Gli stati di vita del cristiano |
Intenzionalmente si è parlato sin qui della prima separazione, che Gesù fondamentalmente compì chiamando i suoi discepoli fuori dai loro legami terreni, affinché essi fossero presso di lui nella sua missione, con la forma di vita commisurata a questa.
Di un insediamento di sacerdozio neotestamentario si può parlare in un senso pieno solo con la croce e la resurrezione, allorché fu compiuta la morte sacrificale di Gesù che è alla base di ogni nuovo ministero sacerdotale.
I « poteri » di cui Gesù subito all'inizio dota i suoi discepoli non sono ne quelli di Aronne ne quelli episcopali, ma per il momento poteri tali che li rendono capaci di partecipare alla sua evangelizzazione « con potere » ( Mc 1,27 ).
Solo all'Ultima Cena, quando egli si consacra irrevocabilmente nella morte sacrificale, consacra anche i suoi discepoli ( Gv 17,17-19 ).
L'affermazione nel vangelo di Matteo rivolta a Pietro ( Mt 16,18 ) e quella rivolta ai Dodici ( Mt 18,18 ) rimane una promessa previa, che ha il suo posto vero e proprio e il suo adempimento dopo la Pasqua ( Gv 21,15-19 ).
Lo stato dei consigli esiste prima dello stato sacerdotale, e i discepoli vengono condotti dal primo al secondo.
Con ciò viene fissata - al di là di ogni differenza più tardi apparsa possibile e attuata - l'affinità, anzi l'intima appartenenza reciproca delle due forme di vita risultanti in modo speciale dal Nuovo Testamento.
Per poter vedere la necessità di questa affinità occorre solo tornare a guardare all'unità dello stato d'elezione di Cristo che sta prima di ogni distinzione.
Da questa sorgente derivano ambedue le forme di elezione.
Lo stato di Cristo è contrassegnato dal suo stare nella volontà d'amore del Padre, nella perfetta offerta di tutto ciò che ha di proprio a Lui e, per amore di Lui, al mondo.
Questa offerta prende la forma di sacrificio quando il Figlio si incarna nel mondo peccatore per redimerlo.
Espiando in sostituzione vicaria Cristo conferirà al suo essersi offerto e venir accettato quella modalità che fa della sua offerta uno svuotamento di tutto ciò che è proprio, un esser privato di ogni luce per venir gettato nelle tenebre.
Quando il Figlio si presenta davanti al Padre con la disponibilità ad offrire se stesso e a rinunciare a tutto ciò che ha di proprio: alla sua divinità ( che egli può lasciare presso il Padre ), alla sua umanità assunta ( che può perdere nella morte ), addirittura alla per lui indispensabile unione col Padre; quando egli in questa maniera lascia al Padre in povertà, verginità e obbedienza ogni potere di disporre su di sé, diventa allora potenzialmente vittima sacrificata, e il Padre può fare, quando vuole, di questa possibilità una realtà.
L'una e l'altra cosa, l'attivo gesto di disponibilità a lasciarsi sacrificare e il conseguente passivo venir sacrificato, formano nell'atteggiamento interiore del Figlio un'unità, che in entrambe le fasi è ugualmente perfetta.
Per questo il suo sacrificio redentore non inizia solo sul monte degli Ulivi, allorché il Padre comincia a sottrarsi a lui, ma già nell'attimo dell'incarnazione, allorché il Figlio si spoglia della sua uguaglianza a Dio ( Fil 2,7 ) per entrare nella condizione della vittima che offrendo il sacrificio viene a sua volta offerta essa stessa.
Questa condizione, che è connessa alla disposizione interiore dell'amore, è nel suo ( e in qualsiasi ) sacrificio l'elemento propriamente fecondo e redimente.
In quanto dunque l'amore perfetto del Figlio possiede come sue modalità inferiori povertà, verginità e obbedienza e grazie ad esse diventa offerta sacrificale, queste modalità non significano nient'altro che la fondazione del suo sacerdozio.
Infatti il Signore è sacerdote in nessun'altra maniera che divenendo, con l'offrire attivamente, passiva vittima sacrificata.
Ciò che egli offre in sacrifìcio è la propria sostanza divino-umana, qualcosa di talmente prezioso e perfetto da superare di peso tutta la colpa del mondo.
Essendo però questa offerta sacerdotale solo un modo della sua dedizione al Padre, e risiedendo questa dedizione nell'essenza della sua persona divina, diventa evidente che la caratteristica sacerdotale non gli giunge accidentalmente dall'esterno, ma piuttosto egli è consacrato in forza della sua essenza sacerdote per eccellenza, contiene in sé l'idea di ogni « sacerdozio in sé e per sé » ( egli è auto-ierosune ), e conseguentemente ogni vero sacerdozio nel mondo può solo essere una imitazione e partecipazione al suo sacerdozio eterno e assoluto.
Questo significa però immediatamente due cose.
Cristo è sacerdote in quanto egli erige in sé l'unità di ministero e amore; egli detiene la carica sacerdotale solo perché è l'offerta per eccellenza.
E Cristo realizza questa unità di ministero e sacerdozio solo per il fatto che egli è allo stesso tempo l'offerente e l'offerto, il sacrificante e il sacrificato.
Egli assume insieme l'azione sacrificale e la passione sacrificale.
1. Se si considera solo la prima di queste due sintesi potrebbe sembrare che nel Signore la dimensione sacerdotale sia nient'altro che il suo amore.
Tutto il concetto di sacerdozio appare allora come assorbito e trapassato nel concetto di offerta amorosa.
Là dove la sua funzione sacerdotale è al suo culmine, sulla croce, non sembra più esser visibile niente del ministero.
Considerato così egli è, secondo l'insegnamento centrale della Lettera agli Ebrei, il superamento di un sacerdozio ministeriale in cui la funzione non coincide con la persona, e così nemmeno l'azione con la passione.
Il sacerdozio funzionale del Vecchio Testamento era solo una « ombra dei beni futuri » ( Eb 10,1 ), perciò anche legato al tempo e solo nella continua ripetizione poteva ricordare l'unico ma irraggiungibile significato.
Cristo riassume tutti questi sacrifici in sé, ponendo al posto di « olocausti e sacrifici per il peccato » la semplice disponibilità: « Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà! » ( Eb 10,7 ).
« Egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.
Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre ».
« Con il proprio sangue egli è entrato una volta per tutte nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna ».
Se già il sangue degli animali nell'Antico Testamento produceva una purificazione legale, « quanto più il sangue di Cristo, che offrì se stesso come sacrificio senza macchia a Dio, purificherà la vostra coscienza dalle opere morte! » ( Eb 9,12-14 ).
Questo sacrificio è quello della sua « volontà », che è qui per fare la volontà di Dio e che giunge fino a versare il proprio sangue.
È una morte per obbedienza, una morte che fu a tal punto obbedienza che egli superò in sé ogni sacrificio legale ed esteriore e fissò la fine del Vecchio Testamento ( Eb 9,15-16 ).
La legge è d'ora in poi trasferita nella disposizione interiore: « Io pongo la mia legge nei loro cuori e la iscrivo nel loro intimo » ( Eb 10,16 ).
A tal punto il sacrificio di Cristo è compimento e abolizione del precedente sacrificio secondo la legge, che « se Gesù vivesse sulla terra non sarebbe neppure sacerdote » ( Eb 8,4 ).
I sacerdoti infatti attendono solo ad un « servizio che è una copia e un'ombra delle realtà celesti » ( Eb 8,5 ), mentre il perfetto sacrificio di sé del Figlio, « nel quale egli imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » ( Eb 5,8s ), lo insedia in un « sacerdozio che non tramonta », poiché « egli rimane in eterno » ( Eb 7,24 ).
Il Figlio è dunque nell'oggettivo ministero sacerdotale nella misura in cui egli è nell'offerta soggettiva.
Il ministero non costituisce nessun resto, nessuna eccedenza al di là della soggettività della sua offerta e del suo venir accettato.
Per lui non c'è nessun puro e semplice « opus ope-ratum »; egli deve piuttosto fornire l'intera opera sacerdotale e sacrificale fino all'orlo, e la fornisce anche col fatto che egli « nell'amore per i suoi va sino alla fine » ( Gv 13,1 ), in cui « tutto è compiuto ».
Visto così lo stato dei consigli come stato del pieno sacrificio soggettivo ( holocaustum ) appare come l'autentica prosecuzione cristiana dello stato sacerdotale dell'Antico Testamento.
Lo stato dei consigli, uomo o donna che sia colui che vive in esso, sarebbe allora lo stato ecclesiale sacerdotale nel senso più pieno, quello cioè che offre il sacrificio insieme con Cristo.
Maria e Giovanni, che stanno sotto la croce, fondano, in quanto vergini, poveri e obbedienti nell'amore sino all'ultimo, il nuovo stato sacrificale in croce.
Essi hanno ricevuto e scelto come forma della loro vita la forma del Redentore che offre se stesso.
Per Giovanni l'unità di questa forma di vita risulta ovvia: « Da questo conosciamo l'amore, che egli ha dato la sua vita per noi. Anche noi allora dobbiamo dare la vita per i fratelli » ( 1 Gv 3,16 ).
Lo stato dei consigli è la grazia di entrare in questo amore in modo tale che esso divenga forma di una vita umana.
Colui che pronuncia il voto indossa questa vita come un vestito, e deve adattarsi alle intime dimensioni ed esigenze che esso contiene.
Egli deve modellare il proprio corpo finché il vestito che indossa gli vada bene.
Questa forma di vita esige completa offerta di tutto ciò che è proprio: possedimenti, corpo e spirito, al fine di lavorare insieme al Signore all'opera della redenzione.
E giacché il Signore ha redento il mondo con la sua completa obbedienza d'amore ( Fil 2,7 ) e nella vita secondo i consigli tutto ciò che viene offerto si riassume nel voto d'obbedienza ( quia votum oboedientiae continet sub se alia vota: S Th n n q 186 a 8c ), il voto d'obbedienza totale appare come la forma più preferibile di partecipazione alla redenzione, di continuazione dell'obbedienza di croce.
2. E tuttavia sotto molteplici aspetti questo assorbimento di tutta la dimensione ministeriale all'interno dell'amore, di tutto il sacrificio oggettivo nell'esecuzione soggettiva del sacrificio, non può bastare.
Ciascuna delle ragioni che anche nel Nuovo Testamento esigono un'espressa continuazione dell'ufficio sacerdotale unitamente col perfetto amore del Signore è collegata con lo stato di colpa e di redenzione del mondo, ma ognuna in maniera diversa.
a) La ragione più profonda è che il Redentore, che nella Passione assume su di sé e in sé il peccato del mondo, nel suo sacrificio deve a tal punto spogliarsi di ogni amore cosciente e sentito, che la stessa esecuzione del sacrificio nella notte della croce riceve il carattere di ciò che è puramente aggettivo e ministeriale.
E il Padre stesso, che per amore della redenzione nasconde il suo amore nel profondo della notte, appare, come Abramo nei confronti del sacrificio di Isacco, nella pura oggettività e assoluta neutralità del ministero.
È chiaro che ministero non sta qui a significare un confine dell'amore, ma al contrario quel modo in cui l'amore stesso è giunto sino all'estremo dell'offerta, vale a dire del sacrificio di se stesso.
Soffrire nell'amore non è la cosa più difficile, ma rinunciare per amore alla coscienza dell'amore, perdere per amore l'amore stesso, cosicché tutto appare ormai solo come un'esecuzione oggettiva, ministeriale, questa è l'ultima cosa nella sofferenza vicaria del Redentore.
L'elemento formale dell'amore, la assoluta preferenza del volere dell'amato al posto di quello proprio, che altrimenti nella felicità dell'amore rimane nascosto come il cuore nell'organismo, appare, là dove l'amore giunge all'estremo, nella sua nuda formalità e fornisce così la prova che l'amore era realmente amore e nient'altro che amore.
Così sulla croce l'infinito amore tra Padre e Figlio assume la modalità della nuda obbedienza e perciò di ciò che è ministeriale, che significa tanto l'estremo velamento degli amanti l'uno rispetto all'altro, quanto l'estremo svelamento della mancanza di confini del loro illimitato amore reciproco.
Tanto il Figlio quanto il Padre realizzano qui l'opera dell'amore nel reale modo del ministero: il Figlio lasciando che tutto ciò che è soggettivo ( « Se è possibile, passi da me questo calice », Mt 26,39; « Ora l'anima mia è turbata. Padre, che devo dire? Salvami da quest'ora », Gv 12,27 ) si perda nel lasciar adempiere su di sé la volontà del Padre, al di là di tutte le proprie energie ( « Tuttavia sia fatta non la mia volontà, ma la tua ». Lc 22,42;
« Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome », Gv 12,28 ); il Padre volgendosi al figlio con lo sguardo della durezza, anzi: dell'ira per il peccato del mondo: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato! » ( Mt 27,46 ).
Questo è il mistero cristiano della Passione, e qui si vede che per rendere comprensibile l'essenza del ministero nel Nuovo Testamento deve venire addotta, oltre alla prima sintesi attuata nel sacerdote Cristo, la seconda: la sintesi fra azione sacrificale e passione sacrificale.
Infatti solo nella Passione si manifesta visibilmente per gli uomini quel momento formale ultimo della dedizione d'amore, che non solo adesso, ma da sempre era quanto di più intimo v'è nell'amore del Figlio al Padre, e che di conseguenza anche per il futuro, giacché il Signore lascia in eredità il proprio amore alla Chiesa, dovrà essere ciò che caratterizza formalmente la dedizione cristiana: l'obbedienza.
L'erezione, nel bel mezzo del Nuovo Patto dell'amore, di una autorità assoluta come ciò che rende possibile un'obbedienza assoluta sarà quindi la grazia massima che il Redentore poteva conferire alla Chiesa da lui fondata: la grazia di poter insieme a lui addurre la prova dell'amore perfetto, che giunge fino a preferire la volontà di un altro alla propria, anche nella notte del « non capire più ».
Con l'obbedienza assoluta, dunque con l'adempimento dell'Antico Patto sino all'ultimo, sino alla più cieca dedizione alla volontà del Padre, laddove egli non conosce più il Padre e non comprende più il senso dal suo sacrificio, Cristo ha deciso la svolta al Nuovo Patto.
Questa obbedienza, in quanto azione centrale del suo amore, rimane il punto centrale della redenzione e di tutto il Nuovo Testamento.
Se dunque l'esortazione dell'Apostolo « ad avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ( … ) che annientò se stesso e assunse la condizione di schiavo ( … ) e umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte, sino alla morte in croce » ( Fil 2,5.7-8 ) deve aver validità, se i cristiani devono poter prestare realmente questa obbedienza radicale, che va sino all'ultimo, allora deve venir presentata loro un'autorità che è o può diventare altrettanto concreta, vicina e ineludibile, altrettanto esigente e inflessibile come lo fu sulla croce l'autorità del Padre per il Figlio.
Un cristianesimo che volesse raccogliere solo il frutto della croce, la « libertà dell'uomo cristiano », senza voler conoscere l'atteggiamento interiore del Crocifisso, avrebbe lasciato solo il Signore a soffrire, separando i sentimenti del corpo dai sentimenti del capo.
Che l'autorità del Padre per il Figlio abbia realmente il valore di una legge sempre attuale e incarnata nella legge umana egli lo mostra con la sua sottomissione alla legge di Mosé nella circoncisione ( Lc 2,21 ), nella purificazione ( Lc 2,22-24 ), nel pellegrinaggio a Gerusalemme ( Lc 2,42 ), nelle ripetute visite al Tempio in occasione delle feste giudaiche, nell'adeguarnente di tutta la sua vita alle profezie dei padri, che tracciano alla sua vita la pista da seguire ( Gv 12,14 ).
« Io sono disceso dal cielo per fare non la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 6,38 ).
La legge di Dio sta al centro del suo cuore ( Sal 40,9 ), è l'oggetto continuo del suo amore adorante.
Essa è, come dicemmo prima, lo Spirito Santo in lui e sopra di lui, che gli presenta di volta in volta la volontà del Padre, in cui l'Antico Testamento, legge e profeti, è adempiuto e sovradempiuto, il quale però come Spirito divino non cessa di essere per il Figlio incarnato la norma assoluta degna di essere adorata, l'istanza ministeriale per eccellenza.
Così anche nella Chiesa solo un'autorità assoluta, non sminuibile da alcunché, da nessun sentimento, considerazione o opinione umana, è in grado di rendere comprensibile e addirittura eseguibile ai cristiani qualcosa dell'obbedienza d'amore del Figlio nei confronti del Padre.
Il ministero ecclesiale, che in base alla forma esteriore porta in sé tratti veterotestamentari, appartiene così all'intima essenza del Nuovo Testamento.
Esso è ciò che nella Chiesa rende possibile l'obbedienza d'amore neotestamentaria; esso costituisce quell'ostacolo, superare il quale ( 2 Sam 22,30 ) è il compito cristiano.
Con la sua perfetta obbedienza d'amore Cristo ha mostrato, rappresentato in sé e reso nuovamente nota al mondo l'assoluta autorità del Padre.
Egli fu così obbediente che il Padre nella trasparenza dell'amore del Figlio poté impersonare in lui la sua propria autorità.
Già in quanto fattosi uomo il Figlio è il rappresentante di questa autorità del Padre nel mondo, poiché il Padre gli ha conferito tutto il potere di giudicare ( Gv 5,22 ); più che mai egli lo è dopo la sua Passione, giacché il Padre gli dà adesso il nome che è al di sopra di ogni altro nome, « affinché ogni ginocchio si pieghi, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami a gloria di Dio Padre: Gesù Cristo è Signore » ( Fil 2,10-11 ), lui, al quale « è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra » ( Mt 28,18 ).
Come egli dunque rappresenta in tutto il creato, a motivo della sua dedizione obbediente sino alla fine, il ministero e l'autorità del Padre, così egli trasmetterà ora alla sua Chiesa insieme col suo amore anche la sua autorità, che è inseparabile da esso.
Anzi egli non può dotare il nuovo sacerdozio di alcuna autorità più piccola della sua, corrispondentemente al fatto che per lui l'autorità del Padre non è relativizzabile da nulla: « Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me. Ma chi disprezza me, disprezza colui che mi ha mandato » ( Lc 10,16 ).
Infatti: « Come il Padre mi ha mandato, così io mando voi » ( Gv 20,21 ).
E per questo: « Chi riceve uno che io mando, riceve me; ma chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato » ( Gv 13,20 ).
Il parallelismo è ineccepibile, non perché l'uomo a cui viene conferito il ministero sia di per sé in qualche modo paragonabile a Cristo, ma perché il volere del Figlio trasmette alla Chiesa l'autorità che il Padre possiede per lui, affinché essa in nome Suo possa innalzare nei confronti dei credenti richieste incondizionate.
Solo chi realmente si sottomette conosce per esperienza l'amore, e non una semplice immagine apparente di esso, che significa in realtà ricerca di sé, egoismo.
E non in terreno neutrale si gioca la decisione circa l'amore, là dove facilmente ci si può comprendere al di là delle opposte opinioni, ma nella prova più difficile, dove l'autonomia propria dell'apostolo davvero « viene fatta prigioniera, per renderla soggetta all'obbedienza al Cristo » ( 2 Cor 10,5 ).
Se però questa obbedienza per la salvezza dell'umanità la deve prestare il cristiano, allora essa esige dal Fondatore della Chiesa la garanzia assoluta che l'autorità a cui egli la deve prestare sia di origine divina e stia al posto stesso di Dio.
b) Da questa prima ragione per la prosecuzione della dimensione ministeriale nel Nuovo Testamento si possono dedurre e mettere in ordine le altre.
Esse erano necessarie tanto per coloro che dovevano seguire il Signore nell'amore perfetto ( ratione caritatis ), quanto per quelli che attraverso il ministero e l'autorità dovevano venir educati, partendo da un amore imperfetto o dal timore, all'amore perfetto ( ratione timoris ).
Quelli che pronunciano il voto d'obbedienza nello « status perfectionis », voto che comprende in sé tutti gli altri voti ( S Th, loc. cit. ), si sottomettono volontariamente all'obbedienza di croce del Signore.
L'aspetto ministeriale che giace nell'obbedienza secondo i consigli corrisponde dunque, a motivo della sua piena volontarietà, molto di più alla pura obbedienza d'amore neotestamentaria che ad una continuazione dell'obbedienza ministeriale veterotestamentaria prima dell'amore o accanto ad esso.
Poiché però da una parte non tutti quelli che hanno pronunciato il voto d'obbedienza possiedono l'amore perfetto, oppure talvolta si allontanano da esso, e poiché d'altra parte la moltitudine di quelli che non sono scelti per questo stato e che tuttavia sono chiamati all'amore perfetto è parimenti rinviata all'assoluta obbedienza nella Chiesa e può rivendicare il diritto ad essa, doveva perciò un vero e proprio ministero presbiterale impersonare per l'insieme della Chiesa quello che il superiore rappresenta all'interno di una comunità religiosa: l'autorità divina.
E poiché anche gli ordini religiosi sono solo una parte della Chiesa, e l'insediamento da parte del Signore del ministero ecclesiastico concerne la Chiesa intera, stanno perciò anche gli ordini religiosi e le altre forme di vita dello Stato dei consigli sotto l'autorità ecclesiastica.
Questo soprattutto perché il ministero ecclesiastico va ampiamente al di là di una semplice rappresentazione astratta dell'autorità divina.
Esso deve piuttosto trasmettere all'interno del suo potere d'ufficio l'intera pienezza della concreta presenza del Signore nella Chiesa e la elargizione sacramentale della sua grazia.
La grazia del Signore, infatti, volle aiutare in ogni suo stato la natura decaduta non semplicemente con un invisibile completamento della sua continua carenza, ma volle donare ad essa questo sovrabbondante completamento in segni visibili, corrispondenti alla dimensione corporale dell'uomo, dipendente dai sensi, segni nei quali il continuo aiuto dall'alto si fa visibile anche qui e ora, nella nostra temporalità e nel nostro spazio.
Non solo volle Cristo rimaner presente nella sua Chiesa per ogni tempo, ma piuttosto dovevano anche i suoi aver sempre davanti agli occhi i segni evidenti che garantissero questa presenza.
Essi dovevano non solo poter vedere le più o meno difettose approssimazioni all'ideale del suo perfetto sacerdozio, ma vedere, velato nei segni ma per la fede amante davvero visibile, questo stesso perfetto sacerdozio.
Ed essi dovevano allo stesso tempo trovare che lo scarto tra questa perfezione e la loro propria imperfezione è sempre di nuovo superato dalla grazia del Signore, poiché egli li attira giorno dopo giorno nel suo proprio sacrificio, che realmente continua a vivere: come sacrificante nell'atto sacrificale della S. Messa, come sacrificato nella Comunione, non più nella contrapposizione di immagine archetipa ( Urbild ) e immagine derivata( Nachbild ), ma in una unificazione, quale l'inventa l'amore di Dio.
Tutto questo, però, il Cristo vivente lo opera attraverso il suo Spirito Santo, che oramai nel ministero ecclesiale opera e media con la stessa oggettività con cui il Figlio sulla terra aveva efficacemente e « sostanziosamente » mediato la volontà paterna: « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato » ( Gv 4,34 ).
E ancora una volta lo Spirito normatore nel ministero ecclesiale non è qualcosa di estraneo, ma il medesimo che come amore è stato riversato nelle anime dei credenti ( Rm 5,5 ).
E ciò che vale per la realtà del sacrificio continuamente operante e per i sette sacramenti che si irradiano a partire da questo centro della Messa vale anche necessariamente per le altre funzioni del Signore: per la sua perfetta rappresentazione della verità del Padre, in quanto egli è la sua Parola ( « Io infatti non ho parlato da me stesso; il Padre che mi ha mandato, egli stesso mi ha ordinato che cosa devo dire e annunziare », Gv 12,49 ) e per la sua perfetta rappresentazione dell'autorità del Padre, in quanto il Figlio ha da rappresentare nel mondo tutta la sua signorìa e cura di pastore ( « II Padre non giudica nessuno, ma ha rimesso ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre », Gv 5,22).
( « Il Padre mio che me le ha date - le mie pecore - è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalle mani del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola », Gv 10,29-30 ).
Così Cristo come sacerdote è allo stesso tempo maestro e pastore, perché l'amore del Padre è una cosa sola con la sua verità e la sua gloria.
E Cristo non potrebbe rimanere presente nella sua Chiesa veracemente e credibilmente se questa non ricevesse in consegna anche una rappresentazione sensibile ( sinnfällige ) del suo potere assoluto di insegnare e di guidare.
Una Chiesa che amministri il sacerdozio e la parola di Cristo, ma non rappresenti la sua potestà di guidare come pastore, non può essere la Chiesa del Signore; essa non rappresenterebbe per gli uomini nel mondo l'intera essenza del Redentore.
Cristo ha infatti trasmesso anche esplicitamente alla sua Chiesa tutti e tre gli uffici: quello sacerdotale, quello dell'insegnamento e quello pastorale ( Mt 16,18; Mt 18,18; Mt 28,18s; Lc 10,16; Lc 22,19; Lc 24,47s; Gv 20,23; Gv 21,15s ).
L'effettività della trasmissione di questi uffici non è qui da dimostrare.
Essa è espressa nel Vangelo in maniera sufficientemente chiara.
Piuttosto ciò che è decisivo adesso è che il Signore ha trasmesso questi ministeri ad una piccola schiera di eletti, ai suoi apostoli, che egli ha educato con lunga pazienza a queste funzioni ecclesiali.
La trasmissione degli uffici avviene gradualmente, come se il Signore volesse abituarli alla nuova esistenza, il cui nucleo è rappresentare ministerialmente il Signore.
Pietro, il rappresentante primo del ministero ecclesiale, ottiene nel primo incontro un nuovo nome; con ciò viene mostrato che egli d'ora in poi non condurrà più un'esistenza privata, ma è spersonalizzato e inserito nella funzione da esercitare.
Gli viene fatto vedere che in forza della sua fede egli può tutto, addirittura camminare sulle acque, addirittura riconoscere il Figlio di Dio esattamente per quello che è, ma non può niente per forza propria, allorché egli esprime con ostinazione intenzioni che sono opposte a quelle che ha la Grazia.
Egli deve venir trattato come « Satana » ( Mt 16,22-23 ), nella sua spavalderia di voler morire insieme col Signore non si lascia ammonire ( Mt 26,33s ), infine rinnega tre volte ( Mt 26,69s ).
E in questo fallimento, desolante, dell'essere quello che è, Pietro viene insediato nella funzione definitiva, il pascere le pecore del Signore ( Gv 21,15-17 ).
Il carattere e la sorte di Pietro vengono descritti cosi accuratamente solo perché egli è il primo tra i suoi compagni di ministero, molti dei quali nella loro bonaria ingenuità attraverso un sempre nuovo fallimento, ultimamente attraverso la loro vergognosa fuga davanti alla Passione, devono venir educati a distinguere tra persona e ufficio, a separare l'importanza del loro ministero, che ha le dimensioni del Signore, dalla irrilevanza di loro stessi, per divenire così adeguati funzionari del Signore.
Mentre essi conoscono per esperienza la propria non corrispondenza viene loro donata l'umiltà, che forma la base per l'aspetto gerarchico.
« Allontanati da me. Signore, perché sono un peccatore! » è la base per la promessa di divenire pescatore di uomini ( Lc 5,8-10 ).
« Tu non mi laverai i piedi in eterno! » è il presupposto per la comprensione della Chiesa, che senza il Sacramento non si ha « parte alcuna » a Gesù ( Gv 13,6-10 ).
E la bruciante vergogna di dover confessare tre volte il proprio amore dopo aver rinnegato tre volte, è la giusta disposizione d'animo per venir insediato nella dignità gerarchica.
Solo sulla base di questa aperta discrepanza tra ministero e persona, che esclude per sempre ogni identificazione, viene conferito lo Spirito Santo, che dona all'autorità la spregiudicatezza ( parresìa ) e conferisce non soltanto oggettivamente la giusta attuazione delle funzioni sacerdotali, la garanzia dell'assolutezza di insegnamento e guida, ma anche soggettivamente rende sostenibile il peso di un ufficio divino.
L'educazione al ministero contiene da una parte un continuo incoraggiamento all'audacia della fede al di là delle capacità umane, ma d'altra parte un perdurante ammonimento a non ascrivere il successo a se stessi e a non scambiare l'incremento dell'operare di Dio attraverso il funzionario con la sua propria crescita in « virtù » e « perfezione ».
Fino all'ultimo Pietro viene umiliato; anche l'ultima parola del Signore a lui, dopo il suo giuramento d'amore, è un secco « A te che importa? » ( Gv 21,22 ).
Queste umiliazioni significano per Pietro e i suoi pari l'indispensabile aiuto della Grazia ad essere nel ministero veramente servitori di tutti ( Mt 20,27 ), e in ciò, nell'intensa esecuzione dell'incarico, a esser conscio che egli non è mai corrispondente a ciò che dovrebbe.
« Si riterrà [ il padrone ] obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare » ( Lc 17,9-10 ).
Non c'è per il ministero conferito nessuna umana forma di vita che corrisponda pienamente alla grandezza dell'incarico divino.
Come dovrebbe un uomo corrispondere al fatto che egli può amministrare la parola di Dio, può distribuire le grazie di Dio, può dire in nome del Figlio: « Questo è il mio corpo » e: « Ti assolvo dai tuoi peccati », al fatto che egli può sciogliere e legare in modo tale che la sua azione viene patimenti eseguita in cielo?
Solo la coscienza, penetrante sino in fondo al suo essere, di un'irrecuperabile indegnità può essere la balbettante risposta dell'eletto al ministero conferitegli.
E questo sebbene egli debba impegnarsi, per dovere e per gratitudine, a lasciare che Dio stesso cambi forma a tutta la sua esistenza nel senso del suo ministero.
Questa evidenza dell'assoluta inadeguazione tra persona e ministero resta punto di partenza e punto d'arrivo dell'autorità ecclesiale.
Essa aiuta colui che è caricato del ministero a portarlo, e colui che deve obbedirgli a scorgere attraverso la persona ( anche attraverso le debolezze di colui che riveste l'ufficio ) il divino che egli amministra.
L'amore del Signore, che conferisce alla Chiesa questa forma di autorità ministeriale, è per entrambi il contenuto e la ragione sufficiente dell'esistenza del ministero; solo così viene garantita l'integrità della presenza dell'amore redentore come sacrificio, come verità e come signoria.
La forma in cui questo amore viene reso presente nella Chiesa significa necessariamente anche una certa mutata continuazione di ciò che è veterotestamentario.
Fintanto che gli uomini sono peccatori non si può prescindere dalla forma dell'autorità, neanche quando l'amore perfetto è il contenuto e il fine dell'obbedienza autoritativa.
Un momento di timore - poiché la sanzione per la non osservanza della competenza ministeriale le viene insieme data, lungo la via: « Chi disprezza voi, disprezza me » ( Lc 10,16 ) - non è da pensare come eliminabile dal ministero ecclesiastico.
La forma dell'autorità è inseparabile dal Nuovo Testamento, poiché il Signore entra in scena con l'autorità del Padre come un giudice e separatore, e perché il suo ufficio non è quello, qui sulla terra, in mezzo al disprezzo e al rinnegamento di Dio, di far sciogliere tutto a contatto con l'amore.
Come la ebbe il Redentore fino alla croce, così la Chiesa ha una figura adeguata al mondo che si trova nel peccato.
Certo « nell'amore non c'è timore; al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore » ( 1 Gv 4,18 ).
Ma chi di noi ha poi amore perfetto? Chi non ha bisogno continuamente anche del timore?
E precisamente un timore della massima serietà, come quello con cui Paolo intende adombrare anche le sue immagini più luminose ( Gal 6,12; Eb 6,4ss; Eb 10,26-31 ), e che fino all'irruzione del mondo nuovo ( Ap 21 ) in incalzanti visioni di terrore non cessa mai di animare la Rivelazione e attualizza così ancora una volta alla fine della Scrittura l'intera dottrina del giudizio finale dell'Antico Testamento.
Alla fine però la forma dell'autorità diventa il nucleo dell'amore neotestamentario, poiché proprio l'opera della redenzione si compie, come abbiamo visto, in questa forma ministeriale.
Diversamente che nella durezza del sacrificio dell'obbedienza non era ripristinabile l'originaria obbedienza d'amore dell'Eden, che adempiva il comandamento di Dio come la cosa più ovvia.
Nell'Eden l'obbedienza all'autorità di Dio non si era distinta dal semplice atteggiamento della fede e dell'amore.
Se allora fossero stati impartiti da Dio a singoli uomini incarichi obbliganti per tutta la comunità, sarebbe ancora una volta stato sufficiente l'amore per fornire gli incaricati della necessaria autorità e per farli apparire degni di fede davanti agli altri.
Solo il peccato ha provocato la fuoriuscita dell'elemento formale dell'obbedienza dall'amore vissuto in pienezza e felicità; così esso dovette essere messo a nudo sulla croce e poi impersonato nel sacerdozio ministeriale della Chiesa.
La dimensione ministeriale si tende così tutt'attorno alla distanza fra l'amore perfetto e quello imperfetto: se esso è nella Chiesa espressione del fatto che l'amore pieno non è raggiunto ( poiché l'oggettività dell'opus operafum supera in ogni aspetto la misura della dedizione soggettiva ), nella Croce esso è il segno che la dedizione soggettiva è giunta sino alla sottomissione nella cieca obbedienza.
I due aspetti del ministero non sono nella Chiesa nettamente separabili.
Non c'è qui una « obbedienza forzata » per gli imperfetti e là una « obbedienza d'amore » per i perfetti.
Piuttosto il ministero ecclesiale sottende entrambe le forme, essendo esso ordinato a condurre dolcemente ma inesorabilmente attraverso i molteplici gradi di coercizione verso la spontaneità, e attraverso il « timore » verso la mancanza di timore.
Ed è del tutto possibile che l'autorità ecclesiale si dia dolce e pena d'amore verso la persona nei riguardi di uno che è imperfetto, mentre nel caso di un progredito essa non ha più bisogno di usare questa concessione, e lo mette a confronto perciò con la pura ministerialità, corrispondentemente alla sequela della Croce.
Così poi anche l'obbedienza dello stato dei consigli, che di fronte a quella comune a tutta la Chiesa è fatta risaltare come qualcosa di speciale, come pura espressione d'amore e non come opera di timore, può tuttavia ultimamente non avere altra forma che quella dell'obbedienza cristiana in generale, quale viene richiesta ad ogni cristiano nei confronti del ministero ecclesiastico: sottomissione dell'intelletto e della volontà nella fede e nell'amore sotto una legge che certo è imposta dall'amore, ma che non necessariamente ha bisogno di venir vista e sperimentata continuamente come amore.
E l'obbedienza ecclesiale ministeriale tenderà, corrispondentemente alla sua ultima tendenza, alla forma dell'obbedienza secondo i consigli, poiché nella sua totalità essa è una derivazione e una ripresentazione della pura obbedienza d'amore del Signore.
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