Gli stati di vita del cristiano |
La scelta e la chiamata che il Signore fa pervenire ai dodici li seleziona dalla moltitudine per destinarli ad una missione qualificata.
Essi non devono, come il miracolato di Gerasa, andare a casa e raccontare quello che di grande il Signore ha compiuto in essi; a se stessi essi non devono affatto pensare, bensì solamente annunciare il Regno dei Cieli che si avvicina ( Mt 10,7 ).
Essi devono nella rinuncia a se stessi identificarsi con l'atteggiamento interiore e l'ufficio di Colui che li invia, come Gesù si è identificato con la missione del Padre suo: « Chi accoglie voi, accoglie me; e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato » ( Mt 10,41 ).
Questa missione, che è una partecipazione alla missione del Figlio, presuppone che quelli che sono chiamati ed eletti comprendano il nucleo essenziale del Vangelo.
Come il Signore comunica al mondo in piena responsabilità personale il messaggio del Padre e dal Padre ha ottenuto che gli sia stata trasmessa tutta l'autorità ( Gv 5,22 ), per poter pascolare il gregge affidatogli con responsabilità propria ( Gv 10,11-18 ), così anche il chiamato deve essere non « mercenario », ma autentico « pastore » con tutti i suoi obblighi, cognizioni e responsabilità ( Gv 21,15-17 ).
Questa comprensione della verità del Vangelo può però di nuovo venir partecipata solo a colui che vive la sua verità, che cioè condivide la forma di vita del Redentore, il quale da la sua vita per le sue pecore.
In Dio, infatti, verità e vita sono un'unità, al punto che « chi non ama, non riconosce Dio » ( 1 Gv 4,8 ).
I chiamati vengono dal Signore non da ultimo per questo selezionati e posti sulla via dell'elezione, perché attraverso questa forma di vita acquisiscano il presupposto per comprendere la verità del Vangelo in quella pienezza che è raggiungibile dall'uomo e perché la rendano comprensibile ad altri con la loro vita e il loro annuncio.
La luce che il Signore è e che illumina scandagliando le tenebre di questo mondo ( Gv 1,4-5 ) non solo brilla sugli eletti ma li trasforma essi pure in sorgenti di luce.
All'isolato « Io sono la luce del mondo » ( Gv 8,12 ) sta di fronte il diffuso, molteplice « Voi siete la luce del mondo » ( Mt 5,14 ), una luce che deve consumarsi completamente nella missione dell'illuminare, che possiede un senso puramente strumentale, vale a dire l'illuminazione del mondo, non l'illuminazione di se stessi.
Lo stato della vocazione qualificata si rapporta in tal modo allo stato cristiano comune come l'illuminante primario all'illuminato, come la verità alla parabola.
Lo stato d'elezione è così forma sui et totius, la figura ( Gestalt ) posta in risalto della vita cristiana, che come « forma » deve informare anche la « materia » dello stato cristiano mondano.
Alle folle Gesù non parla altrimenti che in parabole: « Tutto questo diceva Gesù al popolo in parabole, corrispondentemente alla loro capacità di comprendere, e senza parabole non diceva loro niente » ( Mt 13,34; Mc 4,33s ).
I discepoli si stupiscono di ciò: « Perché parli a loro in parabole? Egli rispose: A voi è concesso di comprendere i misteri del Regno dei Cieli; ad essi invece non è concesso » ( Mt 13,10-11 ).
« A voi è affidato il mistero del Regno; a quelli che stanno fuori viene comunicato tutto in parabole » ( Mc 4,11 ).
Così il Signore aspetta finché è solo coi discepoli, e « quando furono soli, egli spiegò ai suoi discepoli tutto » ( Mc 4,34 ).
In virtù della divisione di parabola e verità essi acquisiscono il diritto di domandare circa il senso della parola di Dio: « Allora Pietro gli disse: spiega a noi questa parabola! » ( Mt 15,15 ).
« Quando furono tornati a casa lontano dal popolo, i suoi discepoli lo interrogarono circa il senso delle parabole » ( Mc 7,17 ).
Gesù esige però come condizione che essi non soltanto si imprimano meccanicamente nella mente le spiegazioni, ma trovino essi stessi la chiave per l'interpretazione.
Infatti la beatitudine rivolta ai loro occhi e orecchi, che apprendono ciò che « molti profeti e giusti desiderarono di vedere e non videro » ( Mt 13,17 ), include per essi l'impegno di vedere e udire in modo tale che nella parabola terrena divenga trasparente il senso divino.
Per questo egli rimprovera i discepoli quando essi non capiscono le sue parole nel loro vero senso ( Mc 8,15-21 ).
Essi devono diventar capaci - solo la discesa dello Spirito Santo li equipaggerà definitivamente per questo - di mutare la terra in spirito vivificante, il cui splendore irraggia infinitamente su quello presente nella parabola ( 2 Cor 3,6-10 ).
Al popolo Gesù parla in parabole che non vengono spiegate.
Così egli va incontro alla capacità di comprensione della gente.
Essi devono venir toccati dalla potenza della sua parola, devono rimaner sbalorditi della sua sapienza e lodare Dio per questo.
Essi devono venire attirati dalla grandezza del contenuto, che li supera.
Lo splendore e la chiarezza del sole divino deve estendersi sulla loro vita nel mondo - « Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce » ( Mt 4,16 ) - ed essi devono aver la possibilità « di credere alla luce », « di camminare nella luce » ( Gv 12,35-36 ), fintanto che è giorno e brilla la luce.
È sufficiente se la loro vita si muove all'interno del suo circolo d'irraggiamento, se i doveri mondani che essi devono sbrigare vengono rischiarati e cambiati di valore dal raggio della luce che li colpisce.
Così essi possono, cosa che è loro quotidiano compito terreno, trasformarsi in una parabola della vita eterna e dell'eterna verità.
Essi non la conoscono forse così come essa è in se stessa, ma sanno che ciò che costituisce la loro vita non è l'ultima e conclusiva verità dell'esistenza.
Riconoscono il suo senso simbolico trasparente che rinvia verso un altro, definitivo mondo, al cui svelamento ( Enfhiillung ) essi vanno incontro con perseveranza nella pazienza e nella fede.
Così essi acquistano distanza dalla loro vita e mettono in pratica, anche se spesso non in maniera conscia, l'esortazione dell'Apostolo: vivere nel matrimonio come se non fossero uniti in matrimonio, sposarsi come se non si sposassero, essere felici come se non lo fossero, dedicarsi al commercio come se non possedessero niente, trafficare con il mondo come se non ne guadagnassero nulla ( 1 Cor 7,29-31 ).
Nella parabola della parola del Signore essi apprendono che il mondo è solo una parabola e che « la sua figura passa » ( 1 Cor 7,31 ), « che il mondo passa insieme con le sue passioni, mentre invece chi fa la volontà di Dio rimane in eterno » ( 1 Gv 2,17 ).
Ciò che il Signore dice al popolo in parabole, ai discepoli lo spiega.
È dunque la stessa parola che viene rivolta ad entrambi, ma « secondo la capacità di comprensione » ( Mc 4,33 ): l'una volta nel velame del simbolo, che la fa apparire umanamente afferrabile, ma divinamente inafferrabile, l'altra volta nello svelamento, che lascia apparire ciò che è divino ma rende la Parola più difficilmente sostenibile.
Non avviene dunque affatto che il Signore presenti una dottrina esoterica ai discepoli, e una dottrina popolare, exoterica, sminuita e appiattita al popolo.
La parola di Dio è sempre la stessa, e il messaggio che il Figlio da parte del Padre ha da trasmettere al mondo lo è altrettanto.
Egli stesso è anzi la Parola, e la sua testimonianza è una cosa sola con la sua vita: così non ci può essere in lui spaccatura alcuna.
Ma come la voce del Padre che parla a lui prima della Passione e davanti a tutto il popolo gli conferma la volontà salvifica del Cielo: « Io l'ho ( il mio nome ) glorificato e lo glorificherò più avanti! », come questa voce viene compresa dal Figlio in tutta la sua pienezza, ma dagli uomini viene percepita in maniera così indebolita che alcuni la credono una voce di angeli, altri pensano di aver udito soltanto un rombare di tuono ( Gv 12,28-29 ), così la stessa parola del Figlio viene ricevuta dai discepoli e dalle folle da distanza diversa e con diversa intensità.
Ogni parola del Vangelo ha un senso per la Chiesa intera, anche quelle parole che furono dette a uomini singoli in situazioni determinate.
Non c'è nel canone della Scrittura nessuna parola del Signore della quale un cristiano non se ne debba far nulla.
Anche parole che vengono rivolte ai discepoli, pensate quindi in prima istanza per gli eletti, sono indirizzate alla Chiesa intera e ad ogni cristiano nello stato mondano.
Non solo nel senso che il popolo deve sapere ciò che il Signore si aspetta dai suoi discepoli e come egli li ammaestra e li istruisce, ma pure e ancor più affinché il popolo afferri quello che l'unica, indivisibile parola di Dio al mondo contiene, e si orienti nella sua vita in mezzo al mondo in base ad essa.
Per questo Gesù si dà cura di rivolgersi ai discepoli anche in presenza delle folle: « Quando si furono radunate frattanto folle così numerose che si calpestavano i piedi l'un l'altro, egli parlò dapprima ai suoi discepoli: ( … ) Ciò che avete detto segretamente nel buio lo si udrà in pieno giorno » ( Lc 12,1-3 ).
Questo discorso continua finché Pietro interrompe il Signore e gli chiede: « Signore, questa parabola la riferisci solo a noi o a tutti? » ( Lc 12,41 ); domanda a cui Gesù impartisce una risposta piena di mistero, il cui senso pur tuttavia è l'analogia della parola di Dio a seconda della capacità di comprensione dell'uditore: « Il servo che conosce la volontà del suo padrone, ma non si accinge ad eseguirla, riceverà molte percosse.
Colui che invece non la conosce, ma fa ciò che merita percosse, ne otterrà soltanto poche.
A chi è stato dato molto, molto sarà chiesto; a chi è stato affidato molto, molto sarà richiesto » ( Lc 12,47-48 ).
Quindi per i discepoli, che conoscono la spiegazione della Parola nella sua nuda realtà divina, la responsabilità sarà considerevolmente più grande che per le schiere, che certo « odono, ma non comprendono » ( Mt 13,13 ).
La presentazione di questa analogia della Parola è la replica del Signore alla domanda di Pietro se la frase si riferisca solo ai discepoli o a tutti.
Per questa analogia non si potrebbe trovare conferma migliore che il fatto che parole che in un vangelo sembrano rivolte esclusivamente ai discepoli, in un altro sono indirizzate quasi sempre anche o soprattutto alle folle.
Niente sembra contraddistinguere in maniera più esclusiva lo stato d'elezione che il grande discorso di invito del Signore ai discepoli nel Vangelo di Matteo, nel quale egli illustra ad essi il loro apostolato e nel bei mezzo di esso pronuncia le parole: « Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi non prende la sua croce su di sé e non mi segue, non è degno di me » ( Mt 10,37-38 ).
Le medesime parole si indirizzano però in Luca espressamente alle grandi folle ( Lc 14,26-27 ).
La parola del perdere la propria vita viene detta in Matteo soltanto ai discepoli ( Mt 16,25 ), in Giovanni ad una grande moltitudine ( Gv 12,25 ), in Marco infine espressamente « al popolo insieme coi suoi discepoli » ( Mc 8,34 ).
La più impressionante di queste relazioni duplici è il discorso della montagna, che viene tenuto contemporaneamente di fronte al cerchio più ampio e a quello più ristretto: « Vedendo le folle, egli salì sulla montagna e si sedette; venuti a lui i suoi discepoli, egli aprì la bocca e li ammaestrava dicendo: Beati i poveri nello spirito » ( Mt 5,1-2 ), o come è detto in Luca: « Ed egli alzò gli occhi sui suoi discepoli e disse: Beati i poveri » ( Lc 6,20; Lc 12,22-32 ).
Il cerchio più ristretto si chiude attorno al Signore sulla montagna; guardando a questo, insegnando a questo, Egli dona contemporaneamente la sua parola alla grande folla in ascolto, che lo circonda ulteriormente giù in basso.
Così tutto il discorso della montagna acquista una particolare duplicità di fondo e prospettività, che consente sempre entrambe le interpretazioni: una come verità in senso stretto, alla lettera, e l'altra come parabola, come « tendenza » all'interno della vita cristiana nel mondo.
Ad esempio l'istruzione di non preoccuparsi con angoscia per il domani, di non chiedere: cosa mangeremo, cosa berremo, questa istruzione può venir seguita da quelli che hanno lasciato tutto e hanno posto tutta la loro speranza esclusivamente sul Signore in maniera diversamente radicale che da una donna di casa o da un padre di famiglia, i quali la devono intendere più come una linea di orientamento per il loro atteggiamento interiore all'interno delle loro inevitabili preoccupazioni quotidiane.
Ambedue i gruppi vengono dalla stessa parola arricchiti nella misura più alta; dovranno però interpretarla nella maniera loro propria, ed entrambe le maniere di comprendere sono vere, pur in una certa mancanza di passaggio tra l'una e l'altra, poiché esse corrispondono a due stati di vita delimitati l'uno rispetto all'altro.
Può essere che se si osservano le persone nelle loro situazioni concrete le graduazioni di passaggio sono infinitamente continue fra di loro, e che non si possa tirare alcuna precisa linea di separazione fra la comprensione dei discepoli e quella del popolo.
Abbiamo già accennato alla schiera di discepoli più ampia, ai settantadue, alle donne che seguono Gesù, ai suoi amici, alle persone ben disposte.
Ma anche queste graduazioni personali non eliminano l'originaria polarità dei due luoghi di stato di vita ( Standorte ), che ha effetto polarizzante sulla decisione ultima circa il luogo in cui una persona cristianamente sta.
E il luogo di stato di vita, a sua volta, ha effetto decisivo sulla maniera in cui la parola di Dio viene personalmente compresa.
Lo stato d'elezione è chiamato all'assunzione della missione qualificata: perciò gli viene partecipata la grazia di udire la Parola in modo tale che possa venir assunta in ciò anche la missione di Cristo e condotta avanti.
Esso verrà incaricato più tardi di « essere la forma del gregge » ( 1 Pt 5,3 ), il modello a cui la comunità potrà guardare quando essa cerca di realizzare la vita cristiana: « Imitate me, fratelli, e guardate a quelli che così camminano, ed avete così in noi una forma, un modello » ( Fil 3,17 ).
Tuttavia i due stati non stanno in rapporto semplicemente come modello e copia, verità e parabola.
Questo rapporto viene sempre nuovamente incrociato e superato ( uberspieit ) dal fatto della comune vocazione all'amore pieno.
E l'immagine di vita cristiana che il Signore come pure gli Apostoli mettono davanti alla comunità non è affatto una copia sbiadita, un compromesso col mondo, poiché contiene senza riduzioni l'esigenza del totale impegno nella fede, speranza e carità e in tutti gli atteggiamenti cristiani.
Poiché tutti sono chiamati al cambiamento conformemente alla grazia di Cristo, tutti hanno l'obbligo di tendere alla meta dell'amore assoluto.
Il passaggio dal fatto di essere cristiani all'esigenza della vita cristiana perfetta è tanto per Paolo ( Rm 6,1-4 ) quanto per Pietro ( 1 Pt 2,13ss ) come per Giovanni ( 1 Gv 3,16 ) assolutamente necessario, secondo quella logica che è espressione della grazia.
Questa logica è così stringente che vale ancora anche quando apparentemente non le corrisponde nessuna realtà, quando l'immagine ideale della comunità sembra disegnata nel vuoto come un'utopia.
L'esigenza rivolta ai cristiani nel mondo conserva sinceramente la pretesa di essere da parte sua « forma per tutti i credenti » ( 1 Ts 1,7 ), anche se questo stato rimane strutturalmente uno stato dell' « esser divisi ».
E lo stato d'elezione è talmente posto a servizio della comunità, per ripresentare di fronte alla comunità l'ideale che si ha di mira, che questo servizio costituisce tutta la sua giustificazione di esistere.
Esso è dunque ordinato alla comunità come ciò che è secondario ( secundario et instrumentaliter, S Th il li q 184 a 3c ) a ciò che è primario, poiché ultimamente secondo l'ordine cristiano qualcosa può venir posto in posizione dominante solo nella misura in cui si sottopone al subordinato, in base alla vocazione come pure in base all'inclinazione spontanea ( Lc 22,24-26 ).
« Dio ha formato il corpo in modo tale e attribuito alle membra che hanno meno importanza un onore più grande, affinché non ci sia nel corpo disordine alcuno, ma ogni membro in armonia si prenda cura dell'altro » ( 1 Cor 12,24-25 ); affinché lo stato dei non espressamente eletti riconosca quello degli eletti come tale e riceva come modello la sua forma di vita, e lo stato degli eletti si riconosca invece completamente come strumento per lo stato mondano, poiché la relativamente maggiore grazia e conoscenza include anche la relativamente maggiore esigenza di darsi e logorarsi nel servizio ai fratelli.
Viene così ultimamente a sorgere, al posto di una semplicemente unilaterale sovraordinazione ( Uberordnung ) dello stato d'elezione e subordinazione ( Unferordnung ) dello stato mondano all'interno della verità dell'amore, una tutt'altra, reciproca sovra e subordinazione.
I due stati si muovono l'uno sull'altro come due metà complementari di un tutto, in una così particolare articolazione che riceve nell'ordine soprannaturale della Chiesa un significato analogo a quello dei due sessi all'interno dell'ordine naturale.
La subordinazione della donna sotto l'uomo, che viene espressa nel racconto della creazione e rafforzata nel Nuovo Testamento, non contraddice l'uguaglianza di diritti di entrambi davanti a Dio: « Non fu fatto l'uomo per la donna, bensì la donna per l'uomo ( … )
( Ma ) come la donna ha origine dall'uomo, così l'uomo a sua volta nasce dalla donna; tutto però ha origine da Dio » ( 1 Cor 11,9-12 ).
E se la donna « deve essere sottomessa al marito come al Signore, poiché il marito è il capo della moglie », così l'uomo deve darsi nell'amore per sua moglie, « come Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per essa » ( Ef 5,22-25 ).
La sovraordinazione dell'uomo rimane relativa e funzionale, ed obbliga ad un tanto maggiore amore pronto a servire, che come Cristo « non tiene per sé gelosamente la sua uguaglianza con Dio, ma si annienta e prende forma di servo » ( Fil 2,6-7 ).
Una analoga graduazione viene ora fondata anche fra i due stati nella Chiesa, ma solo allo scopo di una reciproca subordinazione nell'amore.
Il crollo dello stato originario paradisiaco come conseguenza del peccato venne mutato dalla grazia riconciliante di Dio in un mezzo di amore più grande, così come l'androgino di Platone si divide nei due sessi e grazie a questa « caduta » dalla sua unità rende possibile il miracolo dell'eros.
Sarebbe troppo presto tirare a questo punto già tutte le conseguenze ecclesiali da questo rapporto fra i due stati, poiché per poter riflettere sull'ordinamento ecclesiale coi suoi ministeri e carismi deve ancora apparire al nostro sguardo la seconda, intraecclesiale, divisione degli stati: quella fra sacerdozio e stato laicale.
Ma questa seconda divisione, ben lungi dal mettere in ombra la prima, viene piuttosto condeterminata da essa.
E precisamente in duplice maniera.
L'arretrare in secondo piano nel servizio, proprio dello stato d'elezione, sarà un presupposto perché il ministero di servizio sacerdotale possa farsi avanti nella sua funzione, e ambedue insieme, stato d'elezione e stato sacerdotale, entreranno a servizio, in quanto elezioni qualitative, dello stato dei non espressamente eletti, conformemente all'istruzione del Signore: « Chi è più grande tra di voi, divenga come il più piccolo; e chi presiede, come colui che serve ».
E per acquisire anche il « come » ancora a partire dal mondo, egli soggiunge: « Chi è infatti più grande? Colui che siede a tavola o colui che serve? Colui che siede a tavola, certamente! Io sono invece in mezzo a voi come uno che serve » ( Lc 22,26s ).
Qui deve stare il « come », ma dove uomini servono uomini esso non può stare.
Indice |