerchiamo di individuare è rimasto un po' in ombra, probabilmente proprio a causa della complessità che lo connota " ( p. 23 ).
Occorre dunque riesaminare ex novo i fini stessi della medicina, non evitando la riflessione su un aspetto che serpeggia abbondantemente nell'opinione pubblica e che genera entusiasmi, aspettative eccessive e non di rado miracolistiche, ossia « l'erronea idea che sia vicina e definitiva la sconfitta delle malattie » ( p. 23 ).
Se così fosse, ne dovremmo trarre l'ammaestramento che la medicina non avrebbe più limiti, contrariamente al titolo del documento che espressamente sottolinea l'immanenza del limite nell'attività medica, anche se questo non è fermo e col progresso può subire uno spostamento in avanti.
Che cosa ne è della persona nell'età della Tecnica?
Possiamo produrre la persona e cambiare la natura umana?
Queste domande dischiudono una questione fondamentale che viene oggi rilanciata in vari modi, e che forse non ha ancora ricevuto un'adeguata risposta.
La domanda sulla possibilità di produrre la persona introduce immediatamente la categoria della produzione.
Le produzioni che conosciamo avvengono ricorrendo alla tecnica secondo le modalità volta a volta disponibili ed assicurate su un sapere scientifico e certo di se stesso: ad esempio la produzione industriale di beni economici d'ogni tipo, e la crescente produzione del diritto come un insieme di norme e procedure che - si pensa - dipendono solo dalla volontà puntuale e variabile dell'uomo.
Tecnica è la grande parola dell'economia e in parte del diritto ( almeno di quel diritto/jus che taglia il suo legame costitutivo con la justitia ), e con la tecnica il suo « mito »: la produzione.
Se vi sono officine che producono automobili ed altre leggi o norme, perché non potrebbero esservi officine per produrre la persona?
Essa potrebbe venire prodotta come un artefatto, secondo le regole dell'artificialità e dell'efficacia.
Come la produzione industriale riposa su leggi scientifiche, e il diritto sulla volontà degli uomini e del potere, altrettanto varrebbe per la persona consegnata alla tecnica, alla volontà di potenza, al produrre.
Le officine della Tecnica possono tanto?
Il contesto spirituale entro cui tali questioni sono elevate è tributario di fondamentali delocalizzazioni o rivoluzioni culturali che negli ultimi Secoli hanno costituito delle sfide esigenti per il soggetto, sottoposto a tre [ distinte detronizzazioni:
a) la detronizzazione cosmologica, in quanto la terra e l'uomo non sono più il centro del cosmo;
b) la detronizzazione biologica, innescata dal darwinismo secondo cui l'uomo non è superiore agli animali;
c) la detronizzazione psicologica, iniziata dalla psicanalisi, che identifica nell'inconscio, non nell'io conscio, il livello basale e primario del dinamismo psichico.
Dopo le tre grandi umiliazioni inflitte al narcisismo dell'uomo da Copernico, Darwin e Freud, che sembrano suggerire che siamo soli e abbandonati a noi stessi nell'universo, si fa avanti un'ulteriore, più radicale detronizzazione: il progetto di fabbricare l'uomo.
Un brano chiarirà le pretese che la nuova filosofia veicola. « Un'idea centrale, ad esempio, è che il mondo non è statico ed eterno, ma si evolve nel tempo.
Nel XIX secolo questa verità riguardava solo il mondo biologico, mentre nel secolo successivo l'ipotesi evoluzionista è diventata valida per l'universo nel suo complesso.
Questa idea ha impiegato molto tempo ad affermarsi, così come è dovuto passare un secolo perché le ipotesi di Copernico fossero confermate.
Si può dire che solo in questi anni ci stiamo rendendo conto di cosa significhi una realtà in evoluzione perenne.
Inoltre, questa nuova filosofia naturale considera inutile, anzi ridicola, l'ipotesi di una intelligenza superiore responsabile della bellezza e della complessità del mondo.
Si può sostenere, invece, che in un contesto biologico la materia vivente si è creata e organizzata da sé a partire da principi semplici, come la selezione naturale.
Credo che lo stesso si possa affermare per le leggi della fisica e la struttura del cosmo »10.
La produzione dell'uomo diviene un'ovvietà se siamo soltanto materiale organico che emerge come esito casuale del divenire cosmico.
Prodotti dall'evoluzione, perché mai non dovremmo continuare la storia della nostra specie, producendoci tecnicamente come vogliamo e mutando la nostra essenza a piacere?
Secondo H. T. Engeihardt « in quanto persone possiamo fare dei nostri corpi degli oggetti », e quindi decidere di riplasmarci, dal momento che « non c'è nulla di sacrosanto nella natura umana ».11
L'uomo è la misura di tutte le cose, osservava Protagora.
La Tecnica sembra completare così il suo detto: « l'uomo è la misura di tutte le cose, compreso se stesso ».
Ma appunto al prezzo di considerarsi una cosa, è necessario aggiungere.
Cancellare dalla lavagna.
Lo spirito oltranzista dello scientismo tecnologico è ben espresso da Brecht: « Sì, rimetteremo tutto in dubbio.
E quel che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna ».12
Niente è valido per sempre, tutto muta e diviene, non esistono verità ferme, immutabili.
In questa posizione emergono due enormi presupposti nichilistici:
a) il primo assume che una metafisica del puro divenire non abbisogni di giustificazioni e verifiche, ma valga come allant de sol;
b) il secondo ritiene che la volontà di potenza dell'uomo possa tutto.
a) In Essere e libertà ho cercato di mostrare l'errore di coloro che negano ogni strato eterno dell'essere e che si precipitano acriticamente nel torrente del puro divenire.
Mi permetto di citare qualche riga.
« L'assunto speculativo fondamentale di questa linea di pensiero, poderosa per la sua diffusione, può essere così formulato: la natura delle cose comporta che niente sia eterno e che il tutto perennemente divenga.
L'innocenza improblematica del divenire viene assunta come « verità » non soggetta ad analisi, come un'evidenza su cui sarebbe tempo perso interrogarsi …
In larghi settori della metafisica moderno-contemporanea sembra dominante un preteso argomento, che suona così: poiché il divenire esiste e rappresenta un'evidenza primaria e indubitabile, non può esistere l'immutabile, l'eterno.
Non si incontra qui un chiaro non sequitur?
Tanta parte della tradizione filosofica invece ha detto: poiché il divenire esiste, esiste/deve esistere l'immutabile …
In esso [ nell'attuale nichilismo ] muta la comprensione essenziale dell'essere.
Essere nel senso più alto non significa più « essere sempre », ma solo esistere in modo finito e temporalmente limitato, e dunque essere per la morte.
Il pensamento postmoderno e postmetafisico della morte, su cui agisce potentemente la comprensione dell'essere propria della scienza-tecnica, risulta segnato dalla filosofia della finitezza e temporalità, e può pervenire al congedo della questione dell'immortalità.
Talvolta si dice: l'uomo proviene dal nulla e va verso il nulla, dal nulla iniziale al nulla finale, mentre non si da voce alla tensione inscritta nell'uomo a trascendere la temporalità.
L'oblio dell'eterno è nichilismo dispiegato, rifiuto dell'unità fra eternità ed essere.
Dunque il più radicale nichilismo che qui da la mano al più radicale storicismo, è costituito dall'oblio del concetto di eternità.
Pertinente è su questo aspetto la critica di L. Strauss: « Le difficoltà inerenti alla filosofia della volontà di potenza condussero, dopo Nietzsche, all'esplicita rinuncia della stessa nozione di eternità.
Il pensiero moderno raggiunge il suo culmine, la sua più alta autocoscienza, nel più radicale storicismo, cioè esplicitamente condannando all'oblio la nozione di eternità »13.
Nello stesso testo ho pure indicato il cammino da percorrere: dall'eterno ritorno al ritorno all'eterno.
Ossia da Nietzsche alla filosofia dell'essere e a Tommaso, per nominare il pensiero che ci fa uscire dal nichilismo e il massimo antagonista del niccianesimo.
b) Potenza e impotenza della tecnica.
Per avviare la risposta alla seconda questione che domanda se la volontà di potenza possa tutto e se essa trovi oggi la sua massima esplicazione nella Tecnica, dobbiamo chiedere sulla natura della Tecnica, sulla sua potenza e impotenza.
Dove volgersi per determinare l'essenza della tecnica?
Dove Heidegger fatica a soccorrere, il pensiero può trovare un appoggio in quell'antico maestro di realismo e cacciatore di essenze che fu Aristotele.
Nella sua opera la natura della tecnica è sobriamente determinata in relazione alla metafisica del necessario e di ciò che può essere altrimenti da come è, in un quadro ontologico in cui l'essere e l'ente sono intesi come ordo e struttura.
Aristotele ha elaborato un tessuto concettuale che rende possibile la risposta all'interrogativo sull'essenza della tecnica moderna sollevato da Heidegger, ossia come un tentativo di livellamento di ogni ordo e valore.
L'approfondimento aristotelico è immune dall'enfasi moderna sul subjectum rappresentante, che pregiudica in senso antropocentrico la percezione della verità dell'essere.
Il dibattito sull'essenza della tecnica si svolge grossomodo tra le posizioni fissate da Aristotele e da Cartesio, poiché le loro concezioni si dispongono in polarità dicotomica.
Le filosofie e le culture che non hanno accettato l'impostazione del problema dell'essere, del soggetto e dell'oggetto propria dell'enfasi razionalista e antropocentrica moderna, e che hanno evitato di omologarsi a semplici umanesimi economici ed estetici, troveranno un alleato nell'idea aristotelica di tecnica.
Cercando di determinare nell'Etica Nicomachea ( in specie nel cap. VI ) la natura della tecnica ( techne, tradotto dai latini con ars ) e il suo campo d'esercizio, Aristotele scrive: « Ogni arte ( techne ) riguarda la produzione, e il cercare con l'abilità e la teoria come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci, sia non esserci, e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato.
Infatti l'arte non riguarda le cose che sono o si producono necessariamente, ne le cose che sono o vengono all'esistenza per natura, dal momento che queste hanno il loro principio in se stesse ».14
Dunque il fondamentale punto di mira della tecnica è l'artificiale, l'artefatto; il far venire all'esistenza ciò che da solo o per natura non vi entrerebbe mai.
Dispiegandosi in un quadro in cui compaiono sia l'ambito del necessario che quello dei processi naturali, l'approccio aristotelico alla tecnica ne compie un ( ri )dimensionamento per il fatto che essa non è l'unica ad occupare la scena.
Esistono cose che hanno in se stesse il loro principio, tra cui si collocano gli enti dotati di vita, e che in vita permangono in virtù di un interno principio organico di autocostruzione o autopiesi.
Al riguardo Aristotele distingue la tecnica in quanto creativa di oggetti nuovi dalla tecnica in quanto ausiliaria, la quale segue da vicino i processi naturali, cooperando alla loro integrità: « L'arte ( techne) o esegue ciò che la natura è impotente a effettuare o la imita ».15
Ciò non significa - tante volte però l'idea aristotelica fu intesa proprio così - che l'« artista » debba pedissequamente imitare la natura: la massima arte starebbe allora nella fotografia.
Piuttosto si attira l'attenzione sull'intima parentela fra « processo naturale-vitale e processo tecnico poiché in entrambi abita una razionalità, un principio intelligente; e là dove la tecnica li coglie, può procedere a riparare la natura quando qualcosa in essa devia dalla norma.
Ciò presuppone che, una volta varcato il confine della vita, la natura sia un principio interno di attività e di spontaneità, ossia secondo la già citata definizione della Fisica: « Principio del movimento e della quiete in una cosa ».16
Adottando un linguaggio moderno ma già incluso in quello aristotelico, diremo che fenomeno centrale della vita è l'autocostruzione o l'immanenza del principio poietico.
In Aristotele tecnica e natura appaiono sorelle capaci di cooperare, contrariamente a certe posizioni dell'idealismo e dell'attualismo ( portatori di un'idea antagonista del rapporto fra io e non-io ), e lo sono anche in quanto la sua filosofia non cancella la finalità dall'essere.
L'intervento sull'uomo non poteva venire previsto da Aristotele nelle forme con cui oggi si esercita nelle tecnologie biologiche; eppure la regola dell' « imitazione della natura » si mostra sorprendentemente idonea in proposito, nonché nel caso, certo diverso, dell'intelligenza artificiale che cerca di simulare o di emulare i processi cognitivi umani.
L' « imitazione della natura » comprende anche la possibilità generale di una tecnologia di imitazione della mente umana, almeno in talune sue operazioni.
Nel dettato dello Stagirita la tecnica appare al suo posto:
1) quando produce strumenti e oggetti nuovi aggiungendo alle cose naturali quelle artificiali, senza pretendere di fare intrusione nel necessa|rio.
Lo scopo della tecnica è far nascere un essere nuovo, un ente artificiale.
Esso è prodotto dall'uomo, che lo ha prima concepito in se stesso.
Da qui la radicale differenza tra gli esseri della natura, che possiedono in loro stessi il loro principio, e gli enti artificiali che lo hanno esteriormente nel produttore.
Questi è misura delle cose producibili, non di ogni ente.
Il non-producibile è custodito dalla dimensione déll'indisponibile, cioè dalla dimensione delle cose che o sono necessariamente o vengono all'esistenza per natura e possiedono il loro principio in loro stesse.
La cifra essenziale con cui la filosofia aristotelica della tecnica si sottrae all'ideologia, consiste nell'accertamento del necessario: se una regione dell'essere è necessaria, non tutto può essere prodotto e oggettivato.
Il necessario è il non-producibile.
E tale dimensione custodisce il soggetto produttore dal cadere nell'alienazione di produrre od oggettivare anche se stesso.
L'interpretazione oltranzistica della tecnica moderna si palesa invece imparentata alla perdita delle verità eterne, all'eclissi del senso del necessario.
Solo con la « caduta degli immutabili » l'uomo può intendersi come misura e canone di ogni ente;
2) quando è ausiliaria e « correttiva » dei processi naturali, che possono in un certo numero di casi allontanarsi dal tragitto normale: essa dunque accompagna la natura e ne è continuazione.
Se la medicina costituisce l'esempio massimo di tecnica cooperante con la natura allo scopo di restituire la salute, la posizione aristotelica applicata alla genetica contemporanea distinguerebbe fra terapie geniche e manipolazioni geniche, accogliendo le prime e lasciando a lato le altre: in effetti le nuove possibilità tecnologico-genetiche non sono soltanto terapeutiche ma tendono a espandere il potenziale umano o comunque a trasformarlo.
Si pensi alla selezione di tipi umani più alti e forti: in tal caso cambia la natura della medicina, non più soltanto curativa ma potenziante.
Da questi scorci si trae l'idea che solidarietà e armonia fra tecnica e natura costituiscano obiettivi saggi, capaci di evitare un loro rapporto violento.
Il loro raggiungimento è agevolato da una concezione in cui ci sia spazio per la comunanza tra individuo umano e natura.
Non solo col suo corpo l'uomo sta in essa; anche la sua mente mostra affinità con essa.
Non c'è forse miglior augurio per la tecnologia futura di quello di recuperare il legame « ecologico » e non dominativo fra uomo e natura.
Per questo scopo occorre che di quest'ultima si abbia un'idea lontana da quella del meccanicismo.
Torniamo al punto di partenza: è possibile produrre la persona?
La Tecnica può arrivare a tanto?
La risposta si palesa negativa, poiché la Tecnica non può produrre l'essenza umana, immanente in ogni individuo della specie umana: il proprium dell'uomo è il logos, ossia ragione e linguaggio.
La Tecnica può produrre un'infinità di cose e lo fa in genere egregiamente, ma non può produrre né la ragione, né il linguaggio, che appartengono all'ambito del necessario.
La Tecnica non solo non può produrre, ma neanche può cambiare l'essenza/natura umana, come vedremo nel cap. V.
Nella posizione contraria s'incarna un deciso nichilismo delle essenze.
Negazione del necessario o nichilismo delle essenze.
La nuova filosofia prima dell'evoluzionismo radicale e il metodo genealogico che le è connesso riposano sulla negazione della sfera del necessario e dell'idea di sostanza, poiché tutto è risolto-dissolto in un processo senza essenze.
E definibile ciò che ha essenza, ed ha essenza ciò che almeno in parte sfugge alla storia.
« Definibile è soltanto ciò che non ha storia », ha scritto Nietzsche, senza forse rendersi conto di quale esplosivo poneva alla base delle sue ricerche.17
Nella decisione di non riconoscere o cancellare ogni dimensione della necessità - intendo il necessario come ciò che non può essere diversamente da come è - prende origine un nichilismo da volontà di potenza e di dominio portato all'acme, e perciò disposto ad osare cammini temerari, dove sarà sconfitto non senza aver prima provocato enormi danni.
Qui il ichilismo si palesa come oblio delle essenze: un oblio che rende inconsapevoli dell'impossibilità di mutare le essenze, in specie quella dell'uomo, inteso come un sussistente individuale di carattere intellettuale o spirituale.
Chiamo nichilismo delle essenze quest'atteggiamento.
Ad esso si volge l'ideologia ( in sé nichilista ) dello scientismo tecnologico, che oggi individua la sua ala marciante nel settore biologico-genetico.
La sorgente da cui trae nutrimento questa specifica forma di nichilismo si riconosce in un innalzamento enfatico del solo divenire, congiunto ad una negazione apriorica dello strato necessario dell'essere e all'assunto che le essenze siano mere convenzioni lessicali, qualcosa che fondamentalmente dipende dalle scelte dell'uomo e dalle mai ferme determinazioni della sua libertà.
L'antirealismo gnoseologico, stigma centrale di ogni nichilismo, qui si declina come antirealismo o irrealtà delle essenze/nature.
In quanto tale negazione è postulata e dunque velleitaria, essa appare allo scrutinio dell'intelletto condannata allo scacco e insieme pericolosa, poiché molti esiti negativi possono emergere nel tentativo di violare l'inviolabile.
Tale nichilismo delle essenze si può anche chiamare un « antinaturalismo » oppure un « denaturalismo », intendendo appunto con ciò la posizione fìlosofica che ritiene nullo e privo di senso il concetto di natura, come accade nelle posizioni nominalistiche, empiristiche ( Hume ), dualistiche secondo il dualismo Sein-Sollen ( Kelsen ).
In conclusione, per quanto la volontà di potenza voglia mettere le mani sulla persona e consegnarla alla Tecnica per mutarne l'essenza, ciò è sottratto alla sua presa: questo è l'ambito del necessario, che sfugge alle rapaci mani della volontà.
Aggiungo che molti che vorrebbero opporsi a Nietzsche sono in realtà dei veri nicciani, poiché adottano una posizione centrale di Nietzsche: la volontà di potenza come stoffa unica ed ultima della realtà.
Non soltanto tale volontà è solo un aspetto e neppure il più fondamentale dell'essere, ma quand'anche fosse la totalità del reale, essa non potrebbe produrre la persona.
Amici della terra e amici delle forme.
Nella questione delle essenze e del nichilismo prende nuovo vigore la gigantomachia tra coloro che sostengono che esiste veramente solo ciò che offre qualche possibilità di essere afferrato e toccato, e coloro che si appoggiano alle regioni superiori, alle zone dell'invisibile, sostenendo che il vero essere sono forme pensabili e incorporee.
Una battaglia implacabile vertente su questi problemi si svolge tra gli « amici della terra » e gli « amici delle forme », di cui dice Platone ( cfr. Soph., 246 a e s. ), e perdura ancora oggi.
Secondo lo Straniero che interviene nel dialogo, gli amici dell'essere e delle forme sono miti, mansueti, oggi diremmo nonviolenti per inclinazione e scelta.
Da un luogo diverso da quello della filosofia proviene un detto instauratore che completa quello di Pliatone: beati i miti perché possederanno la terra.
L'elogio della metafisica è anche un elogio della mitezza, una grande virtù che Carlo Mazzantini faceva consistere « nel lasciar essere l'altro quello che è ».
L'atteggiamento degli amici della terra è invece ritenuto dubbio da Platone.
Indice |
1 | L'empirismo, che in genere assume una declinazione individualistica, essendo l'io singolo quale organismo e pratica attività sensibile l'ultimo riferimento del pensiero, si fa seguace di una teoria nominalistica dell'idea e di una dottrina sensista dell'intelligenza. Esso non riconosce alcuna differenza di natura ma solo di grado fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale: dunque la conoscenza umana è solo una conoscenza animale più evoluta e l'intelligenza umana non vede, non intuisce. |
2 | Riprendo la citazione di Crick dallo scritto di Morowitz, "La riscoperta della mente", in L'io della mente, a cura di D. R. Hofstadter e D. C. Dennett, Adelphi, Milano 1985,p.46. |
3 | H. T. Engeihardt, Manuale di bioetica, p. 428. |
4 | H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Einaudi, Torino, 1997, p. 153 e s. |
5 | Manuale di bioetica, p. 428. |
6 | Fisica, 192b21 e s. |
7 | R. Spaemann, "Naturale e innaturale sono concetti moralmente rilevanti?", in AA.VV., Seconda navigazione. Annuario di filosofia, Mondadori, Milano, 1998, "La tecnica, la vita, i dilemmi dell'azione", p. 188. |
8 | Per un miglior intendimento di questo punto fondamentale riporto un brano tratto dal cap. IV di Essere e libertà: "II suo [della natura] carattere centrale è di valere come principio di automovimento e parimenti come principio di cambiamento dall'interno: la sua interiorità o immanenza è espressa dal termine in quo est, che segnala la differenza fra naturale e artificiale, nel senso che gli oggetti artificiali ricevono il cambiamento dall'esterno. Entrambi gli aspetti dell'automovimento e del cambiamento dall'interno indirizzano verso il fenomeno della vita… Per una corretta comprensione della frase latina [natura est principium motus et quietis in eo in quo est], occorre tener conto che motus, dovendosi intendere in senso largo - ossia come movimento locale, crescita, diminuzione, alterazione - significa cambiamento o mutazione. In quanto la natura stabilisce resistenza di un intemo, essa risulta principio dell'interiorità… È saggio sospendere il giudizio in attesa di vederci più chiaro, e di cogliere il non detto, quello che la formula non dice apertamente per i nostri orecchi da secoli abituati ad un'altra musica. Per questo scopo è necessario un lavoro supplementare di scavo, per la verità non tanto piccolo, se è vero che - eredi di tré secoli di fisica newtoniana e affini - siamo nel complesso persuasi che il moto con le sue leggi è sempre indotto dall'esterno, non dall'interno. Uno dei massimi postulati della fisica newtoniana che trova il suo luogo di elezione nell'applicarsi a oggetti inanimati, e che si sposa a perfezione col meccanicismo, è appunto che ogni movimento è indotto dall'esterno, mai dall'interno: una forza si esercita fra corpi (la gravita); un corpo ne colpisce un altro e lo mette in moto. È estraneo alla fisica newtoniana, che possa esservi un principio interno di movimento: essa non è stata pensata per il fenomeno della vita, ma avendo dinanzi agli occhi solo l'inanimato. La meccanica newtoniana è un saggio sull'esteriorità nel senso che l'interno le è sconosciuto e che le azioni e reazioni di cui si occupa concernono l'esterno. Se al contrario la determinazione di Aristotele e Tommaso parla della natura come di un principio del movimento e della quiete che risiede nel soggetto stesso, per amore di simmetria si potrebbe dire che la loro filosofia naturale è un saggio sull'interiorità, sull'immanenza, su ciò che è intrinseco e interno al soggetto. Si potrà obiettare che dopo Newton molto cammino è stato compiuto dalle scienze e dalla biologia che hanno allargato il quadro dalla meccanica allo scambio di calore, alle reazioni chimiche, molecolari, all'elettromagnetismo, ecc. Niente di più vero, eppure il fenomeno della vita non può venir compreso se non ricorrendo ad un criterio interno di autocostruzione, senza di cui la vita viene immediatamente equiparata o ridotta a non-vita", pp. 121-125. |
9 | Citato da J. Habermas, II futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002, p. 22. |
10 | L. Smolin, La nascita della terza cultura, in Brockman J. (ed.). La terza cultura. Oltre la rivoluzione scientifica, Milano 1995, p. 21. |
11 | H. T. Engeihardt, Manuale di Bioetica, p. 428 e p. 435. |
12 | B. Brecht, Vita di Galileo, IX. |
13 | Essere e libertà, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 29 e s. |
14 | Etica Nicomachea, 1140 a 10-16. |
15 | Fisica, 194 a 21 e 199 al 5 e s. Maggiori sviluppi sulla filosofia della tecnica in Aristotele ed Heidegger si trovano nel mio Le società liberali al bivio. Lineamenti di filosofia della società, Marietti, Genova 1991, pp. 214-248; e in Essere e libertà, cit. |
16 | Ivi, 192bes. |
17 | Genealogia della morale, Adelphi, Milano 1988, p. 69 |